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Una benevola distopia

“Exit Roma” di Enzo scandurra (edizioni Castelvecchi) tratta della catastrofe urbana reale e come schivare l’apocalisse immaginaria futura fuggendo da Parioli a Tor Bella Monaca 

Capita anche a me di disfarmi di qualche libro inutile ed eccedente i miei spazi, quindi conosco bene le piccole difficoltà di gettarli in contenitori scassati strapieni da settimane e occlusi da una siepe di cartoni e stracci vari e confesso che talvolta mi sono venuti in mente pensieri apocalittici, con i gabbiani al posto dei mostri e cavalieri che evocava Giovanni a Patmos. Familiare, dunque, mi è risultato l’incipit del romanzo distopico di Enzo Scandurra, Exit Roma, quando il protagonista cerca di trasferire con un carrellino i tomi dalla libreria svuotata a cassonetti abbandonati da mesi e intorno a cui i nefandi cordoncini rosso-bianchi adottati dal Comune per buche, monnezzai e alberi caduti si stanno fondendo con la spazzatura accumulata e ospitante gigantesche pantegane.

 

Stiamo in un quartiere che più bene non si può, i Parioli, roccaforte del SÌ nello sventurato referendum costituzionale e poi del Pd, il luogo simbolo di ogni élite e adesso plaga quasi deserta, abbandonata al saccheggio e dove rari abitanti sono sopravvissuti a un’epidemia di febbre tifoidea che sta devastando tutte le grandi città italiane al collasso. Tutti fenomeni, che oggi conosciamo come fastidiosamente quotidiani nel panorama dell’Urbe, sono amplificati in questo romanzo distopico, in cui l’urbanista lascia cadere le braccia e si rifugia nell’unica forma adeguata per la descrizione della tendenza: la fantascienza di genere apocalittico. Le buche che spaccano l’asfalto e dopo la pioggia diventano laghi, le battaglia fra gabbiani, piccioni e mammiferi selvatici, i cani randagi, i black out elettrici e gli autobus in fiamme sono solo il preludio al declino apocalittico delle città, che si manifesta in primo luogo nell’isolamento dei singoli abitanti e nel crollo di quella “amicizia civica” su cui era nata la polis. I condomini ballardiani sono implosi e il caso dilaga da una piazza Ungheria inselvatichita ai Lungoteveri sepolti dal fango tossico. Nel giro delle quattro stagioni che si susseguono la città scassata e gentrificata o gentrificabile che conosciamo si rovescia dall’interno in una Raqqa o Mosul. Amicizia e cooperazione sopravvivono invece in piccoli nuclei in via di estinzione di malati o di emarginati del centro città e rinascono rigogliose nelle periferie più degradate e abbandonate, che ricostituiscono un tessuto solidale riusando i detriti di un universo consumistico che si è autodistrutto.

I superstiti di Parioli decidono allora di muoversi in pick-up verso Tor Bella Monaca, via piazza Quadrata, viale della Regina, San Lorenzo, deviazione per la più sicura via Tiburtina e poi Palmiro Togliatti e Casilina, sventando posti di blocco e trabocchetti, scambiando sacchi di fagioli autoprodotti con lasciapassare. Questo viaggio, però, prima di essere un’avventura materiale che riprende un itinerario alla Stephen King, è un’avventura dello spirito: è la rinuncia a sopravvivere isolandosi dalla catastrofe, consumando parcamente le provviste accumulate, ricominciando a coltivare la terra e a costruire – il protagonista Davide è, come lo scrittore, un architetto e dispiega le sue capacità nel recupero edilizio. Ricostruzione di strutture elementari e soprattutto ricostruzione di rapporti umani, fino alla cauta cicatrizzazione del trauma privato iniziale.

Un romanzo post-apocalittico non è giudicabile con gli stessi criteri di un normale romanzo, va in qualche modo commisurato alle esigenze che lo hanno suscitato, al senso di un mondo crollato che vuole testimoniare con mezzi paradossali: per esempio è quasi leggendaria la difficoltà di ambientarvi una storia d’amore e a questa non sfugge nemmeno Roma exit – ma forse solo Vineland o Cuori in Atlantide sono riusciti ad aggirarla. Qui il dato interessante è come un urbanista, pure assai esperto di problemi e interventi concreti sulla nostra città “bipolare”, sia costretto a parlare di Roma in termini di catastrofe e riscatto al di là di ogni velleità progettuale, come se l’unica strada rimasta fosse quella che attraversa le rovine – ok, l’ha già detto Benjamin, lo sto simulando.

Perfino troppo benevola potrebbe sembrare quella narrazione distopica, poiché la periferia è traversata dalle stesse pulsioni distruttive che al centro si ammantano di spocchia neoliberale e presunzione elitaria, ma a grandi linee il discorso ci può stare: lì, fra ultimi e penultimi che la disgrazia estrema della pestilenza ha affratellato, esistono le condizioni per una riscossa, il materiale umano non è totalmente corrotto e le pratiche della vita resistente si tingono di dignità etica. Sono quelle periferie dove, con le parole di Zerocalcare, «ci manca tutto e non ci serve niente». Farcela con il poco. Nella comunità di Torbella «le persone davano il loro contributo secondo le proprie competenze e le proprie disponibilità, in cambio ricevevano cibo ed elettricità secondo i propri bisogni», si barattano lavori e prestazioni e funziona una valuta locale in sostituzione dell’euro. Un comunismo emergenziale o una fraternité che contrasta il disastro.  La forma-favola segnala che si tratta di una scommessa più che di una presa d’atto, ma la dice lunga sulle prospettive emotive di fine anni Dieci.