MONDO

Venezuela: la solidarietà internazionale in tempo di guerra

Pubblichiamo come contributo alla discussione sulla situazione in Venezuela le riflessioni di Marco Teruggi nate da una serie di incontri realizzati tra gennaio e febbraio in varie città europee in cui l’autore, sociologo franco-argentino che vive in Venezuela, ha partecipato a discussioni sulla rivoluzione bolivariana e rilasciato interviste a vari mezzi di comunicazione

Siamo più soli di prima. Non si tratta di una novità ma di una tendenza che si fa più marcata. La solidarietà internazionale verso il Venezuela è diminuita, in particolare a partire dal periodo aprile-giugno dell’anno passato. Alleati una volta vicini hanno preso le distanze, così come chi osservava con attenzione il processo bolivariano e ci difendeva dalle valanghe di accuse che ci venivano lanciate dai media e dalle forze politiche della destra. Non ci troviamo più soltanto di fronte alla necessità di decostruire la retorica che ripete come il Venezuela sia una dittatura, ma anche di dover ricostruire un tessuto di appoggio alla rivoluzione che si è trovato sotto attacco. Si tratta di due piani differenti che richiedono strategie differenti.

In questo contesto si potrebbe decidere di scaricare ogni responsabilità sugli altri. La chiusura e l’omogeneità dei grandi mezzi di comunicazione internazionale è brutale e la maggior parte degli spazi televisivi viene negata a chi non ripeta il discorso volto ad isolare il Venezuela. Anche le voci di vari presidenti dell’America Latina e dell’Europa si sono aggiunte alla discussione. Certamente si può anche segnalare chi si è tenuto lontano da una serie di aggettivi: opportunista, traditore, intellettuale che cerca soltanto un posto al sole (il Venezuela però non è sole ma tempesta) ed arranca sotto le pressioni politiche del proprio paese, complice per scelta.

Assegnare tutta la responsabilità al campo avverso è poco onesto e soprattutto poco costruttivo. Non ho dubbi che alcune posizioni politiche (il silenzio è una di queste) possano spiegarsi complessificando alcune di queste. Però significherebbe non interrogarci su cosa sbagliamo, su cosa non facciamo o facciamo male e allontana la possibilità di tornare a ricucire quell’intreccio necessario intorno al Venezuela e di riarticolare la solidarietà tra le sinistre, i progressismi e gli ecologismi per quel che riguarda l’Europa. Sono queste le forze che possono, nei rispettivi paesi, partecipare alla discussione sul Venezuela nei dibattiti, nelle elezioni e nelle mobilitazioni tenendo conto delle relazioni tra forze politiche e della comunicazione che, dal punto di vista generale, non sono favorevoli. È una condizione imprescindibile nella situazione attuale in cui alle frontiere si vedono brillare le canne dei fucili e la solidarietà non è un mitra.

Il primo piano di scontro è la difesa del carattere democratico del processo politico che viviamo in Venezuela. Su questo abbiamo fatto dei passi indietro ed è sempre più diffusa l’opinione pubblica che identifica il chavismo come una “dittatura”. È questa, ad esempio, la parola che viene associata di più al Venezuela quando si fa una ricerca sui mezzi di comunicazione in Svezia (e potrebbe estendersi anche ad altri paesi). La seconda parola che compare più volte è “corruzione”. Questa retorica è utilizzata in maniera violenta: è imprescindibile che la diffondano fino alla nausea per giustificare le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, l’Unione Europea e i paesi del Gruppo di Lima e creare le condizioni per un’eventuale nuova azione di forza nazionale e/o internazionale.

Per questo aspetto della questione ci mancano strumenti concreti: leggi, articoli della Costituzione, sentenze della Corte Suprema, dati, dichiarazioni come quelle rilasciate dal commissario per i diritti umani dell’ONU lo scorso dicembre in cui si affermava che non esiste crisi umanitaria in Venezuela. All’estero ci sono de dubbi sull’Assemblea Nazionale Costituente, sulla legalità, sulle elezioni anticipate e sulle motivazioni che spiegano perché Voluntad Popular e la Mesa de la Unidad Democratica [“Tavolo dell’Unità Democratica”] non possano presentarsi alle elezioni presidenziali. Parlo di convincere coloro che potrebbero aggiungersi ai sostenitori del progetto bolivariano ma che si trovano in mancanza di argomentazioni in un contesto di alta tensione e di fronte agli attacchi sistematici della destra. Su questo, sappiamo che la legalità è importante, ma ancor di più lo è la legittimità.

Questo livello è necessario ma insufficiente e si corre il rischio di cadere in una limitazione che altri da fuori definiscono come vittimizzazione. In parole povere, significa che la discussione si limita ad un decalogo delle aggressioni nazionali einternazionali oltre che alla difesa di qualsiasi azione portata avanti dal chavismo. La retorica del bene e del male può avere successo per la difesa democratica e lo smascheramento del nemico, ma non dispone della forza necessaria per ricostruire solidarietà e parlare con le sinistre e i progressisti che si trovano oramai in un’epoca con più dubbi che certezze (il Venezuela, fino a poco fa, rappresentava una delle certezze).

È necessario mettere in discussione la rivoluzione proprio in quanto rivoluzione– e questa non funziona secondo la logica del bene e del male. Il processo ha le sue contraddizioni, le sue emozioni allegre e quelle tristi, un multiclasissmo che rende difficile l’uscita dalla guerra/crisi economica.

Dispone di strumenti politici, movimenti, esperienze di organizzazione popolare, logiche burocratiche, narrazioni, oltre un milione e novecentomila abitazioni realizzate e consegnate, ecc.Bisogna analizzarlo, tradurlo in altri linguaggi politici, pensare auna narrazione che esca dal linguaggio come “comandante supremo” e auna liturgia della propaganda, elementi controproducenti in altri paesi (spesso anche in Venezuela).

Questo significa che bisogna approfondire l’analisi del nostro stesso processo mantenendola sempre all’interno del quadro generale in cui si sviluppa. Ovviamente la presenza di una voce ufficiale è una condizione imprescindibile, ma da sola risulta insufficiente per quest’altro piano: è una (auto)limitazione difendere la rivoluzione solo dal punto di vista istituzionale e di pochi dirigenti. Così facendo si spreca la forza del chavismo, lo si riduce alle direttive del governo e del Psuv [“Partito Socialista Unido de Venezuela” – Partito Socialista Unito del Venezuela, partito fondato da Hugo Chavez nel 2007 e attualmente al governo – ndt] e la rivoluzione si trova a dover rispondere con argomentazioni molte volte inutili per chi è già convinto del contrario alle immagini squallide che arrivano dall’estero sull’inflazione, sulle code, sulle migrazioni.

Abbiamo bisogno di riarmare strategie di comunicazione e tornare ad entusiasmare le persone. Questo si ottiene, tra l’altro, ampliando la comunicazione all’esterno, le retoriche e le discussioni sulla rivoluzione stessa così come riproponendo, ad esempio, gli incontri di solidarietà realizzati in Venezuela,in cui però la formula “hotel/porte chiuse/dialogo con alcuni dirigenti” ha un effetto limitato. Per far innamorare le persone della rivoluzione è necessario condividerla verso il basso nel paese più vero senza aria condizionata, con esperienze come le assemblee comunali e le distribuzioni dei Clap [“Comité Local de Abastecimiento y Produccion” – Comitato Locale di Approvvigionamento e Produzione, centri comunali di distribuzione di beni alimentari di prima necessità costituiti nel 2016 – ndt]. La rivoluzione sono i dirigenti ufficiali? Sarebbe un grave errore concepirla in questo modo. Un errore che si verifica e che è parte dei nostri problemi, tanto verso l’interno come verso l’estero.

Questo secondo piano è la chiave. Implica anche di dover riconoscere, analizzare e spiegare i problemi come, ad esempio, la crescita e la lotta alla corruzione, le difficoltà incontrate nel tentativo di raggiungere l’aumento della base produttiva nonostante le prove che abbiamo dovuto superare lungo il cammino (all’estero tutti si chiedono perché il chavismo non sia stato capace di ottenerlo) o quali errori abbiamo commesso nel cercare di stabilizzare il quadro economico provocato dalla strategia del nemico.

Fare una critica ai propri limiti conferisce maggiore credibilità e questa credibilità è oggi imprescindibile.

 

Questa analisi nasce da una serie di incontri realizzati tra gennaio e febbraio in varie città europee in cui abbiamo partecipato a discussioni sulla rivoluzione e rilasciato interviste a vari mezzi di comunicazione. Questi incontri sono stati possibili soltanto grazie ad associazioni e forze politiche che lavorano per la solidarietà con il Venezuela. La conclusione, a seguito di questa esperienza, è che si può ricostruire un tessuto di appoggio pubblico, ma che difficilmente lo si otterrà se lasciamo attivo il pilota automatico. Il nostro nemico ha messo in campo una forza internazionale in un quadro generale di avanzamento delle destre in vari paesi, dispone di alleati forti (che sono il nemico stesso) e sa come giocare sul terreno della comunicazione. La rivoluzione, su questo campo,ma anche in altri, deve reinventarsi per difendersi e portare avanti i propri insegnamenti, che sono numerosi. Queste appena espresse sono linee guida per ottenerlo, e risultano urgenti in questo contesto di crescente isolamento e con un cielo che si copre di nuvole tempestose.

Pubblicato su Hastaelnocau, traduzione di Michele Fazioli per DINAMOpress.