Vieni avanti, cretino!

Il conclave del Pd era solo una Congregazione generale.

Ovvero una riunione interlocutoria, in attesa dell’arrivo dello Spirito Santo nella duplice veste di un responso parlamentare ma ancor più di una chiara presa di posizione dei poteri finanziari a nome dell’Europa. Il primo momento è l’enigma del comportamento effettivo dei gruppi M5S alla Camera e soprattutto al Senato, anche se è chiaro l’interesse di Grillo-Casaleggio a non schierarsi e a far fallire tutte le soluzioni per arrivare rapidamente a nuove elezioni sull’onda dello tsunami; il secondo è ancora indefinito nei dettagli, proprio a causa del profondo travaglio derivante dall’evidente fallimento dell’austerità di marca Ue. Saltare un giro!

L’azzardo (poco convinto) di Bersani è di erigere uno sbarramento verso il governissimo con Pdl e montiani e di conquistarsi una fetta dei grillini al Senato con un programma che li attragga su temi che costano poco e arriveranno in porto in tempi tecnici lunghi: moralizzazione delle politica, tagli al numero dei parlamentari e al finanziamento pubblico dei partiti, conflitto di interessi, piccole opere, green economy, vaghe proposizioni sul reddito minimo, senza mettere in discussione le scelte economiche di base come il pareggio di bilancio in Costituzione, il fiscal compact e la Tav. Abbastanza per smarcarsi da Berlusconi, troppo poco per convincere Grillo, sufficiente per insospettire l’Europa e Napolitano, commissario piuttosto Obama. È dunque certo che l’incarico si riduca a un semplice mandato esplorativo, in stile Prima Repubblica, e sia destinato a un fallimento. Ragion per cui il finto Conclave è restato indifferente, anzi ha dato via libera al segretario per vederlo andare a sbattere e riaprire i giochi una volta sbarazzatisi dello sciagurato vincitore delle primarie e dello sfigato perdente alle elezioni vere. Molti infatti ne sono andati all’ora di pranzo, non solo Renzi, e altri sono restati muti. Bersani si giocherà così il tutto per tutto sul piano A, sabotato dalla destra interna e da Napolitano, il Casaleggio del riformismo, il guru dei piani B. La flebile sinistra interna di Fassina e Orfini lo denuncia apertamente e perfino Vendola sembra rassegnato e si ritira a resistere in Puglia, dove peraltro ha perso la maggioranza elettorale. D’Alema rialza la testa e parla (con ripugnanti citazioni di Gramsci, che lo faranno rivoltare nella tomba) della bellezza degli inciuci e di solidarietà nazionale –in realtà pensando a un qualche governo tecnico del Presidente che aggiri l’ingombrante accordo con Berlusconi, magari garantendogli altro. Solo Grillo (con Monti, che però non conta nulla) vuole elezioni subito, mentre Berlusconi è perplesso, causa sondaggi sfavorevoli, sentenze pronunciate e imminenti e distacco della retina.

I piani per una exit strategy –limitiamoci al Pd– sono quindi molti e non agevolmente conciliabili, anzi segnati da contraddizioni fra di loro e con la realtà. Il governo tecnico mascherato è solo un breve passaggio, cui prima o poi (ma le tempistica è essenziale) seguirà il ritorno alle urne, quando un nuovo Presidente della Repubblica potrà sciogliere le Camere (adesso siamo in semestre bianco). La tempistica è essenziale su entrambi i fronti. Sul primo, parlamentare, secondo i primi sondaggi a largo margine di approssimazione, si rischierebbe nel breve periodo la maggioranza assoluta della Camera al M5S, ferma restando l’ingovernabilità del Senato, ciò che permetterebbe più facili alleanze, ma a egemonia stavolta grillina. Diamo per scontato che non ci si accorderà su nessuna riforma della legge elettorale e ciò avvantaggerà Grillo, che già sfiora il 30%. Prendendo tempo, chissà –ma il governo tecnico non incoraggerà la deriva “populista”? Sul secondo, europeo, che effetti può avere l’aggravamento della crisi e l’orientamento dei potentati finanziari? Avrà la meglio Obama o la Merkel? Caduto Bersani, sostituito Napolitano (con chi?) e incombendo un secondo turno elettorale, si andrebbe a nuove primarie del Pd (o al congresso) e stavolta potrebbe ridiscendere in campo Renzi, per ora inviso alla nomenclatura, oppure la new entry Fabrizio Barca, oppure entrambi come ticket Premier e Segretario (l’idea Finocchiaro è la solita cazzata di qualche dalemiano di Repubblica sotto 8 marzo).

La realtà ha però la testa dura. Non solo M5S, stavolta con assoluta razionalità strategica, non abbocca a quelle profferte pelose, ma il Pd non dà risposte ai problemi sostanziali del rapporto con la crisi e con l’Europa. Continua ad accettare il fiscal compact ecc., cioè una manovra da 40 miliardi? Intende rinegoziare il debito? Ha il coraggio di bloccare a giugno l’aumento dell’Iva? Mette in discussione la legge Biagi e la riforma Fornero? In una parola: rimangiarsi tutto quanto ha fatto durante l’appoggio a Monti, e in verità anche prima. Su questo non è in grado di mantenere la propria ragion d’essere e la conseguente unità interna. Ma così non è neppure in grado di fermarsi sull’orlo del baratro in cui sta precipitando l’Italia, tanto meno di recuperare le masse disperate che cercano scampo correndo nelle più varie direzioni. Non soltanto il Pd non recupera pezzi di elettorato alla prossima scadenza, ma implode nel bel mezzo di una catastrofe sociale in corso. Catastrofe di cui l’ultimo voto è stato un sintomo diagnostico, non certo la cura.