editoriale

16 ottobre 1943, quelli che tentarono di salvare gli ebrei

Oggi, Giorno della Memoria, vogliamo ricordare l’evento simbolo della Shoah italiana, la deportazione degli ebrei di Roma il 16 ottobre 1943, con un brano tratto da “Guida alla Roma ribelle” di Rosa Mordenti, Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti, Giuliano Santoro (Voland, 2013)

Il Giorno della Memoria, che si celebra oggi 27 gennaio, esiste in Italia da 20 anni. La legge ha avuto un lungo iter parlamentare, cominciato con una mozione di Furio Colombo nel 1997. La data ricorda l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, avvenuta a opera dell’Armata Rossa, ed è quella scelta a livello europeo per ricordare lo sterminio degli ebrei. Da venti anni si sono moltiplicate in Italia le iniziative, le mostre, le proiezioni, entrando a far parte di quel calendario civile italiano già affollato ma che dopo il 2001 si è arricchito di altri giorni memoriali, come quello del ricordo e quello della libertà, ma anche del “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”. Un’esplosione memoriale che diventa spesso ritualità.

Oggi Giorno della Memoria vogliamo ricordare l’evento simbolo della Shoah italiana, la deportazione degli ebrei di Roma il 16 ottobre 1943, con un brano tratto da Guida alla Roma ribelle di Rosa Mordenti, Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti, Giuliano Santoro (Voland, 2013)

 

«1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno 8 giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri; 3) Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, ecc.; b) denari e gioielli. 4) Chiudere a chiave l’appartamento risp. la casa. prendere con sé la chiave. 5) Ammalati – anche casi gravissimi – non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo. 6) Venti minuti dopo presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza». È l’avviso che i tedeschi distribuirono nel Ghetto la notte di sabato 16 ottobre 1943, nelle ore della caccia nazista agli ebrei in tutta la città, che finì con la deportazione di 1.022 (o 1.023) persone, compresi vecchi, malati, donne incinte, neonati e bambini. La retata era iniziata all’alba del sabbato dopo una notte insonne e di terrore nelle case del Ghetto, a causa del lungo susseguirsi di spari e detonazioni. Lo ha raccontato Giacomo Debenedetti nel suo breve 16 ottobre 1943 – «trasparente come il vetro» – ha scritto nella prefazione Natalia Ginzburg. In quella giornata spaventosa solo alcuni romani tentarono di mettere in salvo qualcuno, soprattutto i bambini. I nomi di questi eroi improvvisati sono in gran parte rimasti sconosciuti, qui vogliamo ricordare i loro tentativi.

La sera prima della razzia, il 15 ottobre, una donna di nome Celeste, domestica in casa di un carabiniere, era corsa da Trastevere al Ghetto sotto la pioggia; vi era arrivata trafelata, spettinata, fradicia. Gridava di scappare tutti, perché il suo padrone aveva incontrato un tedesco che gli aveva mostrato una lista con i nomi di 200 capifamiglia ebrei «che saranno deportati con le famiglie». Nessuno volle crederle. D’altronde, come avrebbero potuto immaginare?

 

La signora S. non era negli elenchi dei tedeschi, e le fu permesso di uscire dal Ghetto. Era già a largo Argentina – «oltre il Mar Rosso», scrive Debenedetti – quando decise di tornare indietro per cercare di salvare qualcuno. Strinse a sé quattro bambini, disse alle SS che erano suoi e li portò in salvo; fuori dal Ghetto loro scapparono e lei svenne.

 

Davanti al caffè di Ponte Garibaldi un giovane, che diceva di essere un “giornalista italiano”, tentò di strappare dalla fila dei prigionieri una ragazza incinta, discutendo in tedesco con una SS. Nel caffè però c’era N., la sorella di quella ragazza, in salvo; istintivamente fece un gesto di disperazione, il tedesco – capito che le due donne erano parenti – la afferrò con la bimbetta che aveva accanto e trascinò tutte e tre nel camion.

Un altro rimasto senza nome vide una donna con quattro figli trascinata via su Ponte Garibaldi, si avvicinò, prese una piccola in braccio e disse ai te-deschi che era sua; ma la bambina urlò che voleva la mamma e i tedeschi se la ripresero. E si racconta che a Prati un operaio notò che l’autista di un camion carico di ebrei romani era sceso dal mezzo e si era distratto, per cui saltò alla guida, partì a tutta velocità e li liberò.

Adriano Ossicini – medico, comandante partigiano, e in seguito politico – solo a distanza di molti anni, nel 2003, ha raccontato in un’intervista al “Messaggero” di aver assistito alla retata nel Ghetto da una finestra del vicino ospedale Fatebenefratelli. Ancora in camice corse «verso il punto dove c’era più trambusto, all’inizio del ponte che collega il Lungotevere all’Isola Tiberina», lì incontrò Giulio Sella, guardiano del dormitorio di Santa Maria in Cappella a Trastevere, che aveva già aiutato molti ebrei e che gli disse: «Dammi una mano, cerchiamo di salvare qualcuno di questi poveracci […] Tornammo verso il ponte e avviammo quante più persone possibile verso l’ospedale. Non abbiamo mai saputo quanti fossero in realtà gli ebrei, ma in quel momento era impossibile fare distinzioni. Chiesi a un certo fratel Raimondo, un prete, di nascondere tutti. Furono messi in un ambulatorio. Il primario, Giovanni Borromeo, in quel momento non c’era, ma sapevo che sarebbe stato d’accordo, perché aveva già ricoverato diversi ebrei facendoli passare per malati».

 

Oltre che al Fatebenefratelli, ospedale religioso e quindi controllato dal Vaticano, questi salvati furono portati nel Palazzo della Cancelleria e nel dormitorio di Santa Maria in Cappella, dietro via dei Vascellari. Tutti costoro sfuggirono alla retata.

 

Gli altri vennero lasciati in strada per ore, poi caricati sui camion e portati nella caserma di via della Lungara – caserma italiana, non tedesca – dove il Vaticano non ritenne opportuno intervenire. Dopo due giorni partirono dalla Stazione Tiburtina, ammassati come bestie, nei 18 vagoni piombati diretti ad Auschwitz. Erano 1.022, forse 1.023, sono tornati in 15: 14 uomini e una donna, Settimia Spizzichino, testimone instancabile. Degli oltre 200 bambini, nessuno è sopravvissuto.