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EUROPA
Protesta di massa e movimento per la liberazione della Palestina a Berlino
Lo scorso 27 settembre a Berlino è sfilata la più grande manifestazione di massa del Paese in solidarietà con la Palestina. La presenza della Linke e di grandi ONG istituzionali ha però diviso il movimento pro-Palestina, che da due anni a questa parte non ha invece mai smesso di scendere in strada al grido di “stop al genocidio”, subendo soprattutto a Berlino una repressione e criminalizzazione sistematiche
I due anni di genocidio a Gaza si sono compiuti con la totale complicità della Germania: dalle istituzioni, ai mass-media, dalle università, alle imprese, il tutto nel totale silenzio della stragrande maggioranza della società. Un silenzio rotto solo a sprazzi, come quando a fine giugno, 60mila persone provenienti da diverse città si radunarono di fronte al Bundestag per chiedere la fine del genocidio e del sostegno militare tedesco a Israele. Una manifestazione organizzata dalla comunità palestinese, senza l’appoggio di partiti o organizzazioni non governative. A tre mesi di distanza e migliaia di vittime civili in più, qualcosa si è nuovamente mosso.
Il 27 settembre, il centro di Berlino ha visto sfilare la più grande manifestazione di massa del Paese in solidarietà con la Palestina. 100mila persone hanno risposto alla chiamata nazionale di una decina di personaggi pubblici, membri di associazioni palestinesi, ma anche israeliani e tedeschi – giuristi, scrittori, sindacalisti, attori, musicisti, politici del partito di sinistra die Linke: Zusammen für Gaza, insieme per Gaza, per chiedere nuovamente di fermare il genocidio, l’invio di armi a Israele, l’occupazione illegale, la cacciata dei palestinesi dalla loro terra e per permettere l’ingresso di aiuti umanitari. Il corteo è partito da Alexanderplatz in direzione della Porta di Brandeburgo, ha continuato dritto sulla Straße des 17. Juni e raggiunto infine il palco del presidio All eyes on Gaza, dove si è tenuto un concerto organizzato anche da Amnesty International e Medico International.
Dal palco, Based Said, educatore e attivista della comunità palestinese di Berlino, tra i promotori della giornata, ha parlato di un «momento storico”» di un modo «per rendere visibile la nostra resistenza», di «uno scudo contro il silenzio» ringraziando tutti coloro che dal primo giorno sono scesi in strada per protestare contro il genocidio.
«Quello che succede a Gaza non è una spirale di violenza, non è un dilemma. È colonialismo nella sua forma peggiore. È la distruzione sistematica di un popolo pietra dopo pietra, corpo dopo corpo, memoria dopo memoria. E il governo tedesco è nel mezzo di questa distruzione, in ogni pietra, in ogni vita».
Un’altra promotrice, Imam Abu El Qomsan, ingegnera di origine gazawa con più di 80 parenti fatti a pezzi dalle bombe nella Striscia, ha ripercorso il filo che lega la Nakba al genocidio in corso: «Ogni generazione della mia famiglia è passata dalla stessa ferocia. Nessuna è stata risparmiata».
«Impressionante», ha infine commentato a tarda serata la co-segretaria della Linke Ines Schwerdtner guardando al numero delle e dei partecipanti. Per la sinistra parlamentare tedesca, la manifestazione è stata la prima in solidarietà con la Palestina sostenuta e organizzata apertamente da alcuni vertici nazionali – non tutti. Sulla questione, il partito ha infatti una storia imbarazzante di tentennamenti, timide prese di posizione e tendenze sioniste.
In una risoluzione dell’ottobre 2024 in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza, il riconoscimento della Palestina e una soluzione a due Stati, la Linke si affrettava a definire l’esistenza di Israele una «necessità storica», conseguenza diretta dell’Olocausto.
Ma i recenti successi elettorali, il boom di giovani iscritti e i volti nuovi in parlamento hanno anche acceso un conflitto interno che si sta ancora consumando, tanto alla base quanto ai piani alti. Nel maggio di quest’anno il congresso del partito ha adottato una definizione di antisemitismo meno rigida rispetto a quella vigente in Germania, una decisione presa comunque con una stretta maggioranza e criticata dall’altro co-segretario, Jan Van Aken. Pare che la stessa Schwerdtner, fischiata dalla folla in un discorso tenuto durante la manifestazione del 27 settembre, abbia finalmente per la prima volta usato la parola “genocidio”, scusandosi per il lungo silenzio del suo partito.
Tuttavia, la presenza della Linke e di grandi ONG istituzionali come Amnesty ha diviso il movimento pro-Palestina, che da due anni a questa parte non ha invece mai smesso di scendere in strada al grido di “stop al genocidio”, subendo soprattutto a Berlino una repressione e criminalizzazione sistematiche.

Nella sola capitale tedesca, dal 7 ottobre 2023 sono 10mila i casi relativi alla Palestina oggetto di indagine da parte di polizia, diverse centinaia finiti in tribunale, casi che includono la persecuzione della frase «dal fiume al mare Palestina sarà libera», simboli come il triangolo rosso e il pugno con la bandiera palestinese, arresti immotivati durante le proteste con accuse poi di “resistenza” o “insulti a pubblico ufficiale”, attività sui social media.
Una parte del movimento ha riconosciuto il potenziale ruolo strategico nel partecipare alla protesta di massa per portare un chiaro messaggio anti-coloniale e anti-imperialistico. Un’altra parte ha invece fermamente condannato la manifestazione, indicendo quella autonoma United until total liberation – fight normalization, contro «il vago linguaggio umanitario e le condanne vuote» di istituzioni e organizzazioni non governative, in solidarietà con il popolo palestinese e ogni sua forma di resistenza contro il genocidio, il colonialismo di insediamento e l’apartheid. Duemila manifestanti hanno percorso i quartieri di Kreuzberg e Neukölln, attraverso il cuore della comunità araba e turca, un corteo contraddistinto dalla sua “diversità”, e composto per la maggior parte della comunità marginalizzata araba e musulmana, da migranti e queer.
Due proteste contemporanee, a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, ma distanti nelle realtà che hanno vissuto. Sono stati in totale 1800 gli agenti impiegati nella giornata del 27 settembre, metà dei quali stanziati nei quartieri arabi, nonostante i numeri incomparabilmente più bassi di partecipanti al secondo corteo.
I “buoni” da una parte, i “cattivi” dall’altra. In diretta dalla manifestazione di massa, la portavoce della polizia l’ha descritta come «pacifica», contando 30 fermi, di cui 20 per un’azione in cui sono state scritte con la vernice nomi di martiri palestinesi sull’asfalto.
Il corteo United until total liberation è stato invece pesantemente sorvegliato e attaccato dalla polizia. Centinaia, come si è detto, gli agenti in tenuta antisommossa ad affiancare e filmare lungo i lati, decine i furgoni della polizia alla testa e alla coda della manifestazione. L’intenzione era chiara: reprimere, criminalizzare, intimidire. Più volte e senza preavviso gli agenti si sono fatti strada tra i manifestanti a pugni e spintoni per effettuare arresti, immobilizzando e schiacciando persone a terra per poi brutalmente trascinarle via. Ad appena due ore dalla partenza e a neanche metà percorso la polizia ha infine sciolto il corteo prendendo a pretesto per il lancio di un fumogeno. I manifestanti si sono rifiutati di abbandonare le strade e la violenza non ha fatto che crescere. Alla fine sono stati 52 gli arresti documentati. Diverse persone hanno riportato ferite e avuto bisogno di cure mediche, mentre sei sono state trattenute e rilasciate solo nella notte. La maggior parte dei fermi sono stati effettuati con false accuse o senza alcuna accusa: nonostante diverse sentenze abbiano confermato che lo slogan «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» sia protetto dalla libertà di espressione, la polizia di Berlino continua a usarlo come pretesto per la repressione.

Ma d’altra parte questa repressione è il segno di come un movimento organizzato, attivo e con chiari contenuti politici faccia paura: si tenta di dipingerlo come violento e criminale così da intimorire chi voglia parteciparvi e si prova a stroncarlo con punizioni esemplari (arresti violenti, perquisizioni di case, fogli di via e divieti di partecipare a manifestazioni, licenziamenti, censura) per fare in modo che altri desistano dal continuare.
Eppure, nonostante tutti gli sforzi degli apparati tedeschi, questi ultimi due anni hanno dimostrato che molte delle persone scese in piazza per la Palestina ancora prima del 7 ottobre sono ancora lì, più determinate che mai.
Le immagini e i filmati delle mobilitazioni dell’Italia fanno sognare in Germania, ma nessuno si aspetta che si possa mai raggiungere un tale livello di conflitto sul suolo tedesco. Qui la legge vieta lo sciopero politico, consentendolo solo all’interno della contrattazione sindacale per il salario. Per questa ragione, scioperi generali organizzati dai sindacati per fermare il genocidio restano purtroppo solo un miraggio. Sindacati che, per di più, in Germania non nascondono la loro vicinanza a Israele: quest’anno la Confederazione dei Sindacati Tedeschi (DGB) ha festeggiato i 50 anni di cooperazione con l’Histadrut, la storica organizzazione sindacale del movimento sionista. Infine, anche i movimenti studenteschi per la Palestina, che hanno occupato aule ed edifici delle varie università, non sono riusciti a propagare la protesta tra gli altri studenti o il personale accademico. La solidarietà attiva per la Palestina nel concreto rimane nelle mani delle persone che fanno già parte di questo movimento.
Molte più persone ora ne parlano, ma dopo la protesta di massa del 27 settembre ci si chiede quante di quelle 100mila persone torneranno semplicemente a vivere la propria quotidianità con la coscienza in pace per aver protestato una singola volta contro il genocidio a Gaza, e quante invece si aggregheranno al movimento in solidarietà con la Palestina.
I numeri e le masse fanno notizia e fanno sperare, ma una parata di persone e cartelloni da Alexanderplatz a Großer Stern non riuscirà a scalfire il corso della politica tedesca, se resterà una mobilitazione relegata a una sola giornata.
Giovedì 2 ottobre, il giorno dopo la cattura della Global Sumud Flottilla da parte dell’esercito israeliano, ad Alexanderplatz c’erano solo poche migliaia di partecipanti al presidio in solidarietà alla missione. «Dove sono quelle 100mila persone?», si chiedeva uno degli organizzatori. Verso la fine del presidio, i manifestanti hanno bloccato i binari del tram e la strada, rifiutandosi di lasciarela piazza. Diverse decine gli arresti, diversi i feriti, ma la protesta è continuata per un paio d’ore.
C’è differenza tra fare una parata e prendersi quotidianamente le strade per la Palestina, con continui atti di disobbedienza. Disobbedienza contro la censura che vorrebbe impedire slogan come «gloria alla resistenza palestinese» e «dal fiume al mare la Palestina sarà libera», disobbedienza contro le assurde regole di piazza imposte dalla polizia, contro i divieti e gli scioglimenti arbitrari dei cortei.
Disobbedire è al momento una delle azioni più concrete che si possa fare in Germania. Per una Palestina libera, dal fiume al mare.
L’immagine di copertina è di Magdalena Vassilleva
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