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Una storia scomoda (e un cuscino per racconto)

Giovedì 11 alle ore 18 a ESC, presentazione di Al centro di una città antichissima, con l’autrice R. Mordenti, G. Santoro e S. Pascarella

C’è stato un tempo in cui i film venivano tratti dalle inchieste sociali. È il caso di «Roma Ore 11», film del 1952 di Giuseppe De Santis tratto da un caso di cronaca che innescò un affresco della capitale d’Italia nel dopoguerra. La storia è nota. Su un giornale compare un annuncio di lavoro: «Signorina giovane intelligente volenterosissima attiva conoscenza dattilografa miti pretese per primo impiego cercasi». Si presentano decine di giovani donne, la scala sulla quale le «volenterosissime» si mettono in fila per il colloquio, alla ricerca di un futuro meno gramo, finisce per crollare e la ricerca di un impiego termina in tragedia. Il film prende le mosse dalle indagini compiute dal giovane futuro premio Oscar Elio Petri, che De Santis spedì nelle borgate romane, a ricostruire quelle storie precipitate dalla scalinata. È una pellicola corale, «Roma Ore 11», di quelli che infilano tante storie, tanti personaggi, diversi toni e stili. Ad un certo punto compare un marito che si precipita in ospedale, a soccorrere la moglie ferita. È un personaggio buffo, apprensivo, un po’ impacciato, si dà da fare per rimediare un cuscino. Lei si è persa l’anello, ma lui dice non ti preoccupare lo ritroviamo adesso pensa a guarire. Quest’uomo è un comprimario, voce nel coro neorealista messo in piedi da De Santis con la complicità di gente del calibro di Cesare Zavattini e Rodolfo Sonego (all’epoca i film erano davvero opere collettive). L’attore che interpreta il marito premuroso non è un attore professionista. Si chiama, anzi si chiamava, Renato Mordenti. Deleuze ha notato come lo sguardo del cinema neorealista presenti una successione di situazioni che esulano dall’immagine-azione del vecchio realismo. Il soggetto, il personaggio o il protagonista, non sta mai al centro della scena, non la controlla completamente. Diventa una specie di spettatore. Meglio: un attore tra i tanti che cammina a zonzo e incontra le forme di vita della metropoli.

Renato nel film di De Santis è uno di questi, uno dei molti. Sistema il cuscino sotto la testa di noi spettatori, dice non ti preoccupare per l’anello, combatte nella Resistenza, da giornalista si inventa letteralmente un modo di raccontare lo sport sulle pagine dell’Unità, milita nel Pci, si innamora di una donna proveniente da famiglia agiata, la sposa, viene ucciso dalla madre dei suoi due figli. La sua storia si svolge «Al centro di una città antichissima». ll centro di una vicenda, personale e pubblica, individuale e collettiva, tutta da (ri)costruire. Dentro la Roma del dopoguerra, quella che si voleva pacificata ma che andava componendosi pezzo dopo pezzo attorno ai ruderi dell’Impero e del fascismo. Dentro il Partito comunista dell’epoca, una società nella società coi suoi codici e i suoi moralismi, un mondo fatto per lo più da giovani trentenni che siamo abituati a vedere come adulti e che in questi anni abbiamo conosciuto come grandi vecchi.

Rosa scrive la sua storia. La storia di Renato, di lei, della sua famiglia di uno scorcio di città antichissima. Può comporre questo pezzo di vita soltanto fregandosene dei generi e delle forme, sentendosi libera nelle pagine per definizione imperfette eppure curatissime di un Quinto Tipo: mescola i punti di vista, remixa fonti, adopera registri diversi, forza i tempi, si mette in discussione invece di salire sul piedistallo. La immagino in una stanza da sola, a fare i conti con quello che è accaduto a lei, alla sua famiglia, alla città antichissima. Non ci fa sentire di troppo, non accarezza alcun voyerismo. Non stuzzica gli istinti pruriginosi e nemmeno crea imbarazzo. Non viene voglia di togliere il disturbo, non stiamo neppure spiando dal buco della serratura. La immagino da sola, lei lo scrive (questo libro è scritto anche in prima persona, lei si mette in scena a scartare tracce, prendere in considerazione eventi, ritrovare frammenti). La vedo alla tastiera del computer, al centro di una stanza di una città antichissima, e capisco cosa intende quando, tracciando la risonanza tra il suo lavoro di giornalista e quello di suo nonno, parla di questo scrivere in solitudine. All’epoca del digitale è sempre più frequente scrivere in solitudine. Altro che l’immagine romantica dello scrittore alla ricerca del silenzio assoluto e dell’ispirazione. Rosa Mordenti è una giornalista! Per davvero non più necessario essere in mezzo ai colleghi, consultare archivi, avere bisogno di parlarsi dal vivo, insultarsi per un titolo o darsi una pacca sulla spalla per quell’aggettivo in quel pezzo? Dopo anni passati a scrivere in mezzo al caos di una redazione, quel caos che all’improvviso (per una specie di magia) costruisce zone di silenzio e ticchettii) scrivere da soli non è facile: «Di quella piccola redazione mi manca il casino, mi manca il silenzio operoso che avvolge tutti e che Renato conosceva e amava come me, quando si sta all’opera chini, avvolti in una nuvola di fumo, appesi a una pagina, a un telefono, a un registratore, a un orologio, a un obiettivo condiviso». Ancora oggi, ad anni di distanza, a me che lavoro soprattutto da casa, la mia compagna chiede posso accendere la tv ma a basso volume, posso parlare al telefono, ti dà fastidio? E io rispondo no, che non mi dà nessun fastidio. Scrivere in mezzo alla confusione mi rassicura, mi dà la sensazione di avere ancora le spalle coperte. Qui, al centro di una città antichissima si percepisce ancora questo rumore di fondo che è la pluralità di voci che sta prima, durante e dopo la scrittura e che ripercorre una storia che pure si vorrebbe all’apparenza privatissima. L’autrice semina indizi, a volte ci fa mangiare le mani perché ci fa intravedere storie nella storia e poi socchiude la porta, riannoda i fili con il passato e maneggia il rimosso.

Al centro di questa città antichissima ci sono le parole. In questi tempi confusi molti pensano di poterle stiracchiare, usare a piacimento, occupare come fossero avamposti e scagliare contro il nemico, come se le parole fossero gusci vuoti, neutrali e decontestualizzati. È una tentazione solo all’apparenza performante e postmoderna, nei fatti è una pratica molto maschile, muscolare. Mentre scrivo, attraverso uno scrittoio di vetro guardo al piano di sotto di un soppalco e vedo proprio una nonna. Fa affacciare sull’uscio un nipote poco più che neonato. Lo chiama con soddisfazione «il piccolo tiranno». Usa queste parole con la forza che conferisce un senso nuovo, una potenza che si sprigiona raramente, le pronuncia dalla zona franca da regole, consuetudini e vincoli, che solo questa situazione può creare. In bocca a una nonna persino la parola «tiranno», di solito carica d’odio e sospetto, si riempie d’amore. E allora cosa diventa, in bocca ad una nonna, la parola «omicidio»? Come si traduce in parole l’assassinio compiuto dalla nonna amatissima? Rosa Mordenti prova a capirlo, sistema un cuscino di parole sotto una vicenda scomoda. Soppesa le pagine, le centellina perché con le parole ci lavora e ci ha fatto i conti, a volte anche dolorosamente. Conosce il modo in cui nel corso di una vita e di più vite, dei contesti diversi e delle relazioni differenti, le parole possono trasformarsi, cambiare di segno. Nonno Renato fu ucciso, per gelosia, forse per amore e per esasperazione, a pistolettate da nonna Marisa. Questo libro scaraventa il lettore in mezzo a una matassa di eventi, incroci storici, rappresentazioni: al centro. Riprende lo sguardo del neorealismo sul vivere comune, mostrando (spesso solo facendoci intravedere) tutto quello che si muove sullo sfondo: una città. Affonda con pudore, discrezione e coraggio nella storia e nei rimossi del passato: antichissima.