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Da 5 Bloods – Come fratelli, nel Vietnam dell’ “American War”

Uscito direttamente su Netflix l’ultimo film di Spike Lee mostra la vicenda di un gruppo di veterani afro-americani che tornano dopo mezzo secolo nel Vietnam della loro gioventù. Ma l’idea del film di rappresentare il ruolo della parzialità black nella costruzione dell’ideologia americana riesce solo a metà

Quattro soldati afroamericani (Otis, Paul, Eddie e Melvin) si recano in Vietnam per due scopi, uno romantico e uno veniale: rendere omaggio al quinto commilitone (Norman detto Stormin’ Norm) morto in battaglia e recuperare un carico d’oro rimasto nascosto. Da 5 Bloods – Come fratelli nuovo film di Spike Lee, distribuito direttamente su Netflix, prova a colmare una lacuna importante e cioè la quasi assenza di personaggi afroamericani nei film sul Vietnam, tra le guerre più battute del cinema di guerra USA. Lo fa con una storia che finisce per raccontarne molte altre: il colonialismo francese, la necessità di togliere le mine dalle zone di guerra, un’amicizia lunga una vita, un rapporto padre-figlio, in un crescendo di cose, esplosioni, citazioni, esplorazioni.

Sembra non funzionare però, nonostante la bellissima apertura con Mohamed Alì, la messa in discussione della presenza afroamericana nella “American war” come la chiamano i personaggi non statunitensi del film. Nello script originale di Danny Bilson e Paul De Meo i quattro veterani sono bianchi; Spike Lee e Kevin Wilmott intervengono su quella sceneggiatura e la modificano costruendo i personaggi dei quattro protagonisti attorno alla loro afroamericanità. Questo aspetto della costruzione della sceneggiatura fornisce un elemento importante di riflessione: nonostante gli afroamericani abbiano combattuto in gran numero la guerra “post” coloniale statunitense in Vietnam, la rappresentazione filmica di quel conflitto è stata finora incentrata sulla bianchezza dell’intervento americano in una guerra che nasce come coloniale per poi diventare una frattura interna alla società americana. Per questo rimane in sottofondo costante, e ci accompagna nella visione, la domanda forse chiave del film: per chi è morto Stormin’ Norm? Per quale idea di America e di mondo?

 

 

Molto interessante e rivelatrice delle intenzioni del film la costruzione del rapporto padre-figlio attraverso i personaggi di Paul, interpretato da Delroy Lindo, e David, interpretato da Jonathan Majors. Se Paul per tutto il film rimane attaccato al suo cappellino MAGA (Make America Great Again) e pone ai suoi ex commilitoni e al pubblico la questione del perché un afroamericano possa supportare una visione del mondo e della società come quella trumpiana, David con la sua t-shirt del Morehouse college (uno degli historically black colleges) sembra voler rappresentare il collegamento storico a una blackness che fa dell’istruzione e del senso di comunità uno dei suoi assi portanti. Educare ed educarsi insomma. Paul sembra portare sulla scena le discussioni generate dai comportamenti di Kanye West, comparso più volte in pubblico con indosso il cappellino MAGA e per questo criticato e osteggiato da una parte dei movimenti afroamericani. Il duello MAGA-Morhouse parrebbe risolversi a favore del college e dell’eredità storica della blackness statunitense; la t-shirt rimane integra, il cappellino MAGA passerà di mano a una figura bianca (un francese ricco, interpretato da un eccezionale Jean Reno, simbolo della finanza e del colonialismo transalpino) che smania per possederlo.

 

 

Per raccontare questa storia Spike Lee gioca con i linguaggi. Non solo il materiale d’archivio, foto e video, vecchio e attuale, ma anche i visori notturni (il riferimento abbastanza chiaro è alle immagini delle guerre contemporanee, dal Golfo in poi), le riprese con la telecamera amatoriale (modello filmini delle vacanze, anche questo è il viaggio in Vietnam, orientalismo di ritorno incluso) e naturalmente i riferimenti al cinema classico USA – oltre ai film sul Vietnam anche The Treasure of the Sierra Madre (Tesoro della Sierra Madre, John Huston, 1948), ispirazione diretta come lo stesso Spike Lee ha confermato nella sua intervista con Giona A. Nazzaro per Film TV. Sembra un tentativo di collettivizzare i punti di vista, di farsi portavoce anche mediaticamente di modi diversi di raccontare la realtà, di parlare non solo con il proprio occhio ma di metterne molteplici a disposizione dello spettatore. Il modo in cui sono costruiti i flashback è forse l’elemento più interessante del film: i quattro protagonisti nel passato hanno infatti la stessa età del presente, sono gli stessi attori, mentre Norman è naturalmente giovane, eternamente giovane, morto in battaglia senza mai invecchiare, un leader un po’ Martin e un po’ Malcom come si dice nel film, ben interpretato da Chadwick Boseman, ormai icona del cinema afroamericano, Marshall (Marcia per la libertà, Reginald Hudlin 2017), Black Panther (Ryan Coogler, 2018) eccetera. Gli altri quattro “fratelli” invece tornano, con il loro carico di PTSD, sul luogo di guerra già invecchiati, a testimoniare come l’esperienza della guerra (che non finisce mai per chi l’ha vissuta, ripetono i personaggi del film) invecchi istantaneamente e cristallizzi il tempo.

 

 

Spike Lee mobilita una storia lunga e importante, quella delle lotte degli afroamericani attraverso il materiale d’archivio; riappropriamoci e ribaltiamo la nostra storia, dice Lee una volta di più. Qua e là parte un po’ la tangente: i personaggi francesi, oltre al Jean Reno ricco banchiere c’è una giovane ereditiera diventata operatrice umanitaria, sono stereotipatissimi e il tentativo didattico non può essere una giustificazione visto che non viene data nessuna profondità alla critica al passato coloniale francese in Vietnam e in generale nella regione. Funzionano meglio i ribaltamenti di senso, anche evidenti, rispetto al cinema hollywoodiano, come la cavalcata delle Valchirie a inizio esplorazione nella giungla vietnamita. È possibile (e necessaria?) una Apocalypse Now nera? È anche un film dal profumo cinefilo del resto, nelle scene di battaglia si sente un divertimento cinematografico puro, quasi un film di genere italiano degli anni Settanta.

Come nei suoi precedenti lavori più critici e riusciti anche in Da 5 Bloods Spike Lee cerca di far emergere la complessità e la diversità interna alla “comunità afroamericana”, spesso raccontata e immaginata come una comunità omogenea, essenzializzata al punto da cancellare nelle sue rappresentazioni le ovvie differenze di classe, opinioni, gusti che vi si possono riscontrare. Da 5 Bloods – Come fratelli rimane però un film strano, dove qualcosa sembra sempre fuori posto, nel bene (consegnandoci una sensazione di straniamento costante e stimolante) e nel male. Il gioco delle citazioni, anche esplicite, quasi didattiche, l’atmosfera dai Blacksploitation, la Motown (moltissimo Marvin Gaye usato splendidamente, un piacere davvero), i continui ribaltamenti di punti di vista un po’ confondenti, reggono il filo su un livello interessante e divertente. Ma manca costantemente qualcosa, l’obiettivo non è chiaro o è per pochi, non c’è la lucida radicalità e inventiva di BlacKkKlansman (il film precedente di Lee, 2018), e purtroppo le scene in Vietnam (soprattutto quelle urbane) sanno davvero troppo di regista statunitense all’estero poco avvezzo alla cultura locale. Forse è voluto, ma il ribaltamento di senso non sembra in questo caso del tutto riuscito.

 

Le immagini sono dei fotogrammi presi da Da 5 Bloods – Come fratelli di Spike Lee, mentre in copertina un particolare della locandina del film