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Esistenze di frontiera tra Nord e Sud del mondo: un racconto

Una linea mobile, dotata di opportuni sistemi difensivi, che delimita e riconosce due entità politiche, due stati. Una sola parola che la definisce, “La frontiera”. Il titolo dell’ultima opera di letteratura no fiction di Alessandro Leogrande.

 La frontiera, come metafora dell’esistenza: di milioni di donne e uomini che scappano da guerre, fame, persecuzioni politiche. Nel libro, un lungo reportage narrativo, scritto come un diario di bordo, si incrociano molte di queste storie: tragedie e speranze ambientate lungo il crinale del Mar Mediterraneo. Una sequenza fitta di racconti e biografie, custodite e raccolte dalla memoria dell’autore nello spazio di un decennio. Racchiusa in “una parola che indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano”, così la definisce l’autore. “C’è una faglia sotterranea che taglia in due il Mediterraneo da est a ovest. Dal vicino Oriente a Gibilterra”, scrive Leogrande, il quale, sia da giornalista, che da scrittore, si è sempre occupato di storie di frontiera. Come quelle dei trafficanti di sigarette in azione da una parte all’altra del Mar Adriatico raccontati in “Le male vite” (Fandango 2010) o dei braccianti sfruttati lungo il tavoliere delle Puglie di “Uomini e Caporali” ( Mondadori 2008); o le vite perdute dei profughi albanesi che erano bordo della piccola motovedetta albanese “Kater I Rades” il 28 marzo 1997, affondata nel Canale d’Otranto nello specchio di acque antistanti il porto di Brindisi, e ricostruite ne: “il Naufragio ( Feltrinelli 2011). Fino a quelle esistenze perennemente in bilico degli operai di Taranto ( Fumo sulla città, Fandango 2013).

Ora, su quella “linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti ogni punto corrisponde a una storia, ogni nodo un pugno di esistenze”. È ne “La frontiera” che trova spazio il racconto dei naufragi lungo la linea mediterranea: dei cadaveri che affiorano lungo le coste della Sicilia – ma anche di Grecia e Turchia – delle carceri libiche, dei traffici d’organi organizzati nel Sinai, della rotta dei Balcani. Non soltanto. Nel libro ci sono anche le immagini di segregazione che fuoriescono dai C.I.E. italiani o dalle periferie romane e quelle di un esodo poco ricordato: degli eritrei che scappano dalla dittatura spietata di Isaias Afewerki, al potere dal 1993, dopo il successo nella guerra di liberazione nazionale contro l’Etiopia. Donne e uomini di cui sappiamo pochissimo, che scappano da una società, come quella eritrea, dove si vive da tempo in uno stato di mobilitazione militare permanente, sospesi in un limbo, in cui chi riesce a fuggire lo fa dalle torture nelle carceri, dai gulag sorti per gli oppositori del regime.

Lo scritto è come se fosse ambientato, non in un luogo preciso, piuttosto lungo la “moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento, che coincidono con la possibilità di finire da una parte o rimanere nell’altra”. Lungo quei punti impercettibili che uniti l’uno all’altro costituiscono la frontiera, un luogo reale e allo stesso tempo immaginario, dove ogni giorno “sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze”. Attorno a uno spazio geopolitico, in continua definizione, mobile, attraversato da capitali, merci, e soprattutto da persone. Un luogo continuamente ridefinito, che si allarga o si restringe, a seconda delle logiche politiche e delle congiunture economiche e sociali. Le frontiere non sono mai fisse, ci spiega Leogrande. Anche i confini mutano continuamente, quando esplodono guerre e le dittature cadono oppure si instaurano, aprendo nuovi punti di accesso all’Europa. Il continente che sembra avere dichiarato una guerra silenziosa ai rifugiati, dietro lo schermo del sistema dei confini, degli assetti politici predisposti dal diritto delle migrazioni. Già, perché ad esempio, alcune storie a cui Leogrande dà voce raccontano dei confini della “fortezza Europa” difesi con procedure che non tengono in conto della Convenzione di Ginevra, in particolare, come le politiche di respingimento dei migranti, della quale l’Italia stessa si è resa complice, in virtù degli accordi con la Libia di Gheddafi. Ma c’è anche spazio, nel racconto, per il “rifiuto dei fantasmi coloniali. Rifiuto di una storia che si ripete e della retorica che la celebra. Rifiuto della morte”. Di quell’odore che si respira nelle galere dell’Eritrea, ex colonia italiana, e nel Sinai dei trafficanti di uomini e organi. Luoghi dell’indicibile, da cui lo scrittore trae racconti inediti e spaventosi. Siamo solo a metà del viaggio, prima che i profughi s’imbarchino sui pescherecci della morte verso l’Italia o la Grecia, per poi tentare la risalita verso i Paesi Nordici.

Tutto ciò accade lungo la frontiera, dove Leogrande incontra i fantasmi dei trafficanti di persone e gli schiavi dei Sud del mondo; ma anche attivisti per l’accoglienza degna, medici, pescatori, come Costantino che a Lampedusa ha salvato centinaia di persone, e alcuni uomini della Marina militare italiana, testimoni oculari di vite salvate ed esistenze perdute, lungo la frontiera. Insomma, c’è tutto quello che non si trova nelle retoriche mediatiche sui flussi migratori. Nel reportage di Leogrande, ci sono le vite di preti cattolici come don Mussie Zerai, il cui numero di telefono è ben impresso su tutti i muri delle prigioni libiche. Poche cifre da mandare a mente per tutti coloro, eritrei, somali, finiscono in quei non-luoghi. Ci sono le minacce che don Mussie ha subito dai trafficanti di uomini, per il suo impegno in favore dei rifugiati E poi c’è il contesto politico – sociale, in cui centinaia di tragedie e speranze si annidano. Nella frontiera c’è tutto ciò che non trovate nei salotti televisivi, nei talk show, lì dove si discute soltanto di quote, cifre, freddi numeri. Nel libro di Alessandro Leogrande, invece, troverete le esistenze di chi vive lungo un crinale pericoloso, a causa delle scelte politiche dei governanti europei. Di opzioni politiche criminali, di cui un giorno qualcuno dovrà pur dar conto, davanti al tribunale della storia.