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Acrobazie della forma. Per un materialismo inattuale e politico

Esce per Meltemi “Sulla soglia delle forme: genealogia, estetica e politica della materia”, libro edito da Anna Montebugnoli (con saggi di Wilson, Armogida, Benčin, Sermini, Vasquez, Spanò, Saienz De Sicilia e Zappino) che si pone il problema di ripensare la continuità ontologica della materia cara al “new materialism” a partire dal loro nesso con le forme e il linguaggio.

Non c’è più la materia ma l’acrobazia, non c’è più la materia ma il lievito. Non ci sono più le cose ferme ma le cose che si muovono (Ettore Sottsass).

In questi anni il tema del materialismo è tornato alla ribalta. Percorre più o meno esplicitamente ogni grande dibattito nel mondo occidentale, dalla discussione femminista a quella ecologista passando per le riflessioni sul post-umano che si stanno svolgendo nella filosofia, nelle arti, nelle scienze cognitive e in altre discipline. In comune c’è un rinnovato interesse per la materia e una tendenza a considerarla a partire dal suo significato originario, cioè come sostanza fisica dei corpi e componente corporea del reale. Sulla base di una materia così intesa sarebbe possibile ripensare una serie di dicotomie fondative del pensiero occidentale moderno, in primis quella tra soggetto e oggetto, per affrontare la crisi – climatica, economica, sociale – in cui ci troviamo. Visioni di questo tipo sono espresse da diversi pensatori contemporanei, da Timothy Morton che ha proposto il concetto di “iper-oggetti”, entità che non possono essere colte nella loro immensità spazio-temporale, a Jane Bennett che ha teorizzato una vera e propria agency delle cose. Chiaramente, si tratta di prospettive non nuove ma che affondano le radici in una vicenda filosofica lunghissima che risale a Platone passando per Deleuze, Spinoza e altri. Quel che vi è di inedito nella discussione contemporanea è l’idea che in un modo o nell’altro si possa isolare qualcosa – la “materia”, appunto – di puro, antecedente al sociale, non contingente e intrinsecamente benevolo, e partire da questa immaginare una nuova politica.

Eppure, questa tesi porta con sé un forte rischio di conservatorismo. Idealizzare una materia immacolata, moralizzare la natura, romanticizzare la comunità: ci sono molti modi per immaginare una società fondata su qualcosa di primigenio e incorruttibile e gli effetti possono essere molto pericolosi. È in questa importante discussione che si inserisce il volume curato da Anna Montebugnoli, Sulla soglia delle forme: genealogia, estetica e politica della materia, uscito quest’anno per Meltemi. Come dichiarato dalla curatrice nel brillante saggio introduttivo, il proposito del libro è di contribuire ai dibattiti contemporanei sulla materia da una prospettiva obliqua e poco di moda. In questo lavoro non si vuole offrire alcuna grande teoria sulla materia, ma piuttosto ragionare in modo collettivo e interdisciplinare per produrre degli strumenti di efficacia euristica, preziosi per guardare il mondo e persino provare a cambiarlo. All’attualità dei new materialisms gli autori rispondono con una serie di approcci “inattuali” alla materia, di impronta genealogica, estetica e politica.

Ne emerge un quadro variegato e densissimo di spunti. Otto saggi compongono il volume: Wilson sul ritorno della materia e degli insegnamenti epicurei nella prima modernità; Armogida sull’idea di materia come male sviluppata in Plotino e Bataille; Benčin su un materialismo stilistico “dell’indifferenza” che si delinea tra le righe dell’opera di Hegel e Flaubert; Sermini sulla poesia “resistenziale” come proposta politica ed estetica per superare l’antropocentrismo; Vasquez sul concetto di risonanza come mediazione tra pensiero, natura, scienza e tecnologia; Spanò sul “materialismo magico” delle cose senza corpo nel diritto romano; Saenz De Sicilia sulla critica di Marx al materialismo tradizionale e all’idealismo; Zappino sulla critica del modo di produzione eterosessuale come passaggio per una nuova teoria queer materialista.

Attraverso diverse metodologie e approcci, affiora una materia radicalmente sganciata da qualsiasi rapporto di dipendenza e subordinazione dalla forma e dunque mai idealizzata, originaria, bensì descritta nel suo costante “farsi”, attraverso e con la forma. Il risultato è notevole, da un punto di vista sia teorico sia politico: un alleggerimento della materia – dal grave compito di “trasportare” i concetti – e una liberazione della forma – dalla necessità di dover ordinare la realtà al fine di governarla. Il nesso materia-forma può venire disarticolato solo grazie a un terzo elemento, un campo di sperimentazione che permette di reinventare entrambi i poli in una danza mutevole e cangiante: il linguaggio. Le parole non servono soltanto a dare nomi, bensì “fanno essere”: le persone e le cose, i soggetti e gli oggetti, i labili confini tra questi. Nominare è un fatto ontologico, tutt’altro che meramente linguistico. Le definizioni sono il punto di partenza dell’immaginazione; non possiamo far essere quel che non riusciamo a immaginare, scriveva bell hooks. Di questa funzione del linguaggio il diritto fornisce un esempio magistrale: le parole del diritto fanno letteralmente il mondo, creano un rapporto sociale nel momento stesso in cui lo descrivono. Il loro è un “materialismo magico”, afferma Spanò nel suo saggio. La materia (la vita) e la forma (la norma) non sono mai separate, ma irrimediabilmente intrecciate in combinazioni sempre nuove.

Con il materialismo inattuale proposto da questo splendido volume si possono fare molte cose. Si comprende, ad esempio, che a volte è necessario inventarsi parole inedite per far essere i nuovi incontri di materia e forma: è la vita a chiedercelo, il modo in cui muta attraverso la nostra esperienza, mai catturabile da un linguaggio totalizzante che ignori le specificità. Ma nominare è, o perlomeno dovrebbe essere, anche e soprattutto una questione ontologica – di un’ontologia ridefinita però a partire dalle condizioni materiali di chi e cosa viene nominato. Potrà sembrare strano, ma dare nomi per far essere è un gesto che ha molto a che fare con l’amore. Un amore da intendersi nel modo più politico e istituente del termine. Negli Argonauti – libro queer nella materia e nella forma – Maggie Nelson scrive che quando si dice “ti amo” per la prima volta a qualcuno si è come «l’Argonauta che ripara e rinnova la sua nave durante il viaggio senza cambiarle il nome». Dire quelle parole fa essere un nuovo mondo, lo reinventa da cima a fondo. «Oh che cosa ti direi, se solo le parole fossero sufficienti. Le parole sono sufficienti», conclude Nelson. Se dovesse esistere un nuovo materialismo, forse dovrebbe essere l’esperienza di una vita degna – socialmente, economicamente, esistenzialmente – messa in essere dal potersi dare un nome.

Wenzel Jamnitzer, Perspective of the Regular Bodies: III (1568). L’immagine è in cc.