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MONDO

Appello delle donne ezide al governo italiano: «Riconoscere il genocidio di Shengal»

Il 3 agosto, nell’anniversario del genocidio, le donne ezide, che nel frattempo si sono organizzate politicamente e militarmente contro ulteriori aggressioni e per contrastare il patriarcato, inviano un appello al mondo per il riconoscimento del genocidio

Il 3 agosto prossimo la comunità ezida ricorderà il genocidio del 2014, quando nel distretto di Shengal (Iraq), proprio in quella data, i miliziani dello Stato Islamico (Deash) fecero irruzione nelle abitazioni e nelle vite delle e degli ezidi seminando violenza e terrore. Le avvisaglie di quanto stava per accadere c’erano e il genocidio si sarebbe potuto impedire, ma qualcosa si mosse alle spalle di questo popolo, condannandolo a un massacro. Uomini, ragazzi e donne anziane furono uccisi dai jihadisti dello Stato Islamico mentre le donne più giovani insieme ai bambini e alle bambine furono rapite.

Ancora oggi, le fosse comuni continuano a restituire i resti delle uccisioni di massa. Le donne e i bambini scappati dalla prigionia invece hanno raccontato storie raccapriccianti: donne, ragazze e bambine violentate in continuazione e vendute come schiave; bambini obbligati a convertirsi all’islam e a imbracciare le armi per uccidere tutti gli infedeli, a cominciare delle e dagli ezidi, ossia dai membri della loro stessa comunità. Un genocidio in piena regola che le e gli ezidi definiscono anche come “genocidio culturale”. Lo Stato Islamico, infatti, con la sua brutalità ha mirato a cancellare il culto ezida, che venera Melek Ta’us, ossia l’Angelo Pavone, che nell’islam rappresenta Iblis, cioé il Diavolo. Ma questo popolo è tutt’altro che adoratore del Diavolo, al punto da non riconoscere l’esistenza di Satana, nella convinzione che la fonte del male si trovi solo nei cuori umani.

Lo Stato Islamico però non si è diretto verso questo popolo con l’intento di sterminarlo per ragioni esclusivamente religiose, poiché l’attacco che ha sferrato era dettato anche da necessità più strategiche.

Nel 2014 aveva già occupato parti della Siria e dell’Iraq e il distretto di Shengal, all’epoca sotto il controllo militare dei peshmerga del KDP (Partito Democratico del Kurdistan), partito alla guida del governo del Kurdistan iracheno, era il tassello mancante per comporre il puzzle della costruzione del Califfato. L’integrazione del distretto ai territori già conquistati significava creare una continuità territoriale che permetteva di raggiungere in tempi brevi le due più grandi città del Califfato, la capitale Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq, cancellando in questo modo anche i confini disegnati dalle potenze coloniali. 

Tra Daesh e il KDP era stato raggiunto un accordo con il quale il primo aveva garantito di non ostacolare l’avanzata del secondo nella ricca regione petrolifera di Kirkuk, in quel momento nelle mani del governo centrale di Baghdad, in cambio del lasciapassare su Shengal. Come la storia ci racconta, l’accordo siglato è stato rispettato da entrambe le parti e la forza devastatrice dello Stato Islamico ha travolto la comunità ezida.

La paura però che la storia non venga trascritta fedelmente e che la memoria possa perdersi con il trascorrere del tempo ha spinto le sopravvissute e i sopravvissuti ezidi a impegnarsi perché questo non avvenga. Ma sono soprattutto le sopravvissute a essersi caricate sulle spalle questo lavoro e lo fanno anche attraverso le proprie organizzazioni delle donne.

Le donne della comunità ezida che si riconoscono nell’Amministrazione Autonoma di Shengal, forma di autogoverno basata sui principi del confederalismo democratico espressi dal leader curdo del PKK, Abdhulla Öcalan, hanno costituito due organizzazioni femminili, il TAJE nel 2016 e l’Êzîdî Woman Support League nel 2019 (tre delle sette fondatrici di quest’ultima erano state rapite da Daesh)che operano nella società civile per supportare le ezide liberate dalla schiavitù imposta dallo Stato Islamico e per rintracciare quelle ancora nelle sue mani e liberarle, per tramandare le tradizioni ezide alle nuove generazioni e garantire loro un’istruzione adeguata ma anche per parlare del genocidio e comprenderne le cause e i suoi effetti. Le donne sono certe che la loro comunità dovrà affrontare nuove sfide insidiose e vogliono farla trovare preparata affinché sia scongiurata la sua estinzione. 

Il lavoro sociale e politico che portano avanti disegna il nuovo ruolo che hanno nella contemporanea società ezida, che continua a fare i conti con il lascito del genocidio.

In questa società la donna ezida è una figura indispensabile e copre tutti gli spazi politici rivestiti anche dagli uomini, con la messa in pratica della doppia carica (co-presidente, co-sindaco/a, ecc.) all’interno delle amministrazioni e delle organizzazioni della società civile. L’istruzione delle bambine e delle ragazze, sacrificata per molto tempo, oggi è al centro dello sforzo collettivo della comunità che guarda a loro con occhi diversi, investendo sulla loro formazione perché possano partecipare con gli strumenti della cultura alla elaborazione e realizzazione del confederalismo democratico. Sulla scia di questo paradigma politico, le donne ezide dovranno lottare duramente contro ogni forma di patriarcato per costruire una società democratica, libera e in armonia con l’ambiente.

Ma non solo. Le donne ezide non si devono limitare alla partecipazione politica e sociale ma sono chiamate a difendere la propria comunità, la propria terra e la propria cultura attraverso la resistenza armata. Infatti, mentre lo Stato Islamico faceva razzia nei villaggi e nelle città ezide conquistate, circa 350mila ezidi cercavano di mettersi in salvo scappando sulla Montagna di Shengal per evitare la condanna jihadista. Questo lungo fiume di persone affaticate e disperate era stato protetto dal HPG, l’ala armata del PKK, che era prontamente intervenuto in soccorso, nell’attesa che le cancellerie del mondo decidessero se e come aiutare quella popolazione in pericolo. 

Al HPG ben presto si erano aggiunte le YPG, le unità di resistenza curde del Rojava, ma la stessa comunità ezida non era restata inerte. Tra coloro che si erano uniti alla battaglia per riconquistare la propria terra c’erano anche le donne, le quali nella primavera del 2015 avevano dato vita alle YJŞ, ossia le unità di resistenza delle donne ezide.

Le YJŞ insieme alle YBŞ, le unità di resistenza degli uomini ezidi, hanno il compito di difendere il territorio di Shengal e l’Amministrazione Autonoma.

Daesh non poteva immaginare che con il suo progetto genocida avrebbe contribuito a liberare intelligenze, energie e forze che appartengono alle donne ezide. Proprio loro che, nel disegno che aveva in mente lo Stato Islamico, avrebbero dovuto rappresentare il simbolo, insieme ai bambini ezidi trasformati in soldati, del disfacimento della cultura e della società ezida attraverso l’umiliazione della conversione forzata all’islam e degli stupri, hanno saputo interrogarsi davanti alla tragedia e a dare risposte concrete. No, Daesh non poteva immaginare che la risposta al suo progetto genocida sarebbe stato l’inizio di un cammino che porta alla liberazione della donna dalle grinfie del patriarcato.

Nonostante ci sia una legge irachena, la Yazidi (Female) Survivors’ Law entrata in vigore nel 2021, che riconosce il genocidio degli ezidi e di altre minoranze da parte di Daesh e il 3 agosto venga indicata come data di commemorazione nazionale, a 11 anni dal genocidio la comunità ezida non si sente ancora fuori pericolo perché vive sotto la pressione degli interessi che il governo centrale di Baghdad e il KDP hanno sull’area, ma è soprattutto la Turchia che la preoccupa, con i ripetuti attacchi effettuati con i droni che prendono di mira i membri dell’Amministrazione Autonoma uccidendoli in quanto reputati affiliati del PKK. 

Questa situazione pericolosa genera instabilità, aggravata anche dalla carenza di molti servizi e infrastrutture, diretta conseguenza della distruzione provocata da Daesh, e scoraggia il rientro delle tante famiglie ezide che ancora vivono nei campi profughi del Kurdistan iracheno.

Con l’avvicinarsi del 3 agosto, il TAJE ha scritto al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e a 14 Paesi, tra cui l’Italia, per chiedere che il genocidio venga riconosciuto. In Italia la richiesta per il riconoscimento pende davanti al Governo già da cinque mesi, ossia da quando la deputata Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo, su domanda dell’Associazione Verso il Kurdistan odv, l’ha formalizzata nella seduta parlamentare del 21 febbraio. 

Il Governo italiano non si è ancora espresso è il TAJE lo esorta a farlo. Il testo che segue è la lettera inviata dal TAJE:

«Sono trascorsi undici anni dal 74° genocidio, ma le ferite non sono ancora guarite e la tragedia non è ancora stata superata. Circa 2.900 ezidi, per lo più donne e bambini, sono ancora tenuti prigionieri dai mercenari dell’IS. Il destino di centinaia di loro rimane sconosciuto. Decine di fosse comuni sono ancora in attesa di riesumazione e continuano a essere scoperte nuove fosse comuni.

In 11 anni, 14 paesi hanno riconosciuto l’attentato del 3 agosto come genocidio. Come Movimento per la Libertà delle Donne Ezide, abbiamo preparato un dossier completo sul genocidio del 3 agosto 2014. Vi presentiamo un dossier contenente documenti e informazioni che dimostrano che ciò che il popolo ezida di Shengal ha subito è stato un genocidio. Vi esortiamo ad adempiere al vostro dovere e alla vostra responsabilità umanitaria e a riconoscere ufficialmente il massacro come genocidio.

Come donne ezide, ci siamo organizzate nel 2015 con il nome di Consiglio delle Donne Ezide per impedire il massacro delle donne e della nostra comunità in seguito al genocidio del 2014. Abbiamo fondato la nostra organizzazione in risposta al genocidio che ha colpito le donne ezide e la comunità ezida. Abbiamo ampliato i nostri sforzi per dare potere alle donne e consentire loro di proteggersi da attacchi e genocidi. Nel 2016, abbiamo fondato il Movimento per la Libertà delle Donne Ezide” (TAJÊ) attraverso un congresso da noi organizzato. Come donne ezide di Shengal, continuiamo il nostro lavoro».

L’immagine di copertina è di Carla Gagliardini

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