MONDO

Usa, fine della prima repubblica? Intervista a Bruno Cartosio

«Non era mai accaduto che il Campidoglio fosse invaso da una folla inferocita e armata con lo scopo di interrompere il legittimo procedimento di ratifica elettorale. Un evento a tutti gli effetti anormale che inevitabilmente segna un punto di svolta.»

Nel corso della diretta Facebook che Dinamopress ha dedicato all’assalto di Capitol Hill, Luca Celada ha utilizzato un’espressione molto potente per descrivere quanto stava accadendo a Washington. L’autore di Autunno americano ha parlato di «fine della prima repubblica degli Stati Uniti». Un evento che entrerà probabilmente nei libri di storia, grottesca rivisitazione di altre celebri insurrezioni contro i palazzi del potere. «Tra le tante bandiere ce n’erano alcune con immagini che risalivano alla guerra d’indipendenza, al 1776: è un tipo di iconografia che rimanda proprio al concetto di “noi siamo come gli insorti”», fa notare lo storico Bruno Cartosio. Professore ordinario di Storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo e autore di numerosi saggi (tra cui Dollari e no, del 2020), Cartosio ha raccontato anche gli anni della presidenza Trump. Abbiamo provato ad analizzare con lui i fatti del 6 gennaio, partendo proprio dalle parole di Celada.

 

Secondo lei si può parlare di fine della prima repubblica degli Stati Uniti?

Non era mai accaduto nella storia degli Stati Uniti che il Campidoglio fosse invaso da una folla inferocita e armata il cui fine era interrompere il legittimo procedimento di ratifica della vittoria elettorale di uno dei due candidati. Sarebbe stato al di là dell’immaginabile se fossero riusciti a impadronirsi delle carte che servivano, e sono poi servite, alla ratifica del voto dei collegi elettorali. Questo non è successo solo perché quattro inservienti hanno portato via i documenti e li hanno salvati. Stiamo parlando di un evento assolutamente anormale che inevitabilmente segna un punto di svolta.

Anche per un’altra ragione: la folla dei manifestanti è partita su incitamento del presidente stesso, è partita da un suo comizio. Lì Trump ha chiaramente detto “Ora andiamo al Campidoglio”, affermando che lui stesso si sarebbe messo alla loro testa (però finito il comizio è salito in macchina ed è rientrato alla Casa Bianca). Questo è quanto gli organi di legge stanno valutando: la sua responsabilità, diretta o meno, nell’incitamento dell’assalto al Campidoglio.

 

Ci sono possibilità che Trump venga destituito dal suo incarico?

Il venticinquesimo emendamento della costituzione prevede che, in caso di malattia o incapacità (anche mentale) del presidente di esercitare le sue funzioni, il vicepresidente possa chiedere con il sostegno dei ministri importanti del gabinetto la destituzione del presidente.

Ora i democratici hanno avanzato questa richiesta a Pence, che ora sembra essere in dubbio se accettare o no. In ogni caso resta la via dell’impeachment, che i democratici avevano già provato senza successo all’inizio del 2020. Ora però hanno la maggioranza anche al senato e anche se la maggioranza semplice non basta, il fatto che Trump si sia squalificato così tanto con i comportamenti degli ultimi mesi e soprattutto del 6 gennaio potrebbe portare molti suoi colleghi di partito a votare contro di lui. E comunque un obiettivo secondario dei democratici, se il procedimento non terminasse entro il 20 gennaio, sarebbe la sua pubblica condanna politica.

 

Dopo l’assalto sono stati infatti numerosi i repubblicani che hanno preso le distanze dal presidente, ma nelle ultime settimane Trump sembrava quasi voler esasperare i rapporti col suo partito.

Per lungo tempo Trump è riuscito a egemonizzare il partito e a soffocare le voci contrarie al suo interno. Soltanto nel corso del 2020 hanno iniziato a uscire fuori molto timidamente. I dissensi nei suoi confronti sono esplosi prima all’interno del gabinetto: nessuna amministrazione in precedenza aveva avuto un simile ricambio interno come questa. Poi i comportamenti di Trump, soprattutto negli ultimi tempi, sono stati talmente fuori norma, talmente contrari a ogni convenzione, a ogni regola scritta e non scritta, spesso addirittura ai limiti della legge, che la fronda nei suoi confronti è diventata progressivamente più forte.

È assai indicativo il comportamento del vicepresidente Pence e del capogruppo al senato Mitch McConnell che dopo avere sostenuto Trump fino all’ultimo momento, quando sono stati chiamati a ratificare l’esito del voto o andavano contro la legge oppure sconfessavano Trump. E lo hanno sconfessato, facendoselo ovviamente nemico. Hanno salvato la faccia, pur facendo la figura degli opportunisti, e subito altri ne hanno seguito l’esempio.

 

Dell’attacco resteranno a lungo nell’immaginario collettivo numerose immagini, come la bandiera confederata che per la prima volta è stata agitata in Campidoglio.

Questa è una delle problematiche più grandi sul piano ideologico-politico che Joe Biden e Kamala Harris si trovano di fronte. Nei decenni che hanno preceduto l’ultimo le bandiere confederate hanno continuato a sventolare sui Campidogli di molti stati del sud, nonostante molte organizzazioni afro-americane ne avessero sempre chiesto la rimozione. Poi è arrivato un punto di crisi: una parte delle organizzazioni della destra estrema legittimata da Trump ha preso la bandiera confederata, con tutte le implicazioni che questa bandiera comporta, come simbolo e affermazione della propria identità. Un’identità razzista, suprematista bianca che fa riferimento diretto al passato schiavistico e post-schiavistico del sud degli Stati Uniti. Lo stesso vale per molte delle statue e dei monumenti ai generali e ai politici confederati che sono stati ignorati o passati sotto silenzio per oltre cento anni: poi è arrivato il momento in cui i movimenti di riforma, non più soltanto quelli afro-americani, ne hanno chiesto la rimozione. In molti casi le bandiere sono state ammainate dai luoghi del potere politico e molti monumenti sono stati rimossi, spesso incontrando resistenze violente da parte di razzisti e suprematisti bianchi (si ricorderà l’episodio di Charlottesville nel 2017, quando uno di loro travolse e uccise una delle manifestanti antirazziste-antifasciste)

 

Foto di Garry Knight da Flickr

 

Le sollevazioni degli scorsi mesi hanno contribuito agli straordinari numeri raggiunti da Biden e da Trump durante le elezioni: eppure questa vastissima legittimazione elettorale si accompagna a una sfiducia sempre maggiore nel sistema democratico da parte dei sostenitori del presidente uscente.

Anzitutto va sottolineato il dato demografico: il numero degli aventi diritto al voto è così alto perché la popolazione ha continuato a crescere. Poi però c’è un insieme di ragioni che hanno contribuito a far salire la partecipazione al voto. La grande sollevazione composita, intergenerazionale e inter-sezionale, avvenuta in seguito all’omicidio poliziesco di George Floyd il 25 maggio, si è prolungata per gran parte del 2020. Questa grande mobilitazione ha coinvolto metropoli, città e in misura minore anche centri più piccoli in tutto il paese, creando partecipazione e una rinnovata sensibilità politica intorno a molte delle questioni che sarebbero state in ballo nelle elezioni del 3 novembre. Questo è uno dei dati più immediati, altri dati meno immediati riguardano l’opposizione a Trump che c’è stata sin dalla sua elezione nel 2016.

Le mobilitazioni, soprattutto delle donne (che sono state le prime a manifestare contro Trump, già il 21 gennaio del 2017, il giorno dopo la sua proclamazione), ma anche dei giovani, degli ispanici e degli afro-americani; le rivendicazioni per i 15 dollari all’ora nei luoghi di lavoro… Tutte queste cose hanno lasciato dei segni. Poi ci sono state le vicende della pandemia, che hanno messo in luce la passività e l’indifferenza di Trump e contemporaneamente hanno reso possibile un fenomeno del tutto inaspettato: pur rimanendo a casa, una quantità imprevedibile di persone ha potuto comunque esprimere il proprio voto per posta, aggirando così anche quei tentativi di allontanamento del voto (la voter suppression) che i repubblicani specialmente mettono in pratica da anni contro le minoranze e le fasce povere della società.

Infine, se tutti gli elementi citati hanno contribuito alla sensibilizzazione e alla mobilitazione di molte persone, soprattutto da parte democratica, in risposta hanno provocato una reazione e quindi una analoga contro-mobilitazione da parte dei repubblicani. Tutti hanno capito che il voto sarebbe stato decisivo. Il dato interessante è stato che nel voto per la camera dei rappresentanti i repubblicani hanno preso più voti (47,7%) di quanti ne ha presi Trump (46,8) per la presidenza, a testimonianza, da una parte, che il partito repubblicano rimane forte in un paese profondamente diviso e, dall’altra, che a novembre la “presa” di Trump sull’elettorato conservatore aveva già iniziato il suo calo.

 

Quali possono essere le sfide più urgenti per l’amministrazione Biden, anche per riportare il paese a una normalità dopo gli anni eccezionali della presidenza Trump.

Una delle prime cose che i democratici Biden e Harris dovranno fare è affrontare i problemi della pandemia, totalmente fuori controllo, e quelli relativi a una situazione economica molto grave. La disoccupazione ufficialmente si attesta intorno al 7%, ma nella realtà è più alta e con grosse diversità dettate ancora dall’appartenenza etnica e razziale e dalla collocazione sociale. Questi, a cui si collega la questione dei sussidi di emergenza lasciata irrisolta nel 2020, sono i due grandi problemi che Biden dovrà affrontare immediatamente.

Subito dopo è possibile ipotizzare che assisteremo a un deciso intervento riguardo la legislazione del lavoro: Biden lo ha ripetutamente promesso. Al momento negli Stati Uniti la legislazione del lavoro è fortemente contraria alle organizzazioni sindacali e di base. Biden ha affermato più volte di essere intenzionato a modificare tutto ciò e di voler favorire invece la possibilità di costruire organizzazioni dei lavoratori all’interno delle aziende e di attuare gli scioperi di solidarietà, ora proibiti. Infine c’è tutta una serie di altre iniziative di cambiamento che vanno dai cambiamenti climatici e la protezione ambientale a quelli riguardanti i rapporti internazionali.

 

Anche sul piano della politica estera c’è un forte bisogno di normalizzazione.

Il più importante riguarda i rapporti con la Cina. Biden non sarà più tenero di Trump, ma avrà un atteggiamento meno ondivago, più coerente e stabile. Anche più cauto, considerando che la Cina ha appena realizzato un grande sistema di rapporti economici in tutta l’area del Pacifico da cui gli Stati Uniti sono esclusi. La nuova amministrazione ridefinirà la politica nei confronti dell’Europa, dell’ONU e delle sue organizzazioni e della NATO; rientrerà nei accordi di Parigi sul clima e cambierà l’atteggiamento nei confronti di gente come Orbàn, Bolsonaro e simili.

 

Il problema è che difficilmente gli Stati Uniti, dopo quattro anni di Trump e le scene di Capitol Hill, potranno vantare la stessa autorevolezza di prima.

Però il responsabile di quanto successo è Trump, quindi Biden ha perlomeno la possibilità di addossare a lui e alla sua presidenza la responsabilità di avere scelto amici poco raccomandabili e portato gli Stati Uniti a un abbassamento della loro credibilità. Certamente l’arroganza e la volgarità e l’andamento irrazionale o comunque ondivago di Trump hanno intaccato l’immagine e il ruolo degli Stati Uniti, lo hanno privato di autorevolezza. La sfida per Biden sarà quella di riuscire a ridare autorevolezza a questo ruolo.

 

Immagine di copertina di Ted Eytan da Flickr