approfondimenti
ITALIA
Disurbanizzare le nostre vite. Esperienze di cooperazione territoriale
La fusione tra città e campagna non solo è possibile, ma addirittura necessaria, oltre a essere un anelito profondissimo di chi vive agonizzando il contesto urbano e di chi interpreta come solitudine quello rurale. Una testimonianza dalla Terra dei Fuochi
Parlare di “terra” vuol dire più comunemente discutere di un ideale luogo del vivere (urbano o rurale) e non di un reale modello spirituale, politico, produttivo ed ecologico o di una concreta possibilità occupazionale. Il vero e proprio genocidio culturale perpetrato a danno dei contadini, una strage che ha eradicato dalla memoria e dalla pratica un’intera civiltà, ha reso le campagne periferie non solo geografiche, ma soprattutto mentali, eclissando quella dimensione che Pasolini definiva paleocontadina e con la quale è svanita di certo l’estrema durezza del vivere che le era connaturata, ma anche un paradigma di resilienza e di comunità.
La narrazione (e la realtà) della pandemia di Covid-19, il disastro dei cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali di ogni latitudine ci mostrano, come in una vetrofania, che abbiamo sbagliato tutto: il pianeta, le persone, hanno bisogno di una vita radicalmente diversa che non può esaurirsi negli spazi cubicolari delle metropoli, nel grigiore del travettismo spirituale o nell’idea di una natura altra e selvaggia l’accesso alla quale è appannaggio dei parchi o, peggio, degli zoo. Sono ormai decenni che numerose esperienze europee e d’oltreoceano ci raccontano di un’aspirazione differente, di un costante tentativo di volo verso forme del vivere più leggere e ricche. L’introduzione di usi agricoli nei contesti urbani come gli orti, il superamento della dicotomia tra città e campagna attraverso le transition town, pratiche come ecobox e re-urban ci parlano di centinaia di cittadini impegnati e condensati intorno all’agroecologia, l’apicoltura, il compostaggio di quartiere.
Non sono soltanto improvvise polmoniti della modernità, non sono semplici fenomeni di ipossia da metropoli, ma una costante voglia di partecipazione reale nel bel mezzo della crisi più drammatica della “democrazia” rappresentativa e una voglia di “campagna” ormai ineludibile.
La fusione tra città e campagna non solo è possibile, ma addirittura necessaria, oltre a essere un anelito profondissimo di chi vive agonizzando il contesto urbano e di chi interpreta come solitudine quello rurale. Alla luce del coronavirus e dell’innaturale quanto ineluttabile caldo estivo – entrambi figli dell’antropocene – potremmo aggiungere che solo così sarà possibile imprimere l’indispensabile svolta in tema di emissioni climalteranti e perfino favorire l’accesso a condizioni migliori di vivibilità in periodi di contagi e quarantene. La fine della dicotomia tra città e campagna, teorizzata da Engels già alla fine del 1800, è rimasta per lo più uno slogan. Nonostante il sogno degli architetti disurbanisti russi che teorizzavano la dispersione (dedensificazione) dell’habitat, della distribuzione dell’energia, della decentralizzazione della politica e nonostante la terribile evidenza dei ghetti di stato nei quartieri malfamati o delle periferie deruralizzate in cui si producono fenomeni come quello della Terra dei Fuochi, siamo rimasti dentro l’incubo del capitalismo senza mettere in discussione nulla della città classica. La cancellazione pianificata a tavolino dei contadini ha completato il processo di urbanizzazione delle menti che, però, deve e può essere invertito con proposte politiche serie e attuabili sul piano nazionale/locale.
Il governo del territorio deve passare attraverso scelte molto chiare sul modello agricolo da realizzare. L’agroecologia offre, a ogni livello di scala, un esempio di sviluppo che si basa sulla sovranità alimentare, sulla partecipazione dal basso ai processi decisionali e su metodologie resilienti.
I nostri comuni avrebbero mille modi per sostenere questo modello mettendo al centro dell’amministrazione ordinaria le aree agricole periurbane e marginali, in un’ottica di rivalutazione non solo dell’agricoltura locale, ma anche di miglioramento della qualità di vita nell’urbs strettamente intesa: l’elevata domanda di beni alimentari sani e naturali, di servizi ricreativi, di ristorazione e ospitalità rurale e – come ci ha duramente insegnato la Covid- 19 – di attività didattiche in spazi a misura di bimbo, impongono che ci si occupi di accrescere le relazioni tra contadini e tra contadini e cittadini, di stimolarne la partecipazione dal basso, di rendere accessibili le terre incolte ricadenti nelle proprietà comunali, di organizzare momenti formativi utili alla transizione ecologica e sportelli informativi indispensabili a orientarsi nella giungla tecnico/normativa. La Consulta Agricola Comunale, ad esempio, potrebbe essere lo strumento amministrativo attraverso il quale contadini, associazioni, cooperative e cittadini esprimono la loro opinione ed essere protagonisti della loro storia. Uno “sportello agricoltura” potrebbe fornire informazioni sulla finanza ordinaria, sulle attività dell’amministrazione locale e regionale, sui mercati locali e sulle scuole contadine.
In Terra dei Fuochi, cioè proprio dove le campagne sono il fulcro di una devastazione senza precedenti, le politiche per il governo del territorio non hanno assunto ancora questa visione. Risultano episodiche e malmesse le esperienze di pianificazione dei sistemi ambientali del territorio agricolo e forestale finalizzate a riqualificare colture, a salvaguardare ed estendere aree produttive di pregio, a tutelare gli assetti idrogeologici, a riqualificare naturalisticamente i bacini fluviali, ad aumentare la fertilità dei suoli, a regolamentare i microclimi, a valorizzare il paesaggio storico, a sviluppare economie locali attraverso la trasformazione dei prodotti tipici, l’artigianato, l’agriturismo.
Solo un vago appellarsi a tradizioni da non dimenticare e un continuo voltare le spalle a soluzioni che metterebbero in un angolo la pessima politica di queste zone e al centro un futuro migliore.
A disegnare il filo tra città e campagna sono rimaste, perciò, le iniziative dal basso. Che sono tante. E convincenti. La facoltà di architettura della Federico II di Napoli, corso di Urban Planning, lavora a una mappatura degli orti sociali, delle aziende gestite da cooperative sociali e di quelle private caratterizzate da un’etica ambientale il cui approccio di comunità è il seme necessario alla disurbanizzazione delle nostre menti. Tra queste L’Orto Conviviale, alla periferia di un grande centro urbano alle falde del Somma-Vesuvio, tenta di colmare il vuoto culturale praticato tra contadini e cittadini anche attraverso pratiche di tipo spaziale: una casa aperta a tutti, al centro di un giardino, mette a disposizione di una comunità intera gli spazi di famiglia, la frescura dell’erba il cui conforto è sempre meno conosciuto, la possibilità di respirare in libertà e un patrimonio culturale che, ancora in tanti, si ostinano a coltivare reinterpretando quegli spazi incompiuti, indecisi, che non posseggono una funzione, ma che sono ambiti di opportunità per l’accoglienza della diversità respinta dagli spazi funzionali attivi possessori di una propria identità.
Un esperimento di successo sul piano della sostenibilità economico-ambientale e di trasformazione di un territorio come quello campano che soprattutto in ambito urbano produce “avanzi” corrispondenti ad aree in attesa di modificazione, sospese tra ciò che sono state e ciò che diverranno, una sorta di limbo durante il quale, di frequente, avvengono processi spontanei di rinaturalizzazione. L’agricoltura, considerata settore residuale dalle politiche economiche dominanti, deve dunque tornare a essere il centro di un’ampia rete di attività articolate attraverso la connessione di produzioni, servizi e opportunità.
Diviene quindi necessario non solo innovare in senso ecologico il ciclo produttivo agricolo, ma diviene allo stesso tempo indispensabile che la progettazione e la pianificazione del territorio agricolo e forestale si trasformino in strumenti fondamentali per lo sviluppo sostenibile.
Lo spazio astratto dell’economia si materializza, infatti, attraverso la sepoltura della complessità territoriale e ambientale. Il luogo scompare e con esso l’articolazione integrata dell’ambiente fisico, costruito, abitato; scompaiono le identità locali, i valori stratificati nel tempo e reinterpretabili nella fase di transizione dall’economia moderna a una sostenibile; il suolo viene considerato come semplice supporto della costruzione mentre il piano e il progetto si sottraggono al confronto con le questioni poste dalla necessità di una transizione ecologica. Le aree residuali, “gli avanzi“, acquistano un valore rilevante per la sperimentazione di proposte trasformative in ogni direzione: la questione di fondo è utilizzare questi luoghi per il necessario passaggio a un’economia non più dipendente dall’energia fossile con modelli insediati funzionalmente e morfologicamente nuovi. L’esigenza di ridurre le emissioni di gas serra è l’occasione per queste aree di promuovere ricadute positive per l’intero sistema urbano attraverso la realizzazione di reti pedonali e ciclabili, implementazione della dotazione di verde, conservazione del patrimonio naturale, risparmio energetico, riqualificazione, mixité funzionale e sociale, riduzione del consumo di suolo, densificazione, dove possibile, e connettività.
Oggi serve molta innovazione nell’affrontare le questioni territoriali.
Abbiamo bisogno di mettere a punto una strategia di lunga durata che faccia della cooperazione tra aree contigue il punto di forza per ispirare, indirizzare e consolidare una nuova governance, efficace e resistente, dando vita a una nuova centralità diffusa con la potenzialità di essere insieme individuale e comunitaria. Individuale nella connessione all’innovazione gestionale e alla produzione cooperativa e comunitaria nella consapevole condivisione di risorse locali e di senso comune.
Questo presuppone la capacità di riscoprire la comunità locale e il territorio, di prestare attenzione e riconoscerne le risorse e di integrarle in un profilo preciso agendo collettivamente.
In breve, presuppone la capacità di avere una visione concreta che preveda anche maggiore investimento in ricerca, in formazione ed educazione all’uso delle risorse. Significa fare città più resistenti nelle quali il consumo non si manifesti in montagne di rifiuti nei territori contigui e una cultura che non guardi a un prato come un tappeto sotto il quale seppellire rifiuti tossici. Significa creare territori consapevoli che cooperano, nei quali riuso, riciclo e infine smaltimento in piena sicurezza possano trovare forma chiare e condivise.
Per cambiare direzione è necessario mettere in campo azioni alle diverse scale che allo stesso tempo coinvolgano tutti. Non è solo “economia circolare”, è molto di più: è ripensare la dimensione economica della nostra esistenza creando spazi adatti a una vita piena e soddisfacente.
L’unica alla quale dovremmo ambire.
Miriam Corongiu è contadina e attivista ecologista
Riccardo Festa è architetto territorialista
Foto di copertina di Diego Delso da commons.wikimedia