editoriale

Do you remember 7 aprile?

Ricordiamo quel sabato 7 aprile del 1979 con i suoi 22 mandati di cattura, di cui 15 eseguiti, in galera (…finalmente!) o in fuga, il vertice del terrorismo, Autop o Bierre non importa, compresi i mandanti, gli strateghi, gli esecutori, i gregari e i telefonisti del caso Moro , Antonio Negri, detto Toni, Luciano Ferrari Bravo, Emilio Vesce, Lauro Zagato, Ivo Galimberti, Carmela Di Rocco, Pino Nicotri, Paolo Benvegnù, Alisa Del Re detta Lisi, Mario Dalmaviva e chi più ne ha più ne metta.

Essi si erano riuniti in una o più associazioni a varia denominazione “…al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e mutare violentemente la Costituzione e le forme di governo…” o al fine comunque “di sovvertire violentemente gli ordinamenti costituiti sia mediante la propaganda e l’incitamento alla pratica cosiddetta dell’illegalità di massa di varie forme di violenza e di lotta armata, espropri e perquisizioni proletarie, incendi e danneggiamenti ai beni pubblici e privati, rapimenti e sequestri di persona, pestaggi e ferimenti, attentati a carceri, caserme, sedi di partito, associazioni e cosiddetti covi di lavoro nero, sia mediante l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi, ordigni incendiari e, infine, mediante il ricorso ad atti di illegalità, di violenza e di attacco armato contro taluni degli obiettivi sopra precisati”.

Parte così, per mano di un sino ad allora oscuro sostituto procuratore padovano, Pietro Calogero, la più grande operazione politico-giudiziaria del dopoguerra, o forse dell’intera storia unitaria del Paese. Che tale è, anche perché è permessa e promossa dalle forze politiche istituzionali, il PCI in primissimo luogo, alla ricerca di una vera e proprio ‘soluzione finale’ con cui chiudere i conti con i movimenti alla sua sinistra, antagonisti, sovversivi e rivoluzionari che fossero – soprattutto con quelli di origine operaista, che più direttamente avevano attaccato le politiche berlingueriane del compromesso storico e delle alleanze strategiche con la DC.

Un’operazione che introduce tanto sul piano legislativo quanto sul piano dei valori politici e culturali correnti quel tema della “emergenza” destinata a diventare categoria fondamentale, anche al presente, dei rapporti tra Stato e cittadino, tra movimenti (di qualsiasi natura) e istituzioni. Poco conta, intanto, che gran parte delle accuse rivolte nei primi mandati di cattura si rivelino quasi subito grottescamente infondate: il “7 Aprile” non è che l’inizio, la premessa per un decennio di incarcerazioni e di processi che vedranno in carcere non meno di 4.500 detenuti politici e qualche centinaio di processi, grandi e piccoli, con non meno di 20 mila imputati – cifre mai viste, nemmeno durante il Fascismo con i suoi Tribunali speciali.

Vale la pena sottolineare anche oggi che lo Stato si servì allora, senza riserve, di apparati repressivi autorizzati ad agire con qualunque mezzo, tortura compresa. Di un sistema carcerario basato su circuiti “speciali” e su trattamenti discriminatori e disumanizzanti nei confronti dei prigionieri “pericolosi”, non solo politici. E di un sistema giudiziario basato sulla carcerazione preventiva irrogata già come pena prima ancora della celebrazione dei processi, che con i suoi dodici anni di “scadenza termini” fu condannata in tutte le sedi giurisdizionali europee. Ma soprattutto, del “pentitismo” come metodo quasi esclusivo di indagine e di acquisizione probatoria nei confronti degli imputati e degli indagati. Metodo che si spinse sino a esiti aberranti come quello della scarcerazione quasi immediata di Marco Barbone, assassino del giornalista Walter Tobagi, in cambio delle accuse contro gli esponenti di Rosso, il gruppo dell’Autonomia milanese. Ciò soprattutto perché governo e apparati repressivi poterono contare sul consenso quasi totale dei partiti politici e dei mass media, tranne le pochissime eccezioni rappresentate dai Radicali e da qualche esponente, a titolo personale, del PSI.

Ma per tornare al 7 Aprile vero e proprio: i processi che ne scaturirono, soprattutto quello di Roma, condotto nell’aula bunker del Foro Italico e durato quasi un anno e mezzo, furono eventi fortemente mediatici, anche per vicende come l’elezione a deputato radicale di Toni Negri e la sua fuga in Francia. Perché gli imputati potessero ritornare alla libertà o a pene meno sovradimensionate e più congrue ai reati commessi, occorreranno altri anni, i processi di appello e nuove, più normali regole legislative e giudiziarie.

 

So bene che nella ricerca storica questa mia nota dovrebbe avere solo il valore della testimonianza e non della sia pur limitatissima ricostruzione “oggettiva”. Ma visto che me lo avete in qualche modo già concesso, permettetemi di proseguire sia pure per poco in questo “peccare”. Del mio 7 Aprile e delle mie vicende politico-giudiziarie, se me lo permettete, voglio ricordare almeno altri due dati: il numero dei processi subiti da un imputato come me, quattro, in tre sedi giudiziarie diverse. Quasi tutti per gli stessi titoli di reato e scaturiti dalla sovradeterminazione di alcuni giudici “piccisti” a voler colpire l’Autonomia in generale e Rosso in particolare come formazioni sovversive ad altissimo grado di pericolosità politica, pari o superiore per certi versi, soprattutto per capacità diffusiva, a quella delle stesse BR. E il fatto che la carcerazione preventiva da me subita sia stata di due anni e mezzo superiore alla pena finale che mi è stata inflitta. Voglio inoltre ricordare che molti, troppi compagni di carcere e di “gabbia” non ci sono più, scomparsi troppo giovani e non voglio nemmeno pensare o dire perché: Francone, Luciano, Emilio, Augusto, Mario, Silvana, Egidio, Toni L, Gianmaria, per citarne solo alcuni. Il mio ricordo nei confronti di tutti loro non è mai venuto meno. E voglio infine rivolgere un grato, affettuoso, reverente pensiero nei confronti di Marco Pannella, che ci fu vicino, solo tra tutti i politici italiani, dal primo momento, senza se e senza ma.