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Appuntamenti al buio

Dopo la nuova edizione del “Manifesto comunista” di Marx ed Engels, il collettivo “C17” ha dato alle stampe “Comunismo necessario. Manifesto a più voci per il XXI secolo” (ed. Mimesis). Lo presentiamo attraverso il testo inedito, in esso contenuto, del filosofo Paolo Virno

Intro. Il mondo è malato, il mondo è alla fine del mondo.

Non saremmo i primi a parlare di rivoluzione, con l’Apocalisse che incombe. Una lunga tradizione, secolare, ci precede. Il cigno nero COVID-19 – e i materialisti, a differenza degli adoratori della forma, credono al caso – forse non era così imprevedibile. Ma non è ciò che davvero conta. La verità è la distruzione sistematica e decennale della Sanità pubblica; veri sono padroni e padroncini che non fermano la produzione, esponendo al contagio e alla morte i propri dipendenti; reali, i miliardi che riempiranno nuovamente le tasche di banche e imprese, come se quanto accaduto dopo il 2007 non fosse bastato. Non ci vuole un meteorologo per capire che il disastro occupazionale è dietro l’angolo, che la pandemia avrà effetti simili a quelli delle guerre mondiali dello scorso secolo. Saremo più poveri, ma saremo anche più soli: nella distanza, che la quarantena di massa ci impone, perderemo la capacità di fare esperienza, di sentire il corpo altrui.

Eppure, proprio ora una comune esperienza, un trauma, ci costringe a pensare in grande: solo la solidarietà difende la vita, solo l’indignazione difende la solidarietà. Il comunismo non è un miraggio sepolto, ma il programma minimo per salvare la pelle. Intendendo, con la pelle, anche la carne, l’elemento che sta tra noi, che ci fa e che facciamo. Intendendo la specie che siamo, che è comune solo perché è anche singolare, essendo ciascun individuo una variazione sul tema. Oggi che la moneta non ha più referenza, ma è solo comando; che la fatica sotto padrone è parassitaria; oggi che la mente collettiva rischia di collassare sotto i colpi del panico generalizzato: adesso è vitale riprenderci la ricchezza che in società non smettiamo di produrre. Il neoliberalismo, che ha la capacità di adattamento di un virus, come questo si avvinghia alla cooperazione e all’intelligenza collettiva, generando in combinazione il massimo di socializzazione del lavoro, e della dipendenza onnilaterale, col massimo di misantropia. Equilibrio impossibile, fatto solo dell’alternanza di euforia e picchi depressivi, ora non fa altro che aggravare la catastrofe. Il comunismo, ovvero l’uso comune della comune potenza della specie, è il nome dell’alternativa.

Arriva dunque al momento giusto il volume curato dal collettivo “C17” per i titoli Mimesis, Comunismo necessario. Manifesto a più voci per il XXI secolo. Il libro raccoglie parte degli interventi che animarono la Conferenza sul comunismo del gennaio 2017 e saggi inediti, esperimenti di pensiero da quella Conferenza, e dalle battaglie di tutti giorni, sollecitati. DINAMOpress ha il piacere di presentare Comunismo necessario pubblicando il testo inedito, in esso contenuto, di Paolo Virno, al quale va la gratitudine della redazione. [Francesco Raparelli]

 

Sostanza di cose sperate

Questa sessione ha per titolo “Chi sono i comunisti?”. A prima vista sembra una domanda delicata e perfino imbarazzante, il cui scopo è mettere a fuoco un tipo umano, una disposizione psicologica, una tensione etica. Vorrei provare, sulla scia di ciò che Toni ha appena detto, a rispondere in maniera niente affatto imbarazzata, e neanche delicata, al quesito fatale. Ai materialisti poveri di spirito, sempre annoiati dalle disposizioni psicologiche e dai tipi umani, interessa piuttosto una ubicazione obiettiva, non meno impersonale di un incrocio stradale, nella mappa topografica del nostro presente. La curiosità di sapere “chi sono i comunisti” può essere soddisfatta soltanto dalla descrizione del luogo mentale e materiale nel quale, anche senza proporselo, costoro finiscono per mettere le tende.

Comunisti sono, oggi, i giovanissimi e i declinanti che hanno metabolizzato una rottura irreversibile con la sinistra, con la sua risibile dottrina e la sua prassi benefica quanto un gas urticante. Chi è comunista, come già da tempo chi utilizza il laboratorio marxiano per comprendere le forme di vita contemporanee, nulla ha da spartire con l’adorazione dello Stato, l’esaltazione del lavoro salariato, l’idea di uguaglianza che la sinistra ha sfoggiato a mo’ di carta di identità lungo un intero secolo. Comunisti, quindi non di sinistra: ecco una pacata e incontrovertibile inferenza. Dal voto a favore dei crediti di guerra nel 1914 fino alla “politica dei sacrifici” di Berlinguer negli anni Settanta, la sinistra non è stata una versione timida e morigerata dell’istanza comunista, ma la sua negazione radicale, non di rado incline al pogrom. Dirsi comunisti, oggi, significa consegnare a una bancarella di cianfrusaglie l’album di famiglia che pretende di assimilarci a progressisti e riformatori sempre pronti a denunciare con sdegno l’illegalità di un sabotaggio operaio.

«Sostanza di cose sperate» è una delle espressioni più toccanti del Paradiso di Dante Alighieri. Facciamola nostra per qualche minuto: nessuno se ne avrà a male, spero. Sostanza di cose sperate dei comunisti è, ora più che mai, l’abolizione del lavoro salariato. Diceva Marx che esso non va liberato, dato che in tutti i paesi moderni è già libero sotto il profilo giuridico, ma soppresso come una disgrazia intollerabile. Oltre a costituire fin dal principio una calamità, negli ultimi decenni il lavoro salariato è diventato anche un costo sociale eccessivo. Vi è qualcosa di superfluo, anzi di parassitario, nella prestazione sotto padrone allorché il pensiero e il linguaggio mostrano di essere la pubblica risorsa, ossia il bene comune, che più concorre a soddisfare bisogni e desideri. Per chi fosse a rota di frasette marxiane: vi è qualcosa di parassitario nel lavoro salariato allorché il processo di riproduzione della vita è affidato al general intellect, all’intelletto generale di una moltitudine.

Sostanza di cose sperate dei comunisti è, poi, la distruzione della sovranità statale. A patto di adottare per un momento almeno la definizione che di quest’ultima ha proposto un giurista nazista, vezzeggiato senza ritegno dai filosofi di sinistra negli ultimi trent’anni. Secondo Carl Schmitt, la sovranità statale consiste per intero nel «monopolio della decisione politica».

Ebbene, sono comunisti coloro che, lungi dal progettare il suo trasferimento a un diverso soggetto sociale, intendono minare ed estinguere un monopolio siffatto. Rifuggendo la “presa del potere”, l’antimonopolismo dei comunisti si avvale di ogni genere di tattiche: oculati compromessi e guerriglia spietata, referendum e invenzione di istituzioni autorevoli proprio perché illegali, secessione e partecipazione. La parola-chiave della prassi comunista, cioè l’esodo, indica innanzitutto l’insieme assai variegato di decisioni politiche che consentono di lasciarsi alle spalle l’Egitto in cui vige il monopolio della decisione politica.

La terza, dantesca, sostanza di cose sperate dei comunisti è la meticolosa valorizzazione di tutto ciò che di unico e irripetibile è racchiuso nell’esistenza di ogni membro della nostra specie. Si potrebbe dire che i comunisti odierni assaporano la possibilità di un individualismo finalmente non caricaturale. Di un individualismo, dunque, in cui la singolarità del singolo sia il risultato complesso della relazione con quanto è massimamente comune, condiviso, impersonale. Il pronome ‘io’ discende dal famigerato e però degnissimo ‘si’ (si parla, si gioca, si ama ecc.). A questa discendenza ha alluso Marx con il sintagma «individuo sociale». È la trama collettiva dell’esperienza («sociale») a far balenare infine una incomparabile variazione («individuo»). I cultori di Walter Benjamin affermeranno che la riproducibilità tecnica di gesti ed enunciati apre la strada a una sorprendente unicità senza aura. Più in generale: la soppressione del lavoro salariato e la dissoluzione del monopolio della decisione politica riabilitano quel procedimento mai lineare che molti pensatori di rango, alcuni dei quali noti a Dante, hanno chiamato principium individuationis, principio di individuazione.

 

Glossa sul fascismo postmoderno

Neanche sotto tortura – intendo: neanche con gli elettrodi poggiati sugli organi genitali – i comunisti accetteranno di pronunciare con serietà la parola ‘populismo’. È di gran lunga meno disonorevole recitare l’Ave Maria non appena ci si imbatte in un poliziotto della squadra politica. Le litanie sul populismo servono soltanto a eludere un dato di fatto spigoloso e difficile da padroneggiare. Questo: le forme di vita in cui si radicano le tre istanze (o sostanze di cose sperate) che definiscono il luogo di residenza dei comunisti odierni sono anche il teatro di una nuova forma di fascismo. La crisi della società del lavoro, la corrosione del monopolio statale della decisione politica, il gusto accresciuto della singolarità, se non si traducono in un conflitto capace di infragilire il rapporto di produzione capitalistico, danno e daranno adito a convulsioni cannibaliche che, in mancanza di meglio, chiamo senza esitazioni fascismo postmoderno.

Grazie tante: so anch’io che il fascismo storico, in assonanza con il New Deal roosveltiano, esaltò e militarizzò il lavoro di fabbrica, assegnò un ruolo strategico allo Stato nella costruzione dell’economia di piano; denigrò le imponderabili parabole biografiche a favore dell’anonimato nazionalista. Ma allora, si obietterà con le sopracciglia corrucciate, non è un errore plateale rimettere in circolazione un termine così ingombrante qual è ‘fascismo’ a proposito di una spirale di violenze istituzionali ed extraistituzionali che in nulla rimanda all’antico prototipo? Credo di no. Mi sembra opportuno, anzi necessario, parlare di fascismo quando non si ha da sbrigarsela con velleità reazionarie covate nelle stanze chiuse di Ministeri e questure, ma con comportamenti adottati sotto il vasto cielo dalla moltitudine postfordista; quando la spinta alla sopraffazione e al linciaggio non alligna nel potere costituito, ma nelle sedi mobili e camaleontiche di ciò che abbiamo chiamato con fierezza potere costituente; quando la predilezione per la singolarità, che pure trae origine da tutto quel che di comune e di condiviso vi è nell’esperienza immediata, si converte in una metastasi di gerarchie talmente minuziose da riguardare persino l’incontro più fugace.

Comunisti, oggi, sono coloro che percepiscono l’intrinseca ambivalenza dei processi in corso. Coloro che sanno di stare in bilico su un crinale attorno al quale non vi sono miti pendii, rassicuranti chiaroscuri, insipidi tafferugli tra “europeisti” e “populisti”. Coloro che scorgono l’autentico piedistallo di un fascismo all’altezza dei tempi nella nostra persistente impotenza a sabotare l’accumulazione capitalistica, a turbare con qualche rudezza la formazione del plusvalore assoluto e relativo.

 

 

 

Il tempo uscito dai cardini

Mi sono dilungato dissennatamente in preamboli giudiziosi. Sarò fin troppo conciso, quindi, riguardo a ciò che più conta. E ciò che più conta è delineare il problema saliente con cui deve misurarsi l’attività pratica dei comunisti contemporanei. Il problema che, se affrontato con pazienza intrisa di fantasia, autorizza a definirsi sia ‘comunisti’ sia ‘contemporanei’. Il problema che mostra di essere, insieme, occasione quanto mai propizia e difficoltà pressoché insuperabile. Se si evitasse di additare il punto di applicazione privilegiato dell’iniziativa comunista, una riunione come questa somiglierebbe fatalmente alla seduta plenaria di una accademia marginale, sommando in sé tutti i difetti dell’accademia e della marginalità, senza però disporre della potenza istituzionale di cui gode la prima né dell’indole trasgressiva e sperimentale che contraddistingue talvolta la seconda.

Ma ecco il problema radioattivo, a proposito del quale vale la pena di collezionare molti fallimenti istruttivi. Il tempo sociale è uscito dai cardini; il capitalismo postfordista, imitando a suo modo i comunardi, sembra aver sparato sui pubblici orologi; le clessidre cui ricorriamo per calcolare ore e giorni battono la fiacca, paralizzate da troppa sabbia. Viviamo nell’epoca in cui più non sussiste alcuna attendibile linea di confine tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. Il tempo di lavoro (del travaglio, come dicono a Napoli, restituendo una sfumatura di pena e dolore al francese ‘travailler’), se dapprima sembra ridotto a porzione insignificante della giornata di una giovane donna o di un signore di mezza età, subito dopo dà l’impressione di colonizzare anche le ore dedicate alla cura di sé, all’apprendimento, alla comunicazione spericolata e ribelle. Specularmente, il tempo di non-lavoro, per esempio quello incardinato alla politica o centellinato nella ricerca del piacere, si presenta a tratti come un territorio affrancato dalla compravendita della forza-lavoro, più spesso però come training indefesso dell’«insieme di facoltà intellettuali e fisiche insite in un corpo umano» (cioè della forza-lavoro, stando alla definizione del solito Marx), ovvero come affinamento di attitudini e competenze che fungono da indispensabile “cassetta degli attrezzi” nel posto di lavoro. Per eseguire a dovere le mansioni prescritte in fabbrica o in ufficio, nel call center o nell’agenzia di riders, bisogna acquisire il cinismo e l’opportunismo con cui salviamo la pelle nei meandri della metropoli.

Un amico dolcissimo e severo, Luciano Ferrari Bravo, una mattina mi sorprese, nella nostra cella del carcere di Palmi, a leggere il secondo libro del Capitale di Marx, piccolo capolavoro per lo più trascurato. «Un po’ tardi, no?», osservò con un sorriso ironico.

Mi torna in mente Luciano, comunista imprigionato da giudici di sinistra simili in tutto a teppisti di periferia, perché è nel secondo libro del Capitale che Marx introduce una distinzione importante, di cui possiamo servirci senza troppi scrupoli filologici per dare conto alla meno peggio del tempo uscito dai cardini. Marx distingue il tempo di lavoro strettamente inteso, perimetrato da regolamenti minuziosi e imperiosi contratti, dall’assai più ampio tempo di produzione, caratterizzato invece da una stupefacente duttilità e pervasività. E sostiene che il magmatico tempo di produzione è una appendice del nitido e calcolabile tempo di lavoro, così come in matematica un argomento trae il suo significato dalla funzione in cui è inserito. Ebbene, oggi, la relazione tra i due ambiti temporali si è rovesciata. Nel capitalismo attuale, libero finanche dal ricordo del fordismo e del taylorismo, non è il tempo di produzione a dipendere dal tempo di lavoro, come la conseguenza dalla premessa o la luce diffusa dalla lampadina. Tutt’al contrario, il tempo di lavoro è diventato una manifestazione fenomenica e occasionale (quindi anche intermittente, precaria, parttime) di quel tempo di produzione nel quale prevale il general intellect, la rete di conoscenze e di performances linguistiche che di esso costituiscono la trama. La “professionalità” richiesta ossessivamente nel tempo di produzione non corrisponde ad alcuna professione determinata, coincidendo piuttosto con l’abitudine a non avere durevoli abitudini e la capacità di reagire con prontezza all’imprevisto. Il plusvalore è generato dal tempo di produzione, non soltanto né soprattutto da quel suo tassello che è il tempo di lavoro. Sicché, non farnetica chi considera la disoccupazione e la prestazione sotto padrone due maschere indossate da un unico personaggio: tempo di produzione non retribuito, la prima; tempo di produzione sottopagato, la seconda.

 

Un nuovo calendario

Si scorge a occhio nudo, ora, il problema con cui l’attività pratica dei comunisti contemporanei dovrebbe ingaggiare un tenace corpo a corpo. Si tratta di organizzare, in quanto tale, un tempo di produzione che include in sé, come sua componente sempre subordinata e spesso marginale, il tempo di lavoro propriamente detto, quello affollato di capetti e ricatti e vessazioni. Un altro modo di dire la stessa cosa: ai comunisti contemporanei spetta il compito di istituire un nuovo calendario, finalmente adeguato al tempo sociale uscito dai cardini. E questo nuovo calendario può scaturire soltanto da conflitti che rispecchino, tanto negli obiettivi che nelle forme di lotta via via escogitate, l’inestricabile commistione di lavoro e non-lavoro. Da conflitti che, puntando proprio e soltanto a un aumento salariale per i precari di Amazon, si ritrovano tuttavia, per interna necessità, ad abbozzare istituti di democrazia non statale in grado di emettere decreti di qualche efficacia circa il funzionamento della sfera pubblica.

Ed ecco l’occasione propizia che però, qui e ora, serba ancora la fisionomia di una difficoltà insuperabile. Una vertenza rilevante, e soprattutto vincente, sulle condizioni materiali del lavoro salariato non può non chiamare in causa le relazioni sociali extralavorative, i processi di formazione della forza-lavoro, i modi di vivere prevalenti, l’uso di quel bene comune che è il linguaggio. Detto altrimenti: la lotta di classe capace di incidere sul tempo di produzione complessivo, più è concreta, cocciutamente tattica, decisa a ottenere risultati tangibili, più si vede obbligata a inaugurare nuove istituzioni, istituzioni in rotta di collisione con il monopolio della decisione politica.

Volendo citare per una volta un autore diverso da Marx: «abbàssati e sarai innalzato». Una rivendicazione assai modesta è condannata a intraprendere suo malgrado un tragitto di sfrenata ambizione. Il primo conflitto degno di nota del lavoro precario somiglierà alla proclamazione della Comune di Parigi. Inventare qualcosa di analogo alle forme di autogoverno sperimentate dalla Comune pur di ridurre gli straordinari: grande è la posta in palio, altrettanto grande può essere l’impasse, il sentimento di impotenza, l’impressione di partecipare a una danza votiva. La lotta per la riduzione degli straordinari implica la Comune: occasione propizia. Ma senza la Comune, niente lotta per la riduzione degli straordinari: difficoltà a prima vista insuperabile. Chi sono i comunisti? Coloro che, strabici quel che basta, colgono a un tempo l’occasione e la difficoltà; o meglio, che ravvisano la prima in seno alla seconda.

 

 

Natura umana e capitalismo

Venti anni fa, abbiamo parlato insistentemente di lavoro cognitivo e di intellettualità di massa. È stata la nostra nenia prediletta, la giaculatoria che ci parve più appropriata al paesaggio materiale e culturale delineatosi dopo la sconfitta della rivoluzione comunista alla fine degli anni Settanta. Con questi termini abbastanza trasandati tentammo di nominare due fenomeni congiunti tra loro come fratelli siamesi. Lavoro cognitivo, o intellettualità di massa, è anzitutto l’attività umana che, mai limitata alle ore trascorse in fabbrica o in ufficio, presidia l’intero tempo di produzione sociale. Intellettualità di massa, o lavoro cognitivo, è anche, in secondo luogo, il general intellect, l’intelletto generale evocato da Marx, allorché esso non fa più tutt’uno con il capitale fisso, cioè con il sistema automatico di macchine, ma si incarna nella cooperazione linguistica di uomini e donne. Che dire, oggi, di queste espressioni che ci furono care?

Credo che servano ancora, e forse più che in passato, a indicare il luogo in cui dimorano i comunisti, il loro who is who. A patto di schivare alcuni equivoci perniciosi. L’intellettualità di massa non è composta da fighetti che lavorano nelle case editrici, nel sottobosco universitario, nei media (insomma da tipi come me). Meritano questo appellativo, invece, i precari di ogni risma, gli operai della Fiat di Melfi, gli immigrati che raccolgono pomodori. Quello cognitivo non è un lavoro erudito, che la sa lunga in fatto di informatica o di teatro d’avanguardia. Per intellettualità di massa e lavoro cognitivo bisogna intendere il ruolo centrale che, nel tempo di produzione, assolvono le facoltà e le prerogative nelle quali identifichiamo la natura umana: pensiero verbale, empatia garantita dai neuroni-specchio, carenza di istinti specializzati, persistenza di caratteri infantili anche in età adulta, e via dicendo. Il general intellect, in quanto lavoro vivo (o, per l’appunto, intellettualità di massa), significa unicamente intelletto in generale. Non un bagaglio di conoscenze ben intarsiate, ma la comune inclinazione ad astrarre, correlare, dedurre, negare, promettere, perdonare, coniare metonimie, secernere ironie ecc. La preminenza del tempo di produzione rispetto al tempo di lavoro, come pure il sodalizio tra general intellect e attività discorsive dei membri della nostra specie, spingono a domandarsi quale sia il rapporto che il capitalismo intrattiene con il corredo biologico dell’Homo sapiens, ovvero con quella natura umana che, non essendo soggetta ai trambusti della storia, persiste senza alterazioni rilevanti dal Cro-Magnon in poi.

Per Marx, il capitalismo è la prima forma di organizzazione sociale integralmente storica. Ma non solo e non tanto perché manda in rovina ogni tradizione consolidata, fomentando il rivoluzionamento ininterrotto dei processi produttivi e degli stili di vita. Per un motivo più radicale: perché esso storicizza la metastoria biologica, ossia perché chiama in causa (in una forma storicamente determinata) ciò che dalla storia esula. Cerchiamo di capirci. L’economia politica racconta una favoletta immorale, secondo Marx, allorché rappresenta il rapporto di produzione capitalistico, che è un «risultato storico» dalla fisionomia inconfondibile, come «il punto di partenza della storia», o anche, ma è lo stesso, come un sistema sociale che si conforma alla immutabile natura umana. Per Marx, tuttavia, questa favoletta non è dovuta soltanto allo zelo apologetico degli economisti: essa trae alimento anche dal fatto che il «risultato storico» di cui si parla ha la singolare vocazione a mobilitare realmente a proprio vantaggio il «punto di partenza», ovvero i presupposti fondamentali, della storia intera. Il capitalismo è l’episodio della prassi umana che, con una straordinaria operazione riflessiva, adotta quale sua materia prima l’insieme di requisiti che rendono umana la prassi. Quei requisiti (pensiero verbale, empatia garantita dai neuroni-specchio, carenza di istinti specializzati ecc.) che spiccano in primo piano nell’attività produttiva dell’intellettualità di massa.

Comunisti, oggi, sono coloro che esaminano con occhi freddi la complessa intersezione tra natura e storia, biologia e plusvalore, permanente e transeunte, di cui si giova il rapporto di produzione dominante. Poiché il capitalismo si appropria di alcune decisive prerogative antropologiche, i comunisti sanno che l’accento può cadere tanto sui modi circostanziati (provvisori, trasformabili) in cui avviene l’appropriazione, quanto sul carattere duraturo, attinente cioè a qualsiasi epoca o società, delle prerogative in questione.

I comunisti contemporanei evitano accuratamente di privilegiare una delle due accentuazioni a discapito dell’altra. Dando all’invariante tutto quel che gli spetta, essi rafforzano o addirittura dilatano i buoni diritti del mutevole. Il materialismo storico, alla fin fine, non fa che chiedersi quale forma sociale e politica, radicalmente diversa da quella elaborata dal capitalismo, può assumere proprio ora la natura umana che, di per sé, vige da sempre. Approfittando per un momento del gergo teologico, viene da dire: il materialismo storico si chiede con quale volto e quali abiti, del tutto incomparabili al volto e agli abiti finora noti, sta per manifestarsi (o rivelarsi) l’eterno nel tempo. Inutile aggiungere, credo, che l’inedita manifestazione (o rivelazione) dell’eterno nel tempo è affidata per intero alla lotta dei precari sull’orario di lavoro e alla Comune che essa porta con sé con la stessa inesorabilità con cui un passero porta con sé il suo becco.