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La Resistenza e la memoria del dopo. Intervista con Stefania Ficacci

Come si racconta la Resistenza a Roma? Quali le sfide in una società che cambia? Ne parliamo con la delegata alla memoria del Municipio V e coordinatrice didattica dell’Ecomuseo Casilino di Roma

«Allora ci vediamo sotto la targa al parco Sangalli», mi dice al telefono Stefania Ficacci, storica, coordinatrice didattica dell’Ecomuseo Casilino di Roma, e delegata alla memoria del Municipio V della capitale. Parliamo di Resistenza, del suo significato attuale e di come la si tramanda (specie ora che i testimoni stanno morendo), provando a intersecare dimensione locale, territoriale, e vicende che riguardano invece tutta l’Italia e oltre. «Oggi quello che dovremmo cominciare a rielaborare è la memoria del dopo, e chi si è fatto carico di questa memoria. Se oggi parliamo di questo lo dobbiamo alle donne del Quadraro, delle Fosse Ardeatine, della Garbatella. Le donne hanno da sempre il ruolo di racconto. Questa storia deve emergere, come deve emergere di più la storia delle donne nella Resistenza – se ne parla sempre troppo poco, e spesso come contributo e non come protagonismo. Mi piacerebbe insomma che emergesse di più la storia della memoria, in modo tale che si comprenda come non sia automatico il passaggio dalla memoria alla storia». 

Partiamo proprio dal Parco Sangalli. 

Questo parco ha un legame molto forte con gli anni della Resistenza e della lotta di liberazione. Giordano Sangalli a cui è dedicato questo posto, parte del parco dell’Acquedotto Alessandrino, era un ragazzo di diciassette anni, che faceva parte del GAP di Rosario Bentivegna (il Pisacane), e venne assassinato dalla polizia italiana e tedesca il 7 aprile del 1944, sul Monte Tancia, nell’Appenino reatino. Siamo quindi nei giorni che precedono l’inizio della battaglia finale per Roma.

E perché gli è stato dedicato questo parco?

«Negli anni del dopoguerra in quest’area c’era un piccolo campo da calcio. C’erano dei derby molto accesi, come quello tra la squadra del Tor Pignattara e il Chinotto Neri, grandi sfide, del resto anche lo sport partecipava al senso di libertà di allora. Questo campo veniva chiamato il campo Sangalli. Allora quando è stato poi restaurato il parco, negli anni novanta, l’area dove insisteva il campo viene dedicata proprio allo stesso Sangalli»

Che Resistenza c’è stata in qui?

Questa zona, che poi era l’Ottava Zona come veniva identificata dal CLN, era una zona strategicamente fondamentale. Collegata soprattutto con il basso Lazio, da dove arrivavano gli alleati. Diventa ancor più importante quando il fronte di ferma a Cassino, nell’autunno del 1943, e poi quando c’è quando c’è questo passaggio – in apparenza fondamentale – dello sbarco di Anzio nel gennaio 1944. Questa diventa una zona di comunicazione. Peraltro, tanti dei partigiani, di varie formazioni, erano postelegrafonici: qui abbiamo per esempio Ottavio Capozio, di Bandiera Rossa, ucciso alle Fosse Ardeatine, che aveva contatti diretti con il fronte di Anzio. E poi era una zona di passaggio dei tedeschi. E quindi qui si assisteva a taglio dei fili elettrici, sabotaggio di treni e vie consolari (in particolare la Casilina che portava direttamente a Cassino). Insomma, l’Ottava Zona era sì Roma, ma anche una zona di collegamento.

Questo ha facilitato poi la partecipazione di questi uomini e donne alla Resistenza in altre zone d’Italia, come appunto sul Monte Tancia.

Sì, in particolar modo i GAP, hanno collegamenti diretti con il reatino e il basso Lazio. 

E più in generale, che Resistenza è quella romana?

Nell’ottava zona, soprattutto Centocelle e Quadraro per la loro struttura di retroguardia della Casilina, svolgono questa funzione di nascondere; c’è una Resistenza civile, che finalmente dagli anni Novanta abbiamo imparato a riscoprire e comprendere quanto era fondamentale. Di donne, soprattutto, che nascondono nelle loro case partigiani, armi, renitenti alla leva. Una forma di Resistenza delle città era proprio non fornire braccia all’esercito nemico. 

Come cambia la memoria della Resistenza in una zona in profondo mutamento.

Negli ultimi anni c’è stato un cambio generazionale, anagrafico, ma anche culturale, sociale. Molte persone che non sono nate qui e non hanno una tradizione famigliare legata al territorio, ma che hanno una tradizione mondiale. Lo ricordo spesso nei laboratori con i ragazzi, visto che a Tor Pignattara la comunità più grande è quella del Bangladesh, i loro nonni o bisnonni sono venuti qui a liberare Roma, perché erano dietro alle truppe inglesi. C’è un filo comune che va coltivato e costruito.

E come si racconta la Resistenza ora che i testimoni stanno morendo.

Intanto con la storia orale. Abbiamo archivi, interviste con questi testimoni, e questo materiale viene ora sviluppato in documentari, siti, e altro. E poi c’è il compito di mediare. Una mediazione che è culturale, per riuscire a parlare a nuove generazioni più globalizzate e che hanno altre forme di comunicazione. Per questo è importante lavorare con gli insegnanti. Infine, la memoria non deve essere mai celebrativa o autocelebrativa, sta a noi nel presente metterci in contatto con il passato per interpretarlo. Adesso, per esempio, molti studenti fanno domande su quello che sta succedendo in Ucraina. Noi abbiamo il compito di rispondere loro facendogli capire che ogni evento storico ha un inizio, una fine, e un quadro entro cui si muove.

Come ci possiamo districare nella miriade di date memoriali italiane? L’ultima è il 26 gennaio, dedicata al corpo degli Alpini, data scelta in maniera infausta per ricordare la vittoria Nikolajewka, un’unica battaglia vittoriosa della spedizione in Russia durante la seconda guerra mondiale. 

È molto complicato. Non amo il parallelismo che si è creato tra il Giorno della Memoria (27 gennaio) e il ricordo degli Alpini. Sono due cose diverse. Il Giorno della Memoria è legato prima di tutto agli eventi che hanno violentato l’Europa e sono quelli legati alla persecuzione razziale e politica. Commemorare invece un corpo e un’istituzione in una giornata specifica dovrebbe essere semplicemente, a mio giudizio, una data legata a una fondazione, a un momento fondativo. Così invece si crea una forte difficoltà a rielaborare e a tramandare tutto questo alle giovani generazioni. C’è dunque un proliferare di celebrazione della memoria e questo non è del tutto positivo, perché dovremmo celebrare i valori che nascono da eventi storici, non le date, di quelle ne abbiamo tante e c’è il manuale di storia che ce le ricorda. 

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Questa intervista è una versione ridotta della puntata speciale sulla Resistenza di Sveja, la rassegna stampa su Roma. Qui si può ascoltare la puntata intera. 

Tutte le fotografie di Miriam Aly (Parco Giordano Sangalli, 23 aprile 2022)