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DIRITTI

Lavoro e ondate di calore

Un’analisi comparata delle normative relative al rapporto fra lavoro e ondate di calore – un tema sempre più attuale con il cambiamento climatico ma regolato in Italia in modo empirico e insufficiente

Il Ministero del Lavoro, insieme alle imprese e ai sindacati, ha sottoscritto un protocollo quadro per contrastare i rischi lavorativi legati alle ondate di calore che stanno colpendo l’Italia. L’accordo prevede misure come l’uso di ammortizzatori sociali in caso di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro, la riorganizzazione dei turni, l’adozione di abbigliamento adeguato e la fornitura di bevande. Il protocollo si applica anche alle lavoratrici e ai lavoratori stagionali in agricoltura e alle imprese appaltatrici nei cantieri che dovranno garantire pause, orari flessibili e accesso all’ombra. Si giunge a questa intesa dopo che diverse Regioni hanno adottato ordinanze per limitare il lavoro durante le ore più calde. Con questo protocollo i padroni dovranno consultare i bollettini ufficiali e adottare misure preventive in caso di emergenze climatiche. Un tema di questa rilevanza avrebbe però bisogno di un approccio strutturale, come richiesto ad esempio dalla CGIL, anche perché è ormai evidente, come testimoniano alcuni casi di cronaca recenti, un legame tra il cambiamento climatico e l’aumento per i rischi per la salute delle lavoratrici e dei lavoratori, soprattutto in settori esposti alle alte temperature, sia all’aperto che al chiuso.

Di ciò, secondo Elisa Errico e Daniele Di Nunzio in Caldo estremo e salute e sicurezza sul lavoro: il ruolo del dialogo sociale, si è iniziato a parlare nel dibattito pubblico a partire dal 2003, anno in cui l’aumento delle temperature estive ha attirato l’attenzione mediatica e scientifica in tutta Europa anche se la questione della salute e sicurezza sul lavoro è rimasta marginale nelle agende politiche fino a tempi più recenti. Dal 1985 al 2014 l’Italia ha registrato un aumento medio delle temperature di 0,7 gradi, con proiezioni per il 2050 che indicano un incremento di 1,3 gradi nello scenario a basse emissioni e di 2,5 gradi in quello ad alte emissioni. Lo scenario peggiore prevede un aumento fino a 5,9 gradi entro il 2090. Questi cambiamenti climatici comportano un aumento della frequenza e dell’intensità delle ondate di calore, con conseguente stress termico per la popolazione.

Attualmente i tassi di mortalità legati al calore in Italia sono più del doppio della media europea e si prevede un ulteriore peggioramento, specialmente nelle aree urbane, rendendo urgente l’adozione di misure di protezione per cittadine e cittadini e lavoratrici e lavoratori. L’impatto delle ondate di calore è differenziato e colpisce maggiormente le fasce più vulnerabili della popolazione, come persone anziane e con patologie croniche, riflettendo così le disuguaglianze sociali esistenti. Le ondate di calore hanno anche implicazioni economiche, influenzando l’offerta di lavoro (con la riduzione delle ore lavorate) e la produttività. Ad esempio nel 2019, rispetto al periodo 2000-2004, si è registrato un calo del 79,9% delle ore lavorative potenziali nei settori agricolo, edile, dei servizi e industriale. Le proiezioni indicano un’ulteriore riduzione della produttività dell’1,2% nello scenario a basse emissioni e del 3,1% in quello a emissioni medie.

Per quanto riguarda il rapporto con gli infortuni sul lavoro, studi epidemiologici hanno evidenziato che in Italia circa 5.211 infortuni annuali (2006-2010) sono legati a temperature estreme, con maggiore vulnerabilità tra giovani maschi (15-34 anni) impiegati in PMI, dove la rappresentanza sindacale è spesso assente.

Il settore delle costruzioni è il più esposto con 184.936 infortuni registrati tra il 2014 e il 2019, specialmente tra muratori e idraulici. Anche l’agricoltura mostra un’elevata incidenza di infortuni legati al calore (2.050 casi tra 2014 e 2018), con lavoratori giovani e irregolari particolarmente a rischio. Ricerche nella provincia di Trento e nella Pianura Padana hanno confermato un aumento degli infortuni in condizioni di calore estremo, con un tasso di 66,3 infortuni ogni 1.000 lavoratori nel periodo 2013-2017. Gli infortuni sono più frequenti tra i lavoratori italiani rispetto a quelli immigrati probabilmente a causa della sottodenuncia da parte di questi ultimi.  

Per quanto riguarda le normative italiane sulla gestione delle ondate di calore, l’attenzione è focalizzata sulla tutela della salute e il loro limite maggiore è la frammentarietà poiché manca una legge organica e il quadro normativo in generale dipende ancora molto da atti amministrativi e piani regionali disomogenei. La tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, in particolare, è affidata per lo più a protocolli aziendali e accordi territoriali, senza un obbligo nazionale chiaro. Questo approccio altamente flessibile rischia di lasciare scoperte fasce significative della popolazione attiva, soprattutto nei settori più esposti, come l’edilizia e l’agricoltura. Ci sono altri Paesi europei con una normativa in materia maggiormente rigida.

Ad esempio è il caso della Spagna dove il Real Decreto 4/2023 introduce modifiche significative nella normativa sulla prevenzione dei rischi lavorativi legati alle alte temperature. Questa legge è stata una risposta nata da tre decessi di tre lavoratori in una sola settimana, vittime di colpi di calore. Simili episodi si inseriscono in un’estate che registrò un eccesso di mortalità fino a 4.800 decessi correlati al caldo, molti dei quali riguardavano persone anziane o con patologie pregresse, ma anche lavoratrici e lavoratori esposti. La normativa modifica il Real Decreto 486/1997 integrando disposizioni specifiche per i luoghi di lavoro all’aperto o in ambienti non completamente chiusi, dove il rischio legato a fenomeni meteorologici avversi, in particolare le temperature estreme, diventa critico.

In caso di allerta arancione o rossa emessa dall’AEMET o dagli enti autonomi competenti, i padroni devono adottare misure adeguate per proteggere chi lavora, con un’attenzione particolare alle caratteristiche individuali (età, condizioni di salute) e alla tipologia di attività svolta.

Le misure chiave includono una valutazione dei rischi basata su fattori ambientali, fisici e organizzativi, con possibile divieto di svolgere determinate mansioni nelle ore più critiche se non è garantita la sicurezza, l’adattamento delle condizioni lavorative, come la modifica degli orari o la sospensione temporanea dell’attività, quando le misure preventive risultino insufficienti e infine l’obbligo di intervento in caso di allerta, con un’enfasi sulla prevenzione attiva e sulla responsabilità datoriale. I settori più colpiti, edilizia, agricoltura, trasporti, pulizia e ristorazione, sono quelli in cui l’esposizione diretta al sole o a fonti di calore interno (forni, cucine) rende inevitabile un approccio rigoroso. La legge lascia margini di miglioramento perché mancano disposizioni specifiche per i locali chiusi con alta intensità fisica o per la garanzia di aree di riposo climatizzato.

In Francia abbiamo invece il Décret n° 2025-482 del 27 maggio 2025, entrato in vigore il 1° luglio 2025, che introduce obblighi legali vincolanti per i padroni pur con alcuni limiti segnalati dalla CGT. Uno dei punti più controversi riguarda l’assenza di una definizione chiara delle temperature “adatte” nei luoghi di lavoro. Il Codice del lavoro non stabilisce soglie massime o minime oltre le quali i dipendenti possano abbandonare il posto di lavoro, limitandosi a prescrivere la disponibilità di acqua fresca e il ricambio d’aria per evitare temperature eccessive. La Direzione Generale del Lavoro ha sostituito l’obbligo di una «temperatura conveniente» in inverno con quello di una «temperatura adeguata all’attività svolta», senza però specificare valori precisi, lasciando così ampio margine di discrezionalità ai padroni. Questo rende difficile per i lavoratori far valere i propri diritti e non impedisce situazioni estreme come locali riscaldati a 12°C in inverno o temperature di 40°C in estate. Nonostante l’INRS fornisca linee guida indicative, suggerendo che temperature superiori ai 30°C per attività sedentarie e ai 28°C per lavori fisici rappresentino un rischio, il decreto non le incorpora come obblighi vincolanti. Inoltre le misure previste dal decreto si applicano solo in caso di allerta gialla o arancione di Météo France, ignorando i rischi legati a fattori strutturali come l’uso di macchinari che generano calore, l’eccessiva esposizione al sole attraverso vetrate, la mancanza di isolamento termico o i sistemi di ventilazione inefficienti che possono rendere pericolosi gli ambienti di lavoro anche in assenza di allerte ufficiali.

In Germania la protezione delle lavoratrici e dei lavoratori dalle ondate di calore è regolata da diverse norme. L’Arbeitsschutzgesetz impone ai padroni di valutare i rischi e adottare misure preventive, privilegiando soluzioni tecniche e organizzative rispetto a quelle individuali. L’Arbeitsstättenverordnung stabilisce che le temperature nei luoghi di lavoro non devono mettere a rischio la salute. Per attività leggere la temperatura ideale è di 20°C mentre per quelle moderate scende a 17°C. Oltre i 26°C il padrone deve intervenire con misure di mitigazione (come tende parasole, ventilatori o orari flessibili) mentre oltre i 30°C queste diventano obbligatorie, compresa la fornitura di bevande. A 35°C l’ambiente non è più idoneo al lavoro senza ulteriori precauzioni (ad esempio, pause di raffreddamento o indumenti protettivi). Le Technische Regeln für Arbeitsstätten (ASR A3.5), pur non essendo vincolanti, forniscono linee guida per garantire il benessere termico ma spetta ai padroni decidere come applicarle, sotto il controllo di rappresentanti delle lavoratrici e dei lavoratori. Per chi lavora all’aperto i rischi aumentano a causa dei raggi UV e dell’ozono, rendendo necessarie misure aggiuntive come ombreggiatura, creme solari e accessori protettivi. Le e i rappresentanti del personale (Betriebsrat o Personalrat) hanno diritto di co-decidere in materia di sicurezza sul lavoro, inclusa la gestione delle ondate di calore, attraverso accordi aziendali. Non esiste però un «diritto a lasciare il lavoro per il caldo» e infatti in caso di inadempienza del padrone i dipendenti possono rivolgersi alle autorità competenti o, in casi estremi, ricorrere al licenziamento per giusta causa. Queste leggi sono spesso figlie dell’azione dei sindacati, della loro mobilitazione e della loro pressione istituzionale ma possono agire anche attraverso altri strumenti come la contrattazione collettiva che può integrare, a livello territoriale e aziendale, misure contro le ondate di calore nei contratti e c’è anche lo strumento della formazione e sensibilizzazione dei lavoratori circa i rischi del lavoro ad alte temperature.

La CGIL, dicono nel loro lavoro Errico e Di Nunzio, porta due casi studio dell’uso della forza del sindacato per gestire il lavoro con alte temperature.

La FLAI CGIL ha svolto un ruolo centrale nel sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica sui rischi legati alle ondate di calore, soprattutto dopo incidenti mortali come quello di Paola Clemente nel 2015. Ha promosso mobilitazioni, come lo sciopero dei braccianti a Nardò nel 2011, e ha sostenuto azioni legali contro lo sfruttamento e il caporalato. Grazie a queste pressioni nel 2016 è stata introdotta la prima ordinanza sindacale a Nardò che vietava il lavoro agricolo nelle ore più calde in caso di allerta termica. Successivamente la CGIL ha lavorato per estendere queste tutele a livello regionale ottenendo nel 2022 un’ordinanza che sospendeva il lavoro nei campi tra le 12:30 e le 16 durante le ondate di calore. Ha inoltre collaborato con enti bilaterali e istituzioni per migliorare la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori, soprattutto migranti, e per integrare misure di prevenzione nei contratti collettivi provinciali. Nella logistica, invece, la FILT CGIL ha affrontato la sfida della frammentazione lavorativa e della scarsa consapevolezza dei rischi termici negli ambienti chiusi. Ha promosso protocolli aziendali, come quello con Just Eat Takeaway.com, che prevede pause retribuite. A livello nazionale ha spinto per l’inclusione di clausole specifiche nei contratti collettivi, insistendo sulla necessità di valutazioni dei rischi personalizzate e sull’ammodernamento degli spazi di lavoro. Sul lato della formazione, invece, ha organizzato focus group con le RLS per validare strategie di prevenzione e ha collaborato con enti come l’INAIL per sviluppare linee guida basate su evidenze scientifiche.

L’immagine di copertina è di Michele Cannone, da Flickr

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