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Milano non si ferma

In “L’invenzione di Milano – culto della comunicazione e politiche urbane” (Cronopio 2023) Lucia Tozzi ricostruisce le azioni comunicative e le retoriche messe in atto per costruire un’immagine della città utile alla rendita finanziaria, che si appropria delle aree e le trasforma in quartieri esclusivi. Per gli abitanti non ci sono più case e servizi, eppure questo sembra non intaccare la rappresentazione di una metropoli splendente e attrattiva.

È nata negli anni ’80 l’immagine di Milano da vivere, da sognare, da godere, insomma “la Milano da bere”. Una città positiva, ottimista, efficiente dove proliferano yuppies dinamici, devoti alla competizione e alla scalata sociale. Tutto spazzato via, pochi anni dopo, dalle vicende di Mani pulite e dalle immagini degli arresti di esponenti politici e imprenditori. La “Milano da bere” diventa la “Milano dei bevuti”. In tempi recenti è la pandemia, che in quella regione e in quella città colpisce duramente, ad assestare il colpo finale con il disvelamento della condizione della sanità lombarda portata, fino ad allora, come esempio di efficienza e garanzia di cure eccellenti.

Quale operazione sia stata messa in atto per ricostruire l’immagine della città oramai spenta ce lo racconta Lucia Tozzi nel libro appena uscito per Cronopio L’invenzione di Milano – Culto della comunicazione e politiche urbane (pp. 207, €15,00). 

Lo fa svelando una dopo l’altra le azioni comunicative utilizzate, le retoriche messe in atto, il ruolo fondamentale della finanza e l’indifferenza per la condizione di vita degli abitanti. Il modello Milano appare per quello che è «frutto della comunicazione ideologica a scala urbana, che ha sostituito quasi per intero l’intreccio dei sistemi politici, sociali e culturali preesistenti». 

Quello che era avvenuto alla fine degli anni ’90 per i prodotti commerciali, promossi come stile di vita più che per la loro qualità intrinseca attraverso investimenti pubblicitari enormi, adesso succede con quartieri e intere città. Il logo monopolizza lo spazio culturale e di conseguenza ogni città deve inventare il suo logo. Il passaggio è avvenuto dall’utilizzare gli spazi pubblici della città per ospitare messaggi pubblicitari a far diventare l’intera città brand di se stessa.

L’autrice analizza con estrema precisione i passaggi che si sono susseguiti per arrivare all’invenzione della Milano attrattiva, vitale, dinamica eppure «noiosissima e molto poco sexy» come oggi appare. A partire dalla campagna mediatica legata all’Expo, Milano veniva rappresentata come città sostenibile, nonostante aumentasse il consumo di suolo, produzione di rifiuti e peggiorasse la qualità dell’aria. Così come si autoproclamava capitale della democrazia partecipata, mentre privatizzava beni e servizi, demoliva interi quartieri per costruire grattacieli di lusso. L’abilità è stata proprio far procedere di pari passo due immagini opposte e inconciliabili nella costruzione del modello Milano, dove ogni contraddizione e ogni conflitto spariscono. «Milano è sempre la città del lavoro, ma è anche un posto dove ci si diverte. È una capitale del lusso, ma anche dell’inclusione. Milano ama la street art, ma anche il decoro».

Il ruolo primario l’hanno avuto i grandi eventi, spacciati sempre come culturali, utilizzati da agenti principali della valorizzazione immobiliare. Era avvenuto a Torino con le Olimpiadi del 2006, nello stesso anno a Roma prendeva l’avvio il Festival del cinema voluto dal sindaco Veltroni, l’anno dopo apriva il primo Eataly a Torino per poi proliferare in tutta Italia. Tutto diventa evento per creare il brand della città e ridurre i cittadini a un ruolo subalterno. Si assiste alla distorsione del concetto di cultura, definita “petrolio d’Italia”, che diventa economia fondata sul turismo, la comunicazione e il consumo. Milano in quegli anni è concentrata ancora sui grandi progetti urbani e non capisce subito che la cultura può rappresentare l’innesco adatto per far esplodere il valore immobiliare delle aree. Quando lo capisce è un susseguirsi di operazioni portate avanti da gruppi privati: Pirelli, Prada, Trussardi.

Il prezioso libro mette in luce le ideologie che il capitale costruisce attraverso linguaggio, retoriche e mezzi di comunicazione per diffonderle, in modo da produrre il consenso e convincere i cittadini che anche loro fanno parte da protagonisti delle operazioni di recupero urbano. Nello stesso modo agisce per neutralizzare ogni forma di dissenso. Tozzi ricorda l’Expo 2015 e tutto quello che ha comportato per la città a iniziare dai costi sostenuti per l’acquisto dei terreni fino alla precarizzazione del lavoro. Eppure si è riusciti a far credere che l’Expo sia stato un esperimento riuscito. Forse lo è davvero se si legge con gli occhi del grande capitale che è riuscito a convincere i milanesi, e non solo, «che la trasformazione di qualche milione di metri quadri di spazio pubblico abbandonato in una selva di palazzoni green sia una mossa efficace contro il climate change. Che gli investimenti stranieri che atterrano sulla città, appropriandosi dei suoi pezzi migliori, portino ricchezza e lavoro per tutti. Che l’attrazione di milioni di turisti sia una fonte di benessere e non di mercificazione ed espulsione dai quartieri». Dunque ci sono opportunità per tutti e tutte! Se non sei capace di coglierle è colpa tua.

Fotografia di Ylbert Durisht, da Flickr.

Le architetture della città, con le loro facciate essenziali, che avevano dato identità e forma a una borghesia cosmopolita, emancipata e laboriosa, costruite da professionisti colti milanesi sono state sostituite dai grattacieli che popolano i grandi progetti di trasformazione urbana, l’immagine di Milano è quella di tutte le altre città del circuito delle città globali, uguali e irriconoscibili «un assemblaggio di musei di Frank Gehry o di Jean Nouvel o di Zaha Hadid, più una down-town di grattacieli di Renzo Piano o Kenzo Tange o Ma Yangson».

Il problema della casa a Milano per chi è povero è drammatico, sono 17.500 le famiglie che aspettano la casa popolare e tante quelle che sono minacciate di sfratto. Sono solo mille gli alloggi assegnati nell’ultimo anno, a fronte di 7mila case popolari di Comune e Aler vuote. Accedere al mercato privato è impossibile. Tra le città con gli affitti più cari d’Italia, conta migliaia di case popolari sfitte o inagibili, sfratti e sgomberi sono all’ordine del giorno e in questi anni si sono susseguite maxi-operazioni repressive, come è successo a nove attivisti del Comitato abitanti Giambellino Lorenteggio incriminati per associazione a delinquere con finalità di occupazione e resistenza. Avevano aiutato famiglie senza casa a occupare appartamenti vuoti dell’Aler. A fronte di tanto disagio Milano è arrivata a diventare la città più costosa della penisola, i prezzi delle case fra il 2017 e il 2022 sono aumentati del 43,2%, fino a toccare i 12mila/16mila euro al metro quadro nelle zone più appetibili.

La rigenerazione diventa il mantra, da una parte quella agita da società finanziarie, lasciate libere di imporre i propri progetti sulle aree pubbliche e private. Dall’altra quella delle fondazioni culturali o sociali, delle fondazioni bancarie, delle università, delle associazioni e delle cooperative, da quell’universo definito no profit o terzo settore. Si forma l’idea che il pubblico e il privato si equivalgano, ma di fatto tutta l’operazione serve a privatizzare il welfare pubblico, allargando di fatto l’estrazione del profitto ai servizi sociali e culturali.

L’autrice si domanda come sia possibile che tanti e tante, si siano lasciati coinvolgere da questa narrazione e non si rendano conto come la città si stia svuotando delle funzioni vitali e stia diventando un parco a tema per turisti caduti nella trappola del marketing e per i “ricchissimi”.

«Per essere veramente erotiche le città hanno bisogno di spazi liberi, gratuiti, case popolari, servizi economici, incontri casuali, non di panchine sponsorizzate, didascalie sugli alberi e spazi ibridi». I servizi pubblici, la cura dei cittadini e dell’ambiente non possono essere affidati al volontariato e al mutualismo, che nasconde forme di sfruttamento mascherato. «Per boicottare l’egemonia della rendita, l’ideologia della valorizzazione, non è sufficiente descrivere quanto è dannosa sul piano etico e promuovere come rimedio l’economia del dono». Piuttosto, conclude Tozzi, «contrapporgli la potenza degli interessi di classe». 

Il grande valore di questo libro sta nella puntuale decostruzione di un’ideologia e nell’evocazione di un conflitto che potrebbe inceppare il meccanismo e finalmente ridurre le diseguaglianze e costruire una città più giusta. Vorremmo che questo diventasse il modello Milano da imitare.

Immagine di copertina: Milano negli anni ottanta, fotografia di Gerd Eichmann, Wikimedia Commons.