approfondimenti

ITALIA

Uscire insieme dai propri abissi

Questo articolo consta di due parti: la prima è scritta da J., utente di un centro diurno per persone minorenni; la seconda, da I., educatrice professionale nello stesso servizio. La collega di cui si parla è S., tecnica della riabilitazione psichiatrica (qui abbreviata trp). Usiamo la parola “utente” perché deriva dal verbo latino utor, utěris (usare, far uso) che secondo noi ben rispecchia l’identità agente di chi attraversa e vive i servizi socio-sanitari

Per tutta la vita ho cercato di essere ciò che volevano gli altri: una figlia perfetta, una studentessa modello, un’atleta, una ragazza posata, educata, bella ed intelligente…

Con questo non voglio negare l’importanza di questi valori ma vorrei sottolineare come l’estrema rilevanza che le persone attribuiscono all’apparenza di questi mi abbia fatto conoscere l’abisso.

Conoscere l’abisso è veramente molto rischioso, molte volte finisce che l’abisso vuole conoscere te e a quel punto capisci di essere fregato.

Nell’abisso però ho trovato una mano pronta a tirarmi su e a uscire dal suo abisso insieme a me.

Questa persona mi ha insegnato l’importanza delle emozioni e del sapersi riconoscere qualche: “va bene così” (Kant).

Veniamo cresciuti con l’idea di mostrarci sempre forti, in salute e pieni di risorse; questa modalità, però, mi è sempre stata stretta e non ha fatto altro che rendermi una ragazzina viziata, capricciosa e superficiale.

Ho sofferto di DCA, anoressia nello specifico, e per questo motivo mi hanno inserita in un progetto rieducativo.

Devo ringraziare alcuni operatori e soprattutto devo riconoscere di essere stata fortunata ad aver trovato in loro delle persone umane.

Le educatrici indisciplinate, come le chiamiamo noi, sono andate al di fuori delle regole standard del sistema, secondo le quali chi offre un servizio socioriabilitativo dovrebbe annullarsi come persona e, mostrandosi sempre in forma smagliante, rieducare l’utente attraverso attività (non finanziate) come disegno, scrittura o lavoretti manuali.

Come dicevo alcuni dei miei operatori, ribellandosi al sistema, ci hanno preso per mano e hanno deciso di affrontare le loro debolezze con noi.

Da utente posso dire che questa è stata la cosa che più di tutto mi ha fatta crescere e cambiare: vedere come, nella vita di tutti i giorni, i problemi e le difficoltà sono normali e bisogna solo saperli superare utilizzando i nostri strumenti mi ha fatta cambiare ma soprattutto mi ha fatto capire meglio che ciò che voglio non è omologarmi in questa società di automi ma essere me stessa, questo piccolo grande utente nelle sue capacità e soprattutto nelle sue debolezze.

Parte seconda

Durante il mio ultimo giorno come educatrice indisciplinata, io e J. abbiamo parlato a lungo: abbiamo avuto modo di confrontarci riguardo al nostro stare nel servizio e a come la nostra relazione educativa ci abbia modificato. Le mie riflessioni sono anche il frutto di questo dialogo. La mia parola segue la sua, non perché sia più autorevole, ma per il timore che una scrittura completamente condivisa potesse portare il mio sapere professionale a prevaricare quello di J.

L’esperienza del nostro centro diurno si può ritenere complessivamente fallimentare, se analizzata nei termini di organizzazione del servizio e di distribuzione del potere istituzionale: non abbiamo progettato modelli riproducibili per aumentare la partecipazione delle persone utenti alla strutturazione del servizio; non abbiamo rivendicato più diritti per noi educatrici/trp; non abbiamo interagito con le istituzioni sanitarie pubbliche, perché ci veniva impedito. Quello che è successo nella pratica, però, è stato un aumento di potere d’azione e di volontà di autodeterminazione delle persone utenti e una modulazione dei ruoli all’interno del servizio basata sui bisogni e sulla fiducia e non più sui titoli professionali o sul potere agito da noi maggiorenni.

I discorsi intorno alla partecipazione dei soggetti utenti nei servizi socio-sanitari e sulla rinuncia da parte de* professionist* di una parte del proprio potere, incontrano di solito tre tipi di ostacoli teorici e pratici:

– lo sfruttamento legalizzato del personale educativo e sanitario, volto a gerarchizzare le pratiche educative e che priva le persone professioniste di possibilità di azione e decisione;

– lo scarto culturale tra utenti e professionist*, definito dalla possibilità di accesso al sapere tecnico (e spesso eccessivamente medicalizzato): in questo senso, se le nostre competenze professionali sono indispensabili per formulare progetti volti all’emancipazione individuale e collettiva, esse costituiscono anche il rischio di soffocare i saperi resi subalterni, perché privi di una formulazione tecnica.

– le tecniche stesse di aumento della partecipazione delle persone utenti, che troppo spesso risultano in una effettiva manipolazione del loro consenso, tesa a instaurare quel tipo di democrazia che coincide con la tranquillità e l’assenza di conflitto. Si pensi a quante volte le attività nelle comunità terapeutiche sono volte a convincere i soggetti di risiedere in un servizio attento alle loro esigenze, spostando la loro attenzione dai bisogni reali (del diritto di scegliere dove vivere, per esempio), a soddisfazioni fittizie, come l’esporre i propri lavoretti in una mostra cittadina.

Trovare una soluzione univoca a questi problemi sembra impossibile. Richiedere alle persone utenti e alle loro famiglie semplicemente di iniziare a prendere decisioni relative all’organizzazione dei servizi significherebbe delegare a loro la responsabilità che noi non riusciamo a sostenere, quella di muoversi innocentemente in un welfare determinato dallo spirito capitalistico.

D’altra parte, il nostro intervento in qualità di personale educativo e sanitario rischia di direzionare la richiesta di bisogni, rendendoci “funzionari del consenso 1 ”. Queste ipotesi dimenticano lo spazio di esistenza e azione di ogni progetto o percorso di emancipazione e crescita: la relazione educativa, che – come tutte le relazioni – è autentica solo nella reciprocità. Se la nostra esperienza nel centro diurno è stata fallimentare dal punto di vista di cambiamento istituzionale, essa è risultata un successo in termini di liberazione individuale e collettiva, grazie alle nostre relazioni e a come esse ci hanno modificato.

Quando ho iniziato a lavorare nel nostro servizio, non avevamo nulla: non c’erano abbastanza mazzi di chiavi perché noi educatrici potessimo entrare in turno senza citofonare ai vicini; non c’era il riscaldamento; non c’era materiale per le attività; non c’era neanche un armadietto per tenere i farmaci e gli oggetti appuntiti; io non avevo voglia di lavorare e tantomeno di leggere articoli sulla co-progettazione. Non avevamo nulla, se non il mandato di mostrarci come un servizio perfetto. Come la società richiedeva a J. di essere bella, intelligente, atletica, a noi richiedeva di essere professioniste entusiaste, accondiscendenti, capaci di inventare attività senza alcun materiale, felici di mettere a disposizione le proprie auto per andare in gita. Noi non abbiamo rispettato questo imperativo e abbiamo scelto di esplicitare alle persone utenti del servizio che avevano diritto a un luogo di cura arredato, così come noi necessitavamo di avere degli strumenti per lavorare.

L’alleanza tra operatrici e utenti è iniziata così: con un grande scazzo. Ripensando al nostro percorso a posteriori, potremmo citare Mauro Rostagno nel suo discorso del 1988 a Trento 2 : «io dico che la struttura del miracolo e la struttura dello scazzo è identica»: entrambi non sono realmente descrivibili dall’esterno, mentre chi li vive può sentire, ma fatica a dire cosa sia successo. Senza paragonare l’esperienza del nostro piccolo centro diurno al ’68 di cui parla Rostagno, vorrei però rimanere all’interno di questa poco educata categoria dello scazzo: J. scrive che ha incontrato una mano che è uscita «dal suo abisso» insieme a lei.

Il mio abisso era il burn out, l’abisso – lo scazzo – della nostra équipe (costituita sostanzialmente da me e un’altra fondamentale collega), era l’impossibilità di lavorare nel modo per cui ci siamo formate e che abbiamo sognato.

L’impossibilità di costruire una rete con i servizi e i luoghi attraversati dalle persone utenti, di realizzare progetti individuali e di gruppo e di farlo condividendone gli obiettivi e ponendosi il fine delle dimissioni dal centro diurno. Tramite lo scazzo, è avvenuto un piccolo miracolo: da un lato, dal momento che non avevamo alcuno strumento di lavoro, abbiamo iniziato a progettare l’impostazione delle attività settimanali con l’utenza stessa, un po’ per convinzione un po’ per mancanza di idee; dall’altro lato, il semplice gesto di mostrare le nostre debolezze, la stanchezza, la frustrazione lavorativa data dal mancato riconoscimento della nostra professionalità si è rivelato terapeutico. Abbiamo lasciato che si rendesse evidente la reciprocità nelle nostre relazioni educative: così J. ha iniziato a vedere che anche noi, a cui era richiesta perfezione assoluta, continuamente inciampavamo, ci perdevamo, facevamo fatica, scazzavamo.

Ciò che ha determinato lo sviluppo positivo del nostro percorso condiviso, inoltre, è stata la presa di coscienza comune di ciò che stava succedendo. Non abbiamo lasciato che lo scazzo agisse da solo, ma lo abbiamo avallato. La ribellione di noi educatrici/trp al modus operandi della cooperativa non era solo palese agli occhi dell’utenza, ma anche oggetto di conversazione; abbiamo iniziato a condurre attività per lavorare sull’autodeterminazione del proprio pensiero, e richiedevamo a chi non voleva partecipare ai laboratori di argomentare la propria posizione e sostenerla in una discussione con noi operatrici. Se le tesi sull’inutilità dei laboratori erano ben sostenute, le accoglievamo: non abbiamo quindi delegato all* utenti la responsabilità di valutare l’offerta del servizio, né abbiamo raccolto la loro opinione per poi rielaborarla in sede di équipe. Semplicemente, ne abbiamo parlato, in un confronto che non cancellava la diversità dei nostri ruoli, ma riduceva lo spazio di potere autoritario e di creazione del consenso.

La difficoltà di stabilire un confine tra sapere tecnico-professionale e sapere proveniente dalle persone utenti si riduce enormemente nel dialogo. Bisogna ripartire da qui, dall’ascolto: non solo delle parole dette (per non escludere chi non parla); non solo del soggetto che abbiamo dinanzi (per non scaricare la responsabilità di cambiare i servizi); bensì della relazione educativa, che modifica entrambi i suoi componenti – e quindi anche noi.

Secondo Martin Buber 3, è la relazione che crea i soggetti, non i soggetti a creare la relazione: in altri termini, l’educatrice I. che è entrata in dialogo con J. non esisteva prima di incontrarla.

E il nostro dialogo si è formato in relazione alla struttura autoritaria del servizio, a cui ci siamo opposte, non in base a teorie e tecniche pre-impostate – seppur l’aver letto Basaglia abbia ovviamente influito sulle capacità di cogliere l’opportunità di deistituzionalizzazione, così come una precedente esperienza di mobbing ha determinato la capacità di nascondersi agli occhi del responsabile di servizio.

Si rende qui evidente uno dei problemi che a mio avviso contribuisce a condurre i discorsi sul welfare in aporia: non possiamo universalizzare le esperienze educative positive, perché sono necessariamente relazionali e quindi specifiche. Non possiamo impostare un metodo per ampliare la partecipazione dell’utenza nei servizi sulla base della relazione educativa tra noi e J. Possiamo però descrivere alcune caratteristiche del miracolo che è avvenuto nel nostro centro diurno:

1. Il miracolo è avvenuto negli interstizi delle contraddizioni sociali, non in contrapposizione a esse: non ci siamo mai ribellate apertamente ai nostri superiori, abbiamo solo approfittato della loro assenza.

2. il miracolo è avvenuto perché utenti ed educatrici hanno riconosciuto la radice comune dei propri abissi: la guarigione di J. è cresciuta di pari passo con l’apertura del servizio, perché a entrambe la società chiedeva di chiudersi nella perfezione.

3. Per “apertura del servizio” non intendiamo uno stravolgimento organizzativo, che non c’è mai stato e che non avremmo mai avuto la forza di attuare. Intendiamo invece lo spazio di libertà che si è costituito nelle nostre relazioni educative e non a caso in un centro diurno così poco libero.

4. Ciò che ha aperto il servizio è stato proprio il nostro non poter aprire il servizio. È stata la contraddizione tra il mandato di oppressione a cui eravamo chiamate in quanto rappresentanti di un’istituzione e l’identità rivoluzionaria del lavoro educativo (che porta con sé dialogo e diritti) a creare lo spazio relazionale in cui si è svolto il miracolo: se J. non avesse visto me e S. lottare per non essere complici della conduzione capitalistica della cooperativa, non avrebbe compreso che «i problemi e le difficoltà sono normali e bisogna solo saperli superare utilizzando i nostri strumenti». La necessità della lotta (condivisa) ci ha permesso di deistituzionalizzare.

5. Non abbiamo mai lavorato alla co-progettazione del centro diurno, non ne avevamo il potere. Ciò che è avvenuto, invece, è che siamo cresciut* insieme, che abbiamo condiviso un processo di liberazione, chi dal proprio DCA, chi dal proprio burn out. E non è proprio questo il fine di ogni discorso sulla progettazione condivisa?

6. il miracolo non ha avuto l’esito di reinserire le persone utenti all’interno del sistema produttivo. Certo, alcune di loro sono più tranquille nell’andare a scuola; ma rimane fondamentale la conclusione portata da J. e che è il vero indice di quanto la nostra esperienza sia stata di successo: l’aver capito «che ciò che [vuole] non è omologar[s]i in questa società di automi ma essere [s]e stessa». Significa che nel nostro piccolo spazio di resistenza, tra gli interstizi delle contraddizioni sociali amplificate dal welfare, per qualche mese e non per sempre, abbiamo interrotto la mera riproduzione del modello capitalistico.

Note

1 F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia (a cura di), Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Baldini Castoldi, Torino 1975.

2 Dall’estratto di video: Mauro Rostagno: bentornata Utopia. Trento 1988, disponibile al link

3 Martin M. Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), filosofo; ha incentrato buona parte dei propri studi sulla relazione e sul dialogo. La sua opera principale è Ich und du, 1923, disponibile nella traduzione italiana ne Il principio dialogico e altri saggi, trad. It. A. M. Pastore, a cura di A. Poma, Edizioni San Paolo, Milano 1993.

Abbiamo scelto di mantenere l’anonimato per non correre il rischio che il centro diurno subisca ulteriori chiusure istituzionali

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Immagine di copertina da Openverse