«We shall be all»

L’urgenza della coalizione nell’Europa della crisi

Con questo articolo e consigliando la lettura dell’articolo di Sergio Bologna e dell’articolo sulle Maree spagnole, uscito su Madrilonia, apriamo su DINAMO un dibattito e un campo di ricerca sulla crisi del sindacato e sull’urgenza di nuove forme di organizzazione, di conflitto e di tutele per quello che fin qui abbiamo chiamato “precariato”. La crisi finanziaria, la ristrutturazione capitalista e la distruzione del welfare impongono un salto di ragionamento e di capacità organizzativa, che sappia andare oltre le importanti, ma insufficienti, forme di conflitto della forza-lavoro (o intelligenza-lavoro) postfordista. Un nodo discusso da tempo, ma che oggi ci pone nuovi interrogativi, campi di inchiesta e lotte da costruire. È possibile immaginare forme post-sindacali all’altezza delle sfide del presente?

Quando si ha la fortuna di incontrare una lotta di precari, quasi sempre o molto spesso, si imparano le seguenti verità: il sindacato che c’è non basta, anzi, a volte fa proprio schifo e protegge il lavoro dipendente contro i precari; dopo che si è fatto un po’ di rumore, ci si affida, per come si può, al sindacato che c’è, non fosse altro perché è l’unico che c’è. Le differenze tra sindacati confederali e sindacalismo di base sono significative, intendiamoci. Differenze politiche che spesso, ma non sempre, qualificano un diverso rapporto con le figure del lavoro precario. Una cosa è certa, però, nessun sindacato tra quelli esistenti è riuscito a fare del precariato e del lavoro autonomo di nuova generazione il centro strategico e il motore della propria iniziativa mutualistica e conflittuale. I precari, che non sono scemi, questo lo hanno capito, dal sindacato stanno alla larga e lo usano come possono quando non possono fare altro.

Due affermazioni contraddittorie dunque che però convivono nella scena, assai frammentata ma non per questo inesistente, delle lotte degli “intermittenti”. Con frequenza, negli ultimi anni, ci si è convinti che questo sia il destino degli sfruttati contemporanei di cui, semmai, vale la pena valorizzare il piglio pragmatico con cui usano la tessera sindacale all’occorrenza e sfuggono dalle organizzazioni tradizionali, soprattutto da quelle politiche of course. Altrettanto, ci si è rassegnati di fronte alle difficoltà, in alcuni momenti veri e propri blocchi, che l’agitazione tra i lavoratori di nuova natura, sempre in transito e privi di certezze, ha riscontrato. Nei movimenti autonomi questa rassegnazione ha spesso prevalso, per quanto persistenti siano stati i tentativi di mettere in comunicazione l’universo giovanile e precario, in larga parte studentesco, con i sindacati conflittuali.

L’ipotesi che proverò a sviluppare nelle pagine che seguono è che, nella crisi economica globale, che è anche crisi della forma-sindacato oltre che della rappresentanza politica, ciò che per molto tempo è stato considerato impossibile, l’organizzazione della forza-lavoro precaria e qualificata, è diventata urgenza inaggirabile. Ancora, solo abitando la tensione di cui sopra, quella definita dalla doppia affermazione «il sindacato che c’è fa schifo» e «mi affido, seppur strumentalmente, al sindacato che c’è», è possibile cominciare a costruire nuovi prototipi, dispositivi sindacali o post-sindacali capaci di riempire il vuoto, di ricostruire la forza che manca. Prima di arrivare al punto, quali istituzioni per il lavoro precario e indipendente (3), proverò a descrivere brevemente due scenari: rileggendo alcuni passi marxiani, le caratteristiche salienti della crisi in Europa e l’emersione in primo piano di una povertà di “secondo grado” (1); i movimenti autonomi in Italia e i conflitti sul lavoro, dalle tute bianche a Uniti contro la crisi (2).

1. Europa anno zero o la nuova accumulazione originaria
Facciamo a meno di credere alle favole socialdemocratiche e cerchiamo di afferrare le cose che contano: l’Europa della crisi è travolta da una aggressiva iniziativa padronale che, con termini marxiani, possiamo definire come una vera e propria rinnovata «accumulazione originaria». Il riferimento a Marx non è superficiale. Nel capitolo XXIV del I Libro del Capitale Marx indaga, con potenza senza pari, il processo storico nel quale si affermano la proprietà e dunque l’accumulazione capitalistici. Pagine fondamentali che ci fanno cogliere quanto per il rivoluzionario di Treviri il capitale non sia altro che un rapporto, esito dell’«incontro», direbbero Deleuze-Guattari, tra flussi di denaro e i lavoratori liberi. La disponibilità di enormi masse di denaro e, nello stesso tempo, la costituzione di un vero e proprio mercato di lavoratori liberi, ovvero soggetti sciolti dai vincoli feudali e portatori di una merce peculiare, la forza-lavoro, sono fenomeni resi possibili da una combinazione singolare di cause: tra queste, un ruolo speciale spetta all’indebitamento degli Stati e alla nascita delle grandi banche (con esse, della rendita finanziaria) e alle enclosures, recinzioni o privatizzazioni delle terre demaniale che, favorite da «legislazioni sanguinarie», privano i contadini dei loro mezzi di produzione o «corpo inorganico» (terra + strumenti) e li spingono via dalle campagne verso le grandi concentrazioni urbane. Liberi perché poveri o spossessati, poveri perché liberi: all’origine della libertà borghese troviamo il pauper. Il lavoratore libero, che Marx definisce anche «lavoro vivo», in contrapposizione al lavoro morto (denaro + macchinari), non ha nulla a che fare con l’indigenza, anzi, pur essendo oggettiva povertà, dal punto di vista soggettivo è fonte di ogni ricchezza possibile.

Fin qui Marx e l’origine, tra la fine del XVI e il XVIII secolo, del capitalismo, ora veniamo all’Europa, continente in declino immerso nella «Seconda grande Contrazione». La funzione di “sfondamento” che sta svolgendo il debito pubblico dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) credo non sfugga a nessuno. Attraverso la leva del debito, i mercati finanziari e le grandi holding bancarie stanno imponendo, ai paesi del Sud, le cosiddette «riforme strutturali»: de-finanziamento, dismissione e/o privatizzazione delle grandi istituzioni del Welfare State (previdenza, istruzione, sanità); svendita del patrimonio ambientale e di quello immobiliare e, più in particolare, delle public utilities (dall’energia alle telecomunicazioni, dalle autostrade ai porti).

Cosa accade, invece, sul terreno del lavoro? Le ultime rilevazioni Eurostat (dicembre 2012) non hanno bisogno di particolari commenti: nell’Eurozona la disoccupazione ha raggiunto l’11,7%, ma il tasso reale, tenendo conto gli inattivi disponibili a lavorare, supera il 20%; in Grecia e in Spagna, nell’ultimo anno, la disoccupazione è salita rispettivamente dal 19,7% al 26,8% e dal 23,2% al 26,1%; la disoccupazione giovanile (under 25), e questo è il dato che più ci interessa, in Italia ha superato il 37%, in Spagna il 55%, in Grecia il 57%. Non ci vuole il World Economic Forum di Davos per capire che si profila un decennio o forse più di povertà e che quest’ultima colpirà in modo violentissimo le giovani generazioni.

Nel mondo globalizzato in cui viviamo, il mondo, per lo meno in Occidente (ma è evidente che ormai si tratta di un perimetro fin troppo ristretto), qualificato dal trionfo del consumismo e dal capitalismo «informazionale» o «cognitivo», capire cos’è la povertà di cui parla Marx, una povertà che non è indigenza, ma espropriazione delle condizioni e degli strumenti di produzione e, più in generale, di riproduzione della vita, non è sempre cosa facile. Soprattutto perché lo strumento, molto spesso, nelle filiere produttive ad alto contenuto tecnologico e nell’economia dei servizi (dai servizi alle imprese, ai servizi pubblici, ai servizi di cura alle persone), non è più separato dal soggetto che lavora. La produzione contemporanea è sempre più produzione a mezzo di linguaggio e di relazioni, processo di cooperazione che eccede le mura anguste della fabbrica e che si estende al territorio e ai nessi etici e affettivi che qualificano il tessuto sociale.

Ciò che affermo, invece, proprio sulla scorta delle difficoltà ma soprattutto dei numeri segnalati, è che la gestione capitalistica e neoliberale della crisi, in particolar modo in Europa, sta tentando di produrre, e in parte ci è già riuscita, una rinnovata povertà. Una povertà di “secondo grado”, per distinguerla da quella rilevata da Marx nell’Inghilterra del ‘500 e del ‘600. Una povertà, cioè, qualificata non più dalla separazione del lavoratore dai suoi mezzi produttivi, operazione impraticabile (come separare un corpo dal cervello o dai suoi affetti? come recintare per intero la rete informatica?), ma dalla violenta umiliazione salariale e, nello stesso tempo, morale delle giovani generazioni, dalla disoccupazione di massa, dalla vera e propria messa al bando dal mercato del lavoro che investe quei giovani cresciuti lungo l’agonia del modello sociale fordista-keynesiano e largamente più formati delle generazioni precedenti.

2. Breve storia di una rimozione
Tra la fine del 1997 e i primi mesi del 1998, sulla scorta delle lotte dei disoccupati francesi, in Italia nascono le Tute bianche. Roma è il primo laboratorio, centri sociali e reti studentesche i soggetti che definiscono la miscela. La tuta bianca come strumento comunicativo: i precari sono invisibili (il bianco) perché privi di diritti, estranei alle garanzie del lavoro dipendente, in una parola, esclusi dalla società salariale. Le azioni dirette, esemplari e ripetibili, come forma e sostanza del conflitto. Si entra nei cinema e nei teatri senza pagare, si reclama mobilità urbana gratuita, si occupano case e uffici di collocamento. La pretesa è netta: reddito garantito contro la precarietà, nuovo welfare per un mondo del lavoro dove poiesi e prassi, produzione e riproduzione, tempo di lavoro e tempo di vita coincidono.

Il claim del reddito garantito continuerà ad attraversare il dibattito dei movimenti autonomi, ma con Seattle le Tute bianche cambiano strada. Una deviazione obbligata, e anche giusta, il movimento alterglobalista conquista la scena e la pratica del conflitto si sposta: attraverso la disobbedienza civile, agita con gli scudi e i caschi a difesa dei corpi inermi ma determinati, si sfidano i divieti e le zone rosse della Costituente imperiale, quella della istituzioni transnazionali (WTO, FMI, G8) che, con la globalizzazione neoliberale, spazzano via il mondo del «trentennio glorioso». Dalla rivendicazione sociale alla costruzione di spazio politico, dalla centralità politica del lavoro precario alla generalizzazione delle pratiche di democrazia (radicale), uno shift che racconta la storia genovese e gli anni a seguire. Mai intuizione, quella della disobbedienza civile e degli scudi di plexiglass, fu più feconda (basti pensare ai contemporanei libri-scudo – book bloc ‒ utilizzati dal movimento studentesco in mezzo mondo), per alcuni versi miracolosa. Il conflitto di piazza, estromesso dalla grammatica dei movimenti con l’epilogo nefasto dei Settanta, torna in gioco carico di innovazione e potenza inclusiva.

Altrettanto, nell’onda lunga genovese la questione sociale fatica a riconquistare il centro del discorso politico e dell’impegno militante, se non grazie alla straordinaria, ma insufficiente, MayDay milanese. Prevale molto spesso, e con sguardo retrospettivo non si può fare a meno di segnalarlo, una sommessa rassegnazione, i giri a vuoto surclassano i tentativi riusciti, il precariato è o sembra figura dello sfruttamento inafferrabile all’organizzazione antagonista. Troppo frammentato, ricattabile sul posto di lavoro; quando si tratta di lavoro autonomo di nuova generazione, poi, a farla da padrone sono competizione e individualismo, terreno poco fertile per coltivare esperimenti sindacali oltre i sindacati esistenti. La critica giusta alla forma-sindacato, infine, muove verso conclusioni affrettate: i precari si organizzano esclusivamente lontano dal posto di lavoro, solo i conflitti urbani, siano essi per l’autogestione o per il diritto all’abitare, sono capaci di ricomporre i frammenti deboli e litigiosi di una forza-lavoro ricca di competenze ma leggera di portafoglio.

Con il 2005, in Italia e poi in tutta Europa, arriva un vento nuovo. L’attacco neoliberale investe le università e le scuole, precarizzando studenti e ricercatori. E le reazioni non mancano. Per il movimento studentesco italiano si apre, con l’autunno del 2005, un ciclo tumultuario fortunatamente ancora vivace: dall’esplosione dell’Onda (2008) all’autunno rabbioso del 2010 (quello del 14 dicembre, per intenderci), fino al protagonismo degli studenti medi, soprattutto di periferia e degli istituti tecnici, nell’autunno appena trascorso. Il fenomeno, però, ed è questa la cosa che conta, non è solo italiano, ma europeo e mondiale: dalla Francia del movimento anti-Cpe alla Grecia, dal Regno Unito al Canada, dal Cile agli States, una nuova generazione, «usa e getta» e senza futuro, irrompe nella scena sociale e politica, rimette al centro del discorso le condizioni di vita e di lavoro, chiarisce in modo conflittuale la combinazione inedita tra formazione/saperi e produzione.

Solo negli ultimi due anni, con riferimento all’esperienza di Uniti contro la crisi o a Blockupy Frankfurt, oltre oceano il robusto general strike di Oakland, i movimenti studenteschi e giovanili sono stati capaci di connettersi con i sindacati conflittuali (dalla FIOM a Ver.di). Un incontro importante, in alcuni casi inedito nella sua forza (da Oakland al 14N europeo), un debutto più che un traguardo raggiunto. Il comune conquistato nel conflitto, infatti, fatica a trasformarsi, oltre gli eventi, in comune dispositivo organizzativo. Nel giro di poco tempo, dalla coalizione tra le nuove figure dello sfruttamento si retrocede all’alleanza tra soggettività organizzate. Come evitare questa regressione? Come far sì che, parafrasando Luxemburg, fulmini e lampi si trasformino in vere e proprie «zone temporalesche», turbolenze in grado di durare fatte di scioperi metropolitani e continentali dove gli “inorganizzabili” conquistano il centro della scena, trasformando radicalmente le soggettività organizzate, siano esse sindacati o strutture politiche di movimento?

Nella crisi economica globale, che in Europa ha assunto caratteri catastrofici, il rimosso è tornato in superficie, la lotta contro la disoccupazione e la precarietà, per un welfare universale e per il reddito garantito, è l’unico modo, realistico, per respingere la barbarie. La sfida è chiarissima nella sua difficoltà: costruire nuove «macchine da guerra» capaci di dare forza e continuità alle rivolte dei poveri. Istituzioni post-sindacali che sappiano organizzare il lavoro precario e intermittente, autonomo e della conoscenza.

3. Prototipi
Nel loro bel libro Vita da freelance, essenziale per chiunque voglia comprendere seriamente il presente e con serietà dedicarsi alla costruzione della coalizione del lavoro della conoscenza, Sergio Bologna e Dario Banfi descrivono in questo modo le attività di Acta (Associazione consulenti terziario avanzato):

Nell’organizzazione interna Acta trova alcune spinte aggregative che si concretizzano in tre attività distinte: analisi e proposte sul fronte delle politiche pubbliche, azione coordinata di comunicazione, costituzione di servizi specifici per i freelance. Sono tre componenti forti della consulenza: la lettura critica del capitalismo intellettuale, in particolare di ciò che viene definito legislativamente nei contesti politici e istituzionali; la necessità di parlare, divulgare, aggregare; e infine la volontà di rispondere alle esigenze di mutualismo e servizio.

Nata a Milano nel 2004 dall’auto-organizzazione di un gruppo di professionisti, Acta è la prima associazione costituita in Italia per dare rappresentanza ai lavoratori autonomi di nuova generazione, come chiarisce il testo di presentazione sul sito vivace e ricco di materiali (www.actainrete.it): «formatori, ricercatori, informatici, creativi e altre categorie di consulenti, generalmente operanti al di fuori di Ordini e Albi professionali, tutte accomunate dal fatto di rivolgersi a clienti che sono Imprese o Enti della Pubblica Amministrazione». Con gli occhi di vent’anni fa o con il pregiudizio tipico della sinistra lavorista: ceto medio, professionisti rampanti, evasori, fighetti. Le trasformazioni che hanno investito processi produttivi e mercato del lavoro, invece, se assunte correttamente nella loro irreversibilità, ci segnalano i tratti salienti di una nuova figura produttiva, egemone nella sua trasversalità. Figure che spesso scelgono la strada faticosa dell’indipendenza, aprendo la partita Iva, altrettanto spesso migrano da un contratto a tempo determinato ad uno di collaborazione, per poi, magari, sprofondare nella disoccupazione. Nel pieno della crisi, poi, che in Italia e in Europa significa declassamento della forza-lavoro qualificata, sottoretribuzioni, accanimento fiscale e deperimento del welfare, a maggior ragione per chi di accesso ai servizi essenziali ne aveva già assai poco, i lavoratori della conoscenza subiscono quel processo di impoverimento cui facevo riferimento nel primo paragrafo. Altrettanto, la transizione tra precarietà e indipendenza, tra lavoro e non lavoro, tra compensi dignitosi e ricorso disperato all’indebitamento, si fa regola, in alcuni casi incubo.

Come si apprende dalle attività prevalenti di Acta, comunicazione, formazione e mutualismo diventano tutt’uno con il processo di auto-organizzazione dei lavoratori cognitivi. Con uno sguardo rivolto a Berlino come a Londra o a Parigi, alle esperienze più interessanti di spazi di co-working, Bologna e Banfi insistono su una combinazione ulteriore: auto-organizzazione e mutualismo devono necessariamente intrecciarsi con la produzione comune, il lavorare assieme, l’istituzione di nuove forme di cooperazione sociale. Negli spazi di co-working, infatti, si condividono le spese (affitti e utenze), riducendone significativamente il carico, si uniscono le forze e le idee, nella ricerca delle commesse, si beneficia di consulenza in materia di previdenza e di fisco. Ma ciò che più conta, si ricostruisce un quotidiano condiviso contro la domestication o la frammentazione del lavoro autonomo e precario. Proprio nella crisi, la spinta verso la condivisione e la solidarietà diventa necessaria per sopravvivere, l’alternativa è un “si salvi chi può” tanto cinico quanto disperato. Non è casuale dunque che le sperimentazioni di co-working stiano proliferando anche in Italia, da Alessandria a Torino, da Milano a Firenze, da Roma a Palermo.

Prototipi associativi, spazi di co-working: i segni inequivocabili che qualcosa di importante sta muovendo i primi passi. Come far sì che queste prime esperienze di auto-organizzazione accumulino la forza necessaria per «far male ai padroni» e per conquistare un welfare propriamente universale? Comunicazione, formazione, mutualismo non sono sufficienti, infatti, se il welfare frana ovunque e se i compensi sono sempre più bassi. Ancora: è possibile organizzare gli «autonomi di seconda generazione» senza tenere adeguatamente in conto la transizione permanente che li riguarda, tra indipendenza e precarietà, tra lavoro e disoccupazione? Non dovrebbero, piuttosto, gli spazi di co-working essere vere e proprie camere del lavoro e del welfare, dove alle attività di consulenza e di servizio si accompagnano i conflitti e le vertenze, contro committenti e datori, l’INPS o le amministrazioni pubbliche? Solo l’accumulo di nuove esperienze potrà esserci d’aiuto nella risposta, nella consapevolezza che, come al solito, si procederà per prova ed errori, salti e discontinuità.

Pubblicato anche su Alternative per il Socialismo