approfondimenti

EUROPA
Berlino – il Queer Pride che provoca
Anche questo 26 luglio il Queer Pride di Berlin-Kreuzberg, indipendente e alternativo al Pride ufficiale, si è svolto nel segno della solidarietà con la Palestina e ha subito pesanti interventi polizieschi, che tuttavia non sono riusciti a disperderlo e a oscurarlo
Non una sfilata, non una festa. Sabato 26 luglio, più di 20.000 corpi queer, trans, migranti e ribelli hanno invaso le strade di Kreuzberg per l’Internationalist Queer Pride (IQP). Una marea insubordinata ha trasformato la città in un palcoscenico di resistenza globale, scandendo un messaggio potente e inequivocabile: “No Pride in Genocide”.
In netta rottura con l’organizzazione della CSD – il Christopher Street Day, evento promosso da media e dai partiti mainstream per celebrare l’orgoglio LGBTQIA+ e sostenere invece tra le righe il genocidio, l’apartheid e il capitalismo con una sfilata di carri sponsorizzati dalle grandi multinazionali – l’IQP ha scelto di attraversare le strade di Kreuzberg, con una forza straripante supportata dalla numerosa resistenza queer, trans e migrante. In questo quartiere a maggioranza musulmana e araba, l’Internationalist Queer Pride non ha chiesto diritti, ma reclamato giustizia, non ha cavalcato le prime pagine dei giornali tedeschi ma ha alimentato in maniera collettiva un’integrazione e un’intersezionalità delle lotte che dovrebbe essere la base del concetto di accettazione e convivenza. Questo Queer Pride sudato e comunitario ha dato, seppur sotto gli abituali attacchi violenti della polizia, una speranza a chi ancora crede sia possibile la distruzione dell’ipocrisia tedesca, soprattutto quando si parla di condanna al genocidio e di sostegno alla Palestina.

Contro il pinkwashing e l’imperialismo
Mascherarsi dietro una finta inclusività — selettiva, bianca e privilegiata — è il grande inganno delle istituzioni tedesche. Lo stesso Stato che si proclama paladino della diversità e della libertà, attacca quotidianamente il diritto all’espressione e alla manifestazione, soprattutto quando a parlare sono le comunità palestinesi.
Berlino si vende come città “multiculturale”, mentre contribuisce attivamente al genocidio in corso a Gaza. Un paradosso grottesco: si celebra la tolleranza e l’inclusione, mentre si impone la Staatsräson – la “ragion di Stato” – come dogma indiscutibile, si gentrificano interi quartieri in nome del capitalismo e si zittiscono le voci dissidenti.
In questo contesto, la retorica dell’integrazione serve solo a coprire l’esclusione sistematica di chi rifiuta di piegarsi al consenso imposto.
Anche quest’anno l’IQP ha intrecciato queste lotte, comunità e memorie in un’unica, potente voce collettiva. Un corteo che non si è limitato a celebrare, ma ha scelto di resistere, denunciare, costruire legami e visioni comuni.
In testa, il blocco palestinese seguito dalla resistenza Queer Curda, dal Bloque Latinoamericano al Disability Justice bloc, Queer anti-imperialist Asian, dall’Armenian bloc e dal Central and North Asia bloc. Presenti anche il Queer Vegan Liberation bloc, il Black Resistance, lə Sex Workers, lə Drag Queen e Kings, il blocco Queer Anarchico, Queer Afghanistan, Transfem bloc, il blocco Queer SWANA & Arab e, insieme a tuttə, lə Antifascistə.
Un mosaico vivo, rumoroso, unitə. Un fronte Queer che rifiuta la narrazione dominante, respingendo ogni tentativo di pinkwashing e che, con voce ferma e corale, sostiene che nessuna liberazione è reale se si costruisce sui corpi altrui.


La repressione parla chiaro: il nemico è chi denuncia
La scusa del senso di colpa nazista non regge più. Neppure quella della difesa incondizionata a Israele può più essere ancora usata per giustificare l’indifendibile. Siamo ormai davanti a una piena complicità con il Sionismo, che si traduce in profitti militari, economici e vantaggi geopolitici costruiti sulla normalizzazione di un genocidio in corso, sistematicamente occultato dietro l’accusa strumentale di antisemitismo.
La Berlino istituzionale ha paura di chi la costringe a guardarsi allo specchio. Il blocco palestinese anche questa volta non ha festeggiato sotto bandiere arcobaleno sponsorizzate Coca-Cola. Il blocco palestinese continua a non accontentarsi solamente di spazi sicuri in città, ma esige la fine dell’apartheid e la liberazione totale del proprio popolo, in ogni strada, in ogni angolo, senza pace, senza freni. Per questo continua a essere bersaglio della violenza di Stato ogni maledetto sabato.
Il 26 luglio non è stato l’ennesimo evento da vetrina occidentale ma una dichiarazione di resistenza volontaria a ogni forma di oppressione di chi sostiene che non ci sono né orgoglio, né diritti, finché un popolo viene affamato e bombardato con la complicità dell’Europa.
In prima linea un messaggio chiaro: è urgente fermare il genocidio israeliano a Gaza, senza perdere ulteriore tempo. La libertà è tale solo se condivisa.
Le strade di Berlino hanno urlato forte e chiaro la loro estraneità alle decisioni della politica tedesca: dalle esportazioni di armi all’alleanza politica incondizionata con Israele, alle deportazioni, alle perquisizioni in casa di attivistə, alla criminalizzazione di chi osa essere solidale. L’IQP è stato solo l’ennesimo episodio in cui la Polizei berlinese ha messo in atto la sua brutalità senza fare sconti a nessunə. Corpi queer, anzianə, minorennə, disabilə, e nel paradosso anche chi indossava un triangolo rosa. Un simbolo nato dalla persecuzione nazista contro le persone queer, cucito sugli abiti dei prigionierə nei lager per marchiarlɜ come “deviantə”, che è stato riappropriato come segno di resistenza. E oggi, torna a essere criminalizzato e vietato, se di colore rosso, perché collegato ad Hamas.
La banalità del male in questo paese delirante non è più una memoria del passato: è diventata prassi quotidiana. La Germania si conferma attrice diretta dell’oppressione e braccio operativo della violenza coloniale.

Le strade sicure le fanno i corpi queer che le attraversano
Da Südstern fino a Kottbusser Tor, ogni blocco ha pulsato con la Palestina nel cuore. I cori risuonano tra i palazzi, gli striscioni si muovono sull’asfalto, i passi creano ritmo. È una marcia viva, quella linea di corpi che attraversa la città con determinazione. Ogni metro racconta una storia di resistenza, ogni volto porta con sé una verità che non si vuole più nascondere.
Molte persone si chiedono cosa vuol dire partecipare a una manifestazione nel blocco palestinese? Vuol dire appartenere all’unico blocco che verrà caricato.
L’invito è a scendere in strada e sentire sulla propria pelle quello che succede, quando la marcia viene spezzata. Quando la polizia entra nella manifestazione come sempre: senza permesso, senza rispetto, con violenza cieca. Un’irruzione brutale, che trasforma lo spazio comune in un teatro di repressione. Si muovono tra di noi, gomiti alti, pugni in faccia, togliendo ossigeno. Le telecamere puntano sui nostri volti, gocce di sudore sotto i caschi chiusi dei poliziotti, inzuppati nel caldo di luglio. Nascosti dietro corazze nere imbottite, si muovono come automi in un sistema dove la coscienza non entra, ma l’odio filtra e agisce.
Lo scopo è intimidire, fare male. Quando il corteo parte, con ore di ritardo, è chiaro il gioco di potere: logorarci, isolarci, impaurirci. Il messaggio è diretto: a Berlino non si deve parlare di Palestina. Non oggi, mai.
Gli agenti agitano lo spray al peperoncino in aria come minaccia costante. Volano pugni, calci, mani sui nostri colli. Strappano gli striscioni, sequestrano le bandiere. Fanno a pezzi la bandiera del Progress Pride con la stessa arroganza con cui sui social si raccontano come una forza di polizia “inclusiva”. Una messinscena che la strada smaschera.
La violenza è priva di senso, come quella dell’8 marzo, come quella di ogni weekend dove si scende in piazza per la Palestina. Corpi calpestatə come i diritti che rappresentano. Trattatə come oggetti da disperdere, da spezzare. Nessunə viene rispettatə. Volano bottiglie e palloncini di vernice che esplodono sulla strada e sulle divise. La tensione è alta. La nostra autodifesa è la presenza, la solidarietà, lo sguardo lucido, la voce unita. Tuttə sotto lo stesso canto: «Ganz Berlin hasst die Polizei». E sì, è così. Loro odiano noi e noi odiamo loro.
Di Zaira Biagini
Una storia lunga quanto un genocidio. Ci stringiamo in una catena umana, a mani nude, contro un sistema armato di guanti imbottiti di sabbia e disprezzo in nome di un antisemitismo strumentalizzato. Ci soffocano in silenzio, senza nemmeno poter urlare.
Questa è la nostra marcia. Anche quando ci vogliono zittə, anche quando ci vogliono invisibili. Camminiamo finché ci bloccano a metà percorso. La demo viene interrotta prima della fine, “troppo violenta”, “troppo caotica”, “troppo”. Siamo sempre troppo.
Ma era esattamente questo l’obiettivo. Spezzarci, impedirci di arrivare. Eppure ci riusciamo lo stesso. Se ci colpiscono, è perché diamo fastidio. Se ci reprimono, è perché siamo scomodə.
Le casse della polizia gracchiano: «Achtung, Achtung, hier spricht die Berliner Polizei» – e inizia l’ assurdo. Ti picchiano se sei sulla strada, se non stai sul marciapiede, se non obbedisci. Se sei in più di cinque, se indossi una kefiah, se sei Palestinese, se sei queer, se respiri. Ti menano, se ti esprimi, se esisti.
Al termine della manifestazione si contano 65 arresti, tra cui minorennə, persone anziane e cinque membrə del gruppo organizzatore. Medicə e paramedicə hanno dovuto intervenire su numerosə manifestanti feritə dalle cariche della polizia, colpitə al volto, all’addome, ai reni e alla nuca, con conseguenze gravi: emorragie, perdita di coscienza e, in un caso, una sincope. Anche il personale medico è statə ripetutamente brutalizzatə mentre tentava di soccorrere lə feritə.
Quando lo Stato fallisce nel garantire il diritto all’espressione e alla protesta, le persone non solo possono, ma devono proteggersi a vicenda. Ed è proprio questo che hanno fatto 20.000 corpi pieni di amore e rabbia: si sono presə cura l’unə dell’altrə, insieme.
Questa è Berlino, questa è la Germania. Dove continueremo ad urlare: «There can be no Queer liberation without Palestinian liberation».
L’immagine di copertina è di Alessia Cocca
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