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ITALIA
Calenzano: da hub fossile a hub green? La transizione ecologica non parte con Eni
A un anno dall’esplosione del deposito Eni di Calenzano, che causò la morte di 5 lavoratori e l’infortunio di altri 28, si prepara una controversa trasformazione del sito in hub fotovoltaico, tra entusiasmo istituzionale e ombre sul processo giudiziario. Nel frattempo, nella stessa piana fiorentina, la vera transizione ecologica dal basso della ex-GKN, rilanciata con un nuovo crowdfunding, continua a essere boicottata. Il Collettivo di Fabbrica rilancia con una nuova campagna di crowdfunding, per dare vita a una filiera sostenibile di pannelli e diffondere democrazia energetica tramite comunità energetiche rinnovabili e solidali
Il deposito Eni di Calenzano era un hub di combustibili fossili tra i più importanti d’Italia: con una capacità di stoccaggio di 160 mila tonnellate, l’impianto accoglieva i prodotti raffinati presso lo stabilimento di Stagno (Livorno) prima dello smistamento in tutto il territorio nazionale ed era classificato ad «alto rischio di incidente rilevante» secondo la direttiva Seveso. Un anno fa, il 9 dicembre 2024, al deposito Eni di Calenzano persero la vita in un’esplosione cinque lavoratori, altri 28 rimasero feriti. Già dopo le prime indagini risultò che l’esplosione avvenne durante un’attività di manutenzione, mentre il carico e scarico delle autobotti andava avanti senza interruzione, contravvenendo alle relative disposizioni di sicurezza che invece prescrivono la non concomitanza delle due attività.
Secondo una perizia tecnica, il blocco del carico delle autobotti per un turno della giornata del 9 dicembre avrebbe comportato una perdita di 255mila euro di introiti: è lo 0,005% degli utili netti di Eni del 2024 (5 miliardi di euro), una cifra risibile per un’azienda con questo fatturato, ma che a cinque persone è costata la vita. Non esiste nessun prezzo alla vita umana, eppure la barbarie del capitale quotidianamente lo impone e con quello fa i suoi calcoli. In seguito all’accaduto, Eni commissionò alla ditta appaltatrice dell’impianto la redazione di un documento tecnico: poiché secondo la procura questo avrebbe potuto insabbiare le indagini, occultando o rendendo indisponibili delle prove, venne disposto un incidente probatorio. A distanza di un anno sono 10 gli indagati, di cui sette manager di Eni e due intercettati telefonicamente rispetto al “tenersi puliti” ed “evitarsi rogne” in seguito al dramma del 9 dicembre. L’inchiesta per omicidio plurimo, disastro e lesioni colpose non si è ancora chiusa. Ancora una volta sarà dura avere verità e giustizia per quello che non è degno definire “incidente”, quanto “inaccettabile normalità”, strutturale (e prevedibile) conseguenza di una filiera fossile che è mortifera dall’inizio alla fine: dall’estrazione alla raffinazione allo stoccaggio al consumo.
Eni si è impegnata a versare al Comune di Calenzano un risarcimento volontario di 6,5 milioni di euro, «a prescindere dall’esito del procedimento giudiziario». E d’altra parte, Eni e i suoi dirigenti vantano precedenti importanti di assoluzione in processi anche più grossi, come quello per il giacimento OPL245 in Nigeria – solo per citarne uno: il “processo del secolo” (come fu chiamato nel 2020), per l’entità della tangente di cui Eni era accusata e per il danno ambientale, ecologico, umano verificatosi in centro-Africa. Casi come OPL245 ci parlano di uno “Stato parallelo” transnazionale, in cui l’agibilità di multinazionali come Eni è totale, con criteri di anticorruzione estremamente discrezionali e lassi e con la possibilità concreta di indirizzare processi politici e giudiziari esteri e italiani.
Non è quindi infondata la preoccupazione che, ancora una volta, anche a Calenzano, il cane a sei zampe ecocida proverà a tingersi di verde e a uscirne, non solo impunito in tribunale, ma addirittura benefattore presso l’opinione pubblica.
Infatti, per far dimenticare a un territorio in lutto il “ciavvelEni” (la denuncia tante volte risuonata nelle piazze dell’attivismo climatico del 2019), si è optato per la conversione del deposito di Calenzano a parco fotovoltaico: da hub fossile a hub “green”, con una produzione di energia elettrica di 20 Mwp (Megawatt di picco) risultante dall’installazione di circa 60mila pannelli. Il 5% del valore totale dell’energia prodotta da questo primo impianto verrà ceduto al Comune e un altro impianto di 1 Mwp verrà costruito e gestito a spese di Eni per l’alimentazione di un’area sportiva comunale. Entusiaste le dichiarazioni del sindaco di Calenzano, Carovani («Un balzo decisivo verso un futuro sostenibile sulla strada della decarbonizzazione») e del presidente della Regione, Giani: «Questo accordo rappresenta un esempio concreto e positivo di come la Toscana stia accelerando sulla transizione energetica, trasformando un sito del passato in una risorsa per il futuro».
Ma non è solo una questione di numeri, quanto di sostanza politica. Quale sarà la ricaduta occupazionale e di soddisfacimento energetico per il territorio? Che possibilità ci sarà per il pubblico di supervisionare la riconversione del sito e determinare le scelte produttive future? Stiamo facendo veramente un “balzo in avanti”, come sostiene il sindaco di Calenzano, o piuttosto un gattopardiano business as usual spennellato di verde? Perché al netto dell’energia distribuita localmente, Eni continuerà a fare profitti d’oro, anche dai parchi fotovoltaici come quello che sorgerà a Calenzano, ma soprattutto dagli investimenti in combustibili fossili, la cui estrazione e lavorazione è prevista in aumento per il prossimo triennio: altro che transizione alle rinnovabili, il gas rappresenterà ancora il 60% del portafoglio aziendale di quella che rimane una delle oil companies più inquinanti al mondo, con responsabilità climatiche tra le più gravi storicamente e che le hanno valso la causa intentata coraggiosamente da ReCommon e Greenpeace (“La Giusta Causa”).
Anche tralasciando il fatto che il cane a sei zampe rimane una compagnia fossile e anche volendoci concentrare sulla (minima) porzione non-fossile di energia nel suo piano triennale, finché la produzione e la distribuzione resteranno accentrate in mano a big players e soggette a enormi margini di profitto privato, nessuna democrazia energetica avrà possibilità di svilupparsi.
Similmente nessuna giustizia sociale potrà darsi perpetrando la nostra dipendenza da una multinazionale implicata in disastri ambientali dalla Val d’Agri al Niger, nonché nel genocidio palestinese tramite accordi commerciali con Israele. Infatti, assieme a Dana Petroleum, BP, SOCAR, NewMed, a pochi giorni di distanza dal 7 ottobre 2023, Eni ha acquisito da Israele per alcuni milioni di dollari permessi di esplorazione in Zone Economiche Esclusive palestinesi, in esplicita violazione del diritto internazionale, in connivenza con il colonialismo energetico israeliano e in economico sostegno all’escalation del genocidio.
Infine, ma non per importanza, come si fa a non chiedersi da dove verranno i pannelli installati in questo gigantesco hub? La filiera del fotovoltaico è costellata di crimini ambientali ed estrattivismo feroce nel Sud Globale, con cui le materie prime vengono accaparrate a basso costo dal Nord Globale, mentre la caparbietà dell’occidente di difendere gli investimenti delle aziende fossili ha di fatto lasciato alla Cina il monopolio nella produzione di pannelli. E la politica industriale italiana si disinteressa totalmente di questo, non esiste alcuna direttrice se non la conversione industriale bellica.
C’è chi si pone in Italia oggi seriamente il problema di una produzione di pannelli fotovoltaici secondo filiera etica, a servizio della transizione ecologica dal basso: sono gli operai della ex-GKN di Campi Bisenzio, licenziati quattro anni e mezzo fa, in assemblea permanente dal 9 luglio 2021, in lotta da allora per difendere uno stabilimento dalla speculazione immobiliare e per tornare a lavoro in maniera dignitosa.
Come si fa a progettare campi fotovoltaici nella piana fiorentina senza nemmeno considerare la vertenza operaia più lunga della storia di Italia a letteralmente 2 km in linea d’aria dall’ecomostro di Eni da convertire?
Vertenza, quella della ex-GKN, che ha fatto proprio della produzione, installazione e riciclo di pannelli fotovoltaici il core del piano di reindustrializzazione, rivolto a comunità energetiche rinnovabili e solidali su tutto il territorio nazionale e non solo. Questo piano, frutto di tre anni di lavoro, con quattro due diligence tecniche e finanziarie superate, era già pronto a partire nell’ottobre 2024, quando ancora l’esplosione del deposito Eni non era avvenuta. Urge che quelle stesse istituzioni locali e regionali, così solerti a approvare la conversione del deposito incriminato, così zelanti a parole di voler transitare a energie rinnovabili, si scrollino dall’assoluto immobilismo in cui stagnano da mesi e finalmente permettano all’alternativa (quella vera) di esistere con la riapertura di ex-GKN.
In quattro anni e mezzo di vertenza, ogni risultato istituzionale è stato ottenuto solo grazie alla lotta e malgrado le istituzioni stesse. La legge regionale per facilitare la costituzione di consorzi industriali pubblici esiste perché è stata scritta da operai e solidali; è arrivata in consiglio regionale solo dopo mobilitazioni, cortei, accampata in Regione, sciopero della fame ed è stata approvata il giorno della vigilia di Natale dello scorso anno a tarda notte dopo ore di ostruzionismo della destra che hanno reso necessario un presidio del Collettivo di Fabbrica e brigata sonora sotto la sede del consiglio.
Da allora ci sono voluti sei mesi perché questo consorzio venisse solo costituito (luglio 2025) e da altri sei mesi stiamo aspettando che tale consorzio compia il piccolo semplice gesto per cui è nato: rilevare lo stabilimento di Campi Bisenzio e metterlo a servizio della reindustrializzazione. I rinvii, i silenzi, i tavoli saltati, hanno logorato questa lotta per troppo tempo e per chi ha messo in gioco tutto, di tempo non ce n’è più. La conversione a fotovoltaico del deposito Eni sarebbe, di per sé, una notizia più positiva di altre, ma allo stesso tempo è l’ennesima conferma di quanto la transizione ecologica sia sistematicamente boicottata quando parte dal basso e strumentalizzata dall’alto quando sembra un’utile copertura.

Riaprire una fabbrica, ricreando lavoro utile, buono, sano e giusto, a servizio della transizione ecologica dal basso invece che del riarmo e della guerra è un esempio che il sistema oggi vuole affossare. E allo stesso tempo, noi tuttə non possiamo permetterci di rinunciarvi. La ex-GKN è ancora «un faro di speranza», come ha detto Greta Thunberg, per tutto il movimento ecologista, sociale, operaio, ed è quindi una responsabilità collettiva continuare a sostenere questa lotta per la giustizia climatica e sociale.
Ad oggi, dicembre 2025, il Collettivo di Fabbrica lancia una nuova campagna di crowdfunding con l’obbiettivo di raccogliere due milioni di euro: questa è la cifra che improvvisamente questa estate è venuta a mancare con il defilarsi di un finanziatore a “impatto sociale” dal piano industriale. Per reagire al sabotaggio e all’immobilismo, il Collettivo di Fabbrica ha deciso di usare il “metodo flotilla nell’economia”: mettere in mare le navi, grandi e piccole, senza chiedere il permesso e partire, con parte del progetto o con tutto. L’appello è quello di sostenere la campagna, diffonderla il più possibile. Per dare uno “schiaffo al sistema” con un’azione contro il riarmo, per salvare Gff-GKN For Future, la cooperativa nata che dà nome anche al piano – per dimostrare che loro sono il nulla e che noi insieme, ancora una volta, possiamo essere tutto.
La foto di copertina è tratta dalla pagina FB del Collettivo di Fabbrica Gkn
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