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We can be Bowie

David Bowie e le sue metamorfosi. Prima e oltre la sua morte

 Non è bastato un singolo annuncio. Molti di noi hanno cercato in rete conferme ulteriori della morte di David Bowie. E non per l’età prematura (69 anni), né semplicemente per l’affetto e l’ammirazione dovuti alla grandezza e all’inesauribilità della sua opera. Ciò che ci affatica è il pensiero che colui che ha fatto della reincarnazione e dell’invenzione incessante di stili la sua forma di vita, possa, in questa sua variazione grandiosa e continua, essere bloccato da una cosa in fondo così ordinaria e banale come la morte. Perché nel mentre ci sforziamo di prendere atto della sua scomparsa, ci sorprendiamo a rivolgerci una domanda più radicale: se cioè sia effettivamente mai esistito qualcosa di nome David Bowie, o se quel nome e quella persona non siano state altro che il supporto delle maschere che ha indossato.

I proletari «incoronati»

È frequente incontrare persone che rimangono stupite quando vengono a sapere che il Duca Bianco sia nato nel povero sobborgo londinese di Brixton. Segnato indelebilmente dalla schizofrenia del fratello maggiore (morto suicida negli anni Novanta) che lo introdurrà all’ascolto dei nuovi orientamenti musicali degli anni Cinquanta, David Bowie agli inizi faticherà non poco ad affermarsi nella scena musicale. Il suo esordio è costellato da una serie di fallimenti e di colpi andati a vuoto. Solo con la ballata cosmica Space Oddity sembra invertirsi la tendenza, benché l’omonimo LP (1969) non raggiunga affatto il successo commerciale sperato. È però con The man who sold the world (1970) e Hunky Dory (1971) che prenderà forma un singolare stile di fare musica e la sua figura comincerà ad assumere nuove sembianze preparando l’imminente svolta glam.

Nonostante sia convenzionalmente ritenuto l’amico Marc Bolan l’iniziatore e massimo rappresentante del genere, si dice che l’atto di nascita del glam rock sia da individuare in un concerto del 1970 dove un semisconosciuto Bowie costrinse la sua band ad indossare calze smaglianti, stivali e mantelli colorati, suscitando lo stupore del pubblico.

Bowie non sembrava amare troppo le mode del momento. Sicuramente ebbe modo di criticare la deriva conformista del movimento hippy ma forse, più profondamente, ne disprezzava il richiamo all’autenticità. Per chi ha poco o nulla non c’è niente di più insensato dell’essere autentici, del resto. A partire da Bowie e dal suo alter ego Ziggy Stardust, l’accesso ad una vita non mediocre, «eroica», diventa una possibilità, effimera (just for one day), ma alla portata di tutti. The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972) diverrà l’album che più di altri ne segnerà la popolarità, portando al massimo livello l’arte del travestimento. Nella svolta glam è contenuta la quintessenza politica della sua opera: se fino ad allora il rock aveva permesso ai figli della working class di liberare le movenze del corpo, di sperimentare sex and drugs, e, in alcuni casi, la ricchezza, il glam fa dei proletari la «nuova aristocrazia» (1). Un’aristocrazia artificiale e illegittima, ovviamente, e perversa, dove l’incoronazione non rispetta alcuna discendenza familiare, di ceto o di classe. Dove attraverso la potenza del travestimento le posizioni sociali e di genere smettono di essere dei destini. Un’anarchia incoronata, per dirla con Artaud, dove l’alto e il basso sono l’effetto di una «distribuzione folle» dei posti e delle identità. Dietro le maschere, i rossetti e i colori sgargianti, non bisogna vedere alcuna trasgressione dunque, quanto una rivendicazione politica.

È probabilmente questo il modo in cui Bowie pensa che l’arte possa trasformare la vita di tutti all’inizio di un’epoca (gli anni Settanta) dove si cominciavano a vedere i segni di una torsione verso il basso delle promesse di libertà e ascesa sociale caratteristiche del secondo dopoguerra.

Nello stesso anno di Ziggy Stardust, Bowie comporrà All the young dudes (1972), una canzone-manifesto che sintetizza al meglio la disperata disillusione della sua generazione e che non smetterà di eseguire nella sua carriera. Si presenta, assieme a questa identificazione con la folla anonima dei perdenti, quel tratto nichilistico che non solo percorrerà tutta la sua opera fino ad arrivare alle allucinazioni distopiche e alle invocazioni totalitarie degli album successivi, ma che diverrà il tratto più caratteristico che inonderà lo scenario musicale della fine dei Settanta e dell’inizio degli Ottanta con il punk, il dark e il post punk. Qui i giovani teppistelli sniffano anfetamina, pensano al suicidio, rubano vestiti ai negozi e considerano la rivoluzione un affare per loro troppo impegnativo (We never got it off – on that revolution stuff – What a drag – too many snags). È in questo percepire la chiusura del possibile e nel disincantato e pessimista riferimento all’azione collettiva che la trasformazione di se stessi attraverso le maschere, il potere di trasfigurarsi, si presenta come un gesto di resistenza.

Un gesto inevitabilmente ambiguo, talvolta impregnato di allusioni mistiche e paranoiche, ma che non smette di ripetere che non c’è salvezza alcuna nelle origini, nell’autenticità né nel buon senso. Nulla ci è dato fuori dall’effimero e dall’artificiale, perché le possibilità di vita possono solo essere fabbricate e create in una sperimentazione incessante su noi stessi.

La formula della creazione

Difficilmente si hanno biografie così segnate da annunci di morte e rinascita artistica come quella di Bowie. E difficilmente si hanno esempi di artisti che hanno fatto della reincarnazione e della metamorfosi la propria coerenza e continuità stilistica. Di tutte le sue rinascite, quella della fine degli anni Settanta è sicuramente la più importante. Dopo la parentesi americana, Bowie attraversa una fase di crisi personale segnata, tra le altre cose, da una significativa dipendenza dalla cocaina. Da questa fase ne uscirà prima con Station to Station (1976) e soprattutto con la celebre «Trilogia Berlinese» (Low, Heroes, 1977 e Lodger, 1979). La Trilogia è considerata oramai unanimemente come il contributo più originale e sperimentale del musicista inglese, punto d’origine e ispirazione di numerose tendenze musicali successive. In questo periodo si trasferisce (fugge) a Berlino Ovest in un appartamento assieme al suo vecchio amico Iggy Pop. Mentre rilancia (e salva) la carriera artistica di Iggy producendo e scrivendo The Idiot e Just for Life (1977), Bowie comincia a sperimentare e a maneggiare le nuove sonorità che capta dalla nascente scena Kosmische tedesca. Qualcuno ha voluto vedere nella generosità offerta da Bowie a Iggy Pop null’altro che uno stratagemma per provare e testare il nuovo sound sulle spalle dell’amico. Al di là della malafede dei critici musicali, bisognerebbe invece vedere in questo scorcio biografico il mettersi in scena della formula della creazione.

Si può dire, senza incorrere in alcuna contraddizione, che David Bowie non abbia inventato nulla pur avendo innovato tutto. Questa paradossale verità è il frutto di un’attività incessante di ricerca, curiosità, furto ed uso di stili abbandonati o tendenze sotterranee non ancora emerse in superficie. L’attività creativa deve passare per l’imitazione e la composizione di elementi eterogenei. Dominare elementi che non hanno ancora forma. Questa caratteristica toccherà il proprio apice con lo sviluppo della musica elettronica con le sue attività di campionamento, sintetizzazione e mixaggio. Bowie capta delle forze informi che non gli appartengono, scende nei bassifondi dove tendenze non hanno ancora raggiunto una loro visibilità, le maneggia e le assembla fino a farle divenire una forma artistica, nuova e suprema. Se questo è un tratto di tutta la produzione artistica, in Bowie questo si presenta come massimamente visibile e tangibile (Every chance that I take, I take it on the road). Nel laboratorio berlinese, gli elementi sonori si ricompongono attraverso le strategie oblique di Brian Eno, questo colpo di dadi che risolve con l’irruzione del caso lo stallo nella produzione del nuovo. Questo abbandono programmaticamente perseguito di qualsiasi progettazione autoriale, passa per l’immersione in ambienti artistici desueti (l’espressionismo tedesco) e musicali alternativi al rock/pop anglosassone (il krautrock) non meno che per la riattivazione di una relazione tra amici che condividono l’urgenza di uscire dal buco nero in cui sono ficcati. Come direbbe Deleuze, gli amici, gli stili e gli ambienti sono qui degli intercessori che consentono di venire a contatto con forze potenziali, inespresse e informali. Il risultato è una musicalità minimale e cupa capace però di esprimere un’esigenza vitale ed un salto di gioia. Differentemente dallo sport preferito dai critici musicali che si affaticano nello stabilire «a chi spetti cosa», a noi piace vedere in questo trionfo dell’impersonale la cifra della vita artistica di Bowie.

Dopo alcuni importanti successi e dopo un lungo periodo meno felice dal punto di vista artistico, gli ultimi due album, The Next Day (2013) e l’appena pubblicato Blackstar (2016) hanno provato a riproporre quello stile compositivo che sporge il già sentito sull’orlo di un nuovo modo di ascoltare e fare musica. Nella nostra epoca così scarsa di innovazioni musicali e dominata dal revival, occorre avere il coraggio di fare lo stesso.

Anche nella sua morte sembra rivivere il suo gesto d’artista. Solo pochi giorni dall’uscita del suo album e con l’ultimo singolo (Lazarus) dedicato alla resurrezione (Oh I’ll be free), sembra quasi che abbia allestito l’ultima scena, come aveva fatto Ziggy. Non per chiudere quella storia, ma per lasciarla aperta.

Non disperiamo dunque della sua scomparsa e smettiamola di essere tristi: il potere impersonale della metamorfosi a cui David Bowie ha prestato il nome, non può essere fermato certo dalla morte. Può farlo solo la noia e la stanchezza.

 

1) Mark Simpson, Saint Morrissey, Arcana, 2009.