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Asja Lācis, la miccia e il gioco

“L’agitatrice rossa. Teatro, femminismo, arte e rivoluzione” di Asja Lācis ripropone l’antologia di scritti autobiografici e di teoria scenica della scrittrice, regista teatrale, cineasta, attrice, pedagogista e femminista lettone pubblicata da Feltrinelli nel 1976 con il titolo Professione rivoluzionaria. Presentazione al festival L/ivre presso Esc Atelier venerdì 17 alle ore 18

L’agitatrice rossa. Teatro, femminismo, arte e rivoluzione di Asja Lācis inaugura GeoArchivi, la nuova collana di Meltemi «volta a produrre una decentralizzazione degli studi artistici dall’estetica, in favore delle loro multiple implicazioni con il genere, la politica, le culture e le tecniche», come scrive Marco Scotini nella prefazione. Lungo questa linea, il primo volume intende ridare visibilità alla figura di Asja Lācis, intellettuale e attivista rivoluzionaria, che dedicò l’intera vita a tessere un intricatissimo groviglio di relazioni, affetti, vicende artistiche e politiche, coagulatosi intorno alla febbrile scena delle avanguardie novecentesche operanti tra Germania, Unione Sovietica e Lettonia.

L’agitatrice rossa ripropone l’antologia di scritti autobiografici e di teoria scenica della scrittrice, regista teatrale, cineasta, attrice, pedagogista e femminista lettone pubblicata da Feltrinelli nel 1976 con il titolo Professione rivoluzionaria e introdotta dal saggio di Eugenia Casini-Ropa, che l’edizione attuale riprende insieme ad alcuni testi inediti tradotti dal curatore Andris Brinkmanis, per il quale il lavoro di Lācis rappresenta un’ineludibile soglia per decostruire la narrazione ufficiale ed egemonica della cultura modernista. «Riaprire gli archivi ribelli del passato a differenti latitudini geopolitiche», per seguire di nuovo la prefazione di Scotini, contribuisce infatti al processo di decolonizzazione della storia.

Uno dei grovigli principali intessuti da Lācis è l’amicizia affettuosa che ha stretto con Walter Benjamin, legame emblematico delle due prospettive che segneranno, in modo ambivalente e contraddittorio, la lunga storia della militanza comunista del ’900: quella legata all’ortodossia con le sue derive burocratico-stataliste e quella eretica pervasa dall’afflato libertario delle avanguardie intellettuali. La relazione tra Lācis e Benjamin segnerà, in maniera a volte anche conflittuale, tutte le tappe fondamentali dell’evoluzione umana e politica di entramb*.

Il loro incontro fatale si realizza nel milieu della Capri revolution – mirabilmente ritratta da Mario Martone –, che in quegli anni costituiva un’autentica eterotopia in cui forme di vita alternative si incrociavano con quelle omologate e stantie dell’Europa borghese e con singolari percorsi rivoluzionari in aperto contrasto con la stagnazione oppressiva del regime sovietico. In questa atmosfera, rarefatta e incandescente, Lācis e Benjiamin scrivono Napoli, articolo pubblicato il 9 agosto 1925 sulla “Frankfurter Zeitung“.

Napoli è costruito seguendo una tecnica di scrittura incentrata su una serie di Denkbilder (immagini-pensiero), in seguito utilizzata da Benjamin e da diversi altri esponenti della scuola di Francoforte. Le immagini-pensiero di Napoli, sviluppate a partire dai concetti performativi di porosità e costellazione, restituiscono efficacemente le riflessioni dei due sulla disperata teatralità antropologica partenopea. Nella “scena” vivente della città italiana, Lācis e Benjamin intravvedono il triste dramma di un popolo che reagisce contro una realtà subita e disprezzata con un misto di fatalità stoica e imperturbabilità epicurea – un sentimento tradotto in una serie di rituali, allegorie e simboli, che esprimono il sacro fuoco esistenziale che anima i vicoli, gli anfratti, le case dirupate, le chiese nascoste di un territorio sospeso fra il cielo e il mare.

Questa porosità umana e architettonica rappresenta per Lācis – che in qualche modo preannuncia quella che sarà la prospettiva di De Martino – una sorta di ribalta naturale in cui una costellazione fatta di feste, santi, processioni, martiri e leggende gioca un ruolo al contempo storico e trans-storico, istituzionale ed eversivo.

«L’architettura è porosa come questa roccia. Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre in cortili, arcate, scalinate. A tutto si lascia spazio per divenire teatro di nuove costellazioni mai viste prima. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone: “Così e non altrimenti”. Così nasce l’architettura, questo esempio molto vincolante di ritmica della comunità» (p. 131).

Cosa è il teatro se non il popolo e cosa è lo spazio scenico se non gli edifici con i loro balconi, le scale, le finestre e i tetti?, sembra domandarci l’intellettuale lettone. «Ciò che accade sulle scale è un’alta scuola di regia» (p. 132). Le decorazioni delle strade, le madonne disegnate sul selciato destinate a scomparire nel volgere di un giorno, gli animali domestici che si trasformano in animali fantastici…sono illuminazioni: «Un granello di domenica è nascosto in ogni giorno della settimana» (p. 133).

La relazione con Benjamin, più di altre, mostra come la vita dell’agitatrice rossa sia consistita in una vera e propria deriva psicogeografica. I continui spostamenti, decisi in prima persona o imposti dalle condizioni di salute, dal regime lettone e da quello sovietico, segnano una storia non ufficiale che, come l’angelo di Benjamin, procede verso un futuro inquietante, volgendo lo sguardo all’indietro sulle macerie di un passato che ancora ci possiede.

Lācis in questo sembra incarnare l’idea stessa di un liminare spazio politico rivoluzionario che trova le sue fondamenta nella costruzione di affinità elettive. È lei, infatti, a far dialogare due personalità antipodaliche come Benjamin e Brecht, è lei a promuovere in Germania, con il beneplacito critico di Kracauer, l’attrazione di Ėjzenštejn e il cine-occhio di Vertov ed è sempre lei a introdurre al pubblico sovietico il teatro proletario tedesco di Piscator e Brecht. Lācis, insomma, è una strada a senso unico, che conduce dritta al cuore pulsante di una storia culturale che ancora ci interpella, una storia che avrebbe potuto essere e non è stata.

La rivoluzionaria affinità elettiva tra Lācis e Benjamin è testimoniata anche dalla comune visione sul ruolo della scuola primaria e della pedagogia borghese nella manipolazione oppressiva della psiche infantile.

Le/i bambin* rappresentano tutto ciò che non è ancora addomesticato dalle norme del capitale. Le osservazioni sull’infanzia sviluppate da Lācis nel corso del biennio 1918-19, grazie alla conduzione della scuola teatrale per bambini nel villaggio russo di Orël, saranno il viatico del Programma per un teatro proletario di bambini di Benjamin

L’enorme numero di besprisorniki, le/i bambin* abbandonat*, nella Russia di inizio ’900, fu l’oscenità che permise all’attivista lettone di immaginare un teatro politico in cui mettere in scacco la prassi drammaturgica borghese al fine di promuovere un processo di estetica pedagogica non autoritaria e in grado di favorire lo sviluppo di una coscienza critica e la riattivazione delle energie espressive non ancorabloccate dalle posture conformanti imposte dalle élite dominanti. Per Lācis i besprisorniki rappresentano la vera comunità, in cui sperimentare il lavoro collettivo e l’autonomia creativa.

«Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di teppisti, vittime della guerra mondiale e di quella civile. Il governo sovietico si adoperava per sistemare i bambini sbandati in collegi e officine, ma riuscivano sempre a scappare» (p. 67). In questa situazione critica, l’agitatrice rossa avverte una potente carica sovversiva. La violenta vitalità dei besprisorniki rappresenta, infatti,un’infrazione perenne alle regole del patto sociale vigente, che finirà per qualificare il suo teatro proletario come improvvisazione diametralmente opposta alla teleologia capitalista.

Il gioco teatrale allestito da Lācis per i besprisorniki libera le facoltà traumatizzate da una quotidianità scandita dal bisogno di sopravvivere e si impegna a sviluppare facoltà artistiche e morali, facendo tesoro della scarsa capacità de* bambin* abbandonat* di adattarsi alle regole della convivenza borghese, restituendo loro «la gioia del produrre giocando» (p. 69): «La rappresentazione pubblica si trasformò in una festa. I bambini del nostro studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al teatro all’aperto della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere, gli accessori e le scene. A loro si unirono spettatori piccoli e grandi» (p. 71).

Per Lācis e Benjamin il teatro proletario dei bambini è un territorio reale in cui ci si educa reciprocamente. In questo senso il gesto teatrale è palingenetico e rivoluzionario così come il primo gesto dei bolscevichi: quello di innalzare la bandiera rossa.

Il teatro proletario non ha nulla a che vedere con la “morale” contenutistica degli sfavillanti teatri borghesi e, semmai volessimo trovare delle corrispondenze, bisognerebbe cercarle nelle analisi di Simondona proposito di quello che chiama ambiente associato, ambiente in cui sono gli oggetti tecnici – la bandiera rossa, un costume, un accessorio scenografico, una voce, un movimento – a conferire senso alla rappresentazione. È dunque nella creazione di circostanze – come fu per Deligny l’esperimento di cinema pedagogico portato avanti con i suoi ospiti autistici –, che il gesto infantile si trasforma in segnale, non tanto di una presunta latenza inconscia, irrisolta e rimossa, quanto piuttosto della possibilità di agire nell’ambiente in cui il bambino vive la sua agency. Con le parole di Benjamin: «Non alla “eternità” dei prodotti, bensì all’“attimo” del gesto è destinata ogni prestazione infantile. Il teatro come forma fugace: è questa la forma infantile» (p. 77).

L’idea di teatro proletario attraversa l’intero percorso intellettuale e militante di Lācis. Come scrive in Teatro rivoluzionario in Germania, la situazione politica prima della presa del potere da parte del nazionalsocialismo era, a dir poco, confusa. Se la Berlino del 1924 dove l’agitatrice rossa si trasferisce per sfuggire alle rappresaglie del regime “bianco” lettone era una metropoli elettrizzante al pari di New York e di Parigi, le avvisaglie della crisi economica cominciavano a minacciarne le sorti. Il ridimensionamento politico e militare della Germania postbellica permise al potere borghese di varare drastiche misure di austerità economica con licenziamenti di massa e congelamento dello stato sociale, causando enormi sacche di disoccupazione e, conseguentemente, alimentando un’esasperata conflittualità sociale.

In questo clima maturò il teatro politico che autori e registi, quali Brecht, Piscator e Wolf, per citare solo i nomi più noti, canonizzeranno come agit-prop o teatro proletario, un teatro concepito per valorizzare la formazione di una collettività in cui la lotta di classe giochi un ruolo decisivo. I motivi e i temi inscenati – per esempio, episodi di cronaca nera in cui la marginalità sociale del proletariato operaio subisce la repressione delle classi privilegiate – servivano ad alimentare il dibattito politico.

Gli “spettacoli”, a differenza del teatro mimetico borghese, erano strutturati come un montaggio delle attrazioni – il debito di Piscator e, più in generale, del teatro rivoluzionario tedesco nei confronti del formalismo russo e del cinema sperimentale di Ėjzenštejn e di Vertov è enorme –, in cui stralci di teoria rivoluzionaria marxista, manifesti propagandistici, volantini controinformativi, articoli di cronaca e fotografie venivano esibiti, insieme a immagini documentaristiche sulle conseguenze della guerra voluta dalla borghesia, in scarni palcoscenici privi di scenografia.

Il teatro antinaturalista di Lācis si struttura pertanto attorno a una rete di relazioni e attorno a tre schemi di tensione: epoca, teatro e repertorio, facendo irrompere l’Ottobre teatrale moscovita del 1918-19 nell’attività rivoluzionaria successiva nella stessa maniera in cui il teatro irrompeva nelle strade e le strade nel teatro.

Ecco quindi che la regista lettone prende contatto con l’Armata Rossa e con i lavoratori delle fabbriche per organizzare circoli di teatro proletario in cui vengono enfatizzate soluzioni registiche quali l’abolizione della ribalta, il macchinismo come efficace tecnica espressiva e il confronto diretto con gli spettatori in dibattiti assembleari al termine dello spettacolo.

Non a caso, allora, l’invisibilizzazione di Lācis si sospende per un attimo negli anni ’60, grazie alla nuova generazione di autori e registi della scena teatrale tedesca, fra i quali spicca il drammaturgo Heiner Müller, il quale ne eredita lo spirito iconoclasta e anticonvenzionale. Le teorie di Lācis diventano in tal modo fonte di ispirazione politica, non sempre pienamente riconosciuta, per gran parte dei movimenti di liberazione, nelle cui rappresentazioni la regia e l’opera diventano pre-testi per agire la lotta di classe rivoluzionaria; in altre parole, per produrre situazioni con cui giocare il gioco e divenire bambini-adulti o adulti-bambini. Per cercare e trovare il senso di un evento in un movimento, in un gesto, in un grido, in un sorriso. Per cercare e trovare nel teatro il senso della liberazione, che attraversa La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire e Il teatro degli oppressi di Augusto Boal.

Asja Lacis, arrestata nel 1938 dal KGB con l’accusa di tradimento e internata in un campo di lavoro in Kazakistan per 10 anni, muore in Lettonia nel 1979. Si potrebbe continuare a lungo a seguire le tracce lasciate dall’agitatrice rossa prima e dopo la sua morte. Ma niente può restituire meglio la sua figura esplosiva delle parole con cui la descrive Benjamin in Strada a senso unico o, come recita la dedica, «VIA ASJA LĀCIS»: «Lei poteva appunto uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo esser io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni».

Immagine di copertina dalla copertina del libro