COMMONS

Un mondo nuovo comincia da qui

Campagna 2017 a sostegno di comune-info.net

Il sistema del dominio del capitale si decompone in un vortice di caos, guerre e dolore ma non c’è dominio senza i dominati. Quelli che stanno in alto alzano nuove muraglie per nascondersi ma dipendono da noi. Dobbiamo allargare le crepe dei loro muri, resistere difendendo la vita e ricostruirla in una dimensione comune e autonoma del fare. Non siamo in lotta contro il tempo ma per un tempo non più sottomesso al denaro e libero dall’astrazione. Non siamo gli ingranaggi impotenti di un tempo-orologio. La campagna 2017 di Comune. Vi chiediamo di aiutarci a cominciare un’altra volta, ad aprire un nuovo ciclo di cinque anni con una testata ridisegnata. Inviate almeno 20 euro, con bonifico o con Paypal, perché chiunque possa continuare a leggere Comune liberamente. E poi scriveteci (info@comune-info.net oppure nei commenti in coda a questo articolo) qualche riga di adesione: diteci da dove e come pensate che Comune possa cominciare un’esistenza più utile, più bella e più capace di raccontare quel che accade.

Versamenti sul: c/c bancario dell’associazione Persone Comuni

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causale Campagna 2017

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Da dove cominciamo? Capita spesso che le domande abbiano il pregio di esprimere in modo implicito ma semplice la cosa più importante. Nel nostro caso, la volontà di cambiare qualcosa che non ci piace, adesso. Eppure, a volte, quella espressa può sembrare una domanda oziosa, capace di provocare imbarazzo o situazioni di stallo anche in chi manifesta la ferma intenzione di volersi muovere, di voler re-inventare la vita in una dimensione comune e autonoma del fare.

Da dove cominciare, allora? Quando abbiamo cominciato noi, il penultimo giorno di marzo del 2012, poco più di cinque anni fa, avevamo un chiodo. Era quello di Ascanio Celestini, il primo articolo di Comune-info, che spiega in parole povere, come forse direbbe lui, che l’economia capitalista consiste in cinque miliardi di operai che fanno cento miliardi di chiodi e poi se li comprano. L’articolo di Celestini – ce lo aveva regalato proprio per aprire questa piccola avventura destinata al web – neanche a farlo apposta, si chiude con un’altra domanda: “io chiederei a marchionne, ai sindacati e agli economisti: ma noi, con cento miliardi di chiodi, che ce famo?”.

C’era molto di più del pur essenziale “cosa produrre e per chi?” in quella domanda. C’era la fine di un sistema-mondo. Forse è stato per questo che non abbiamo mai smesso di cercare e di porre domande, provando qua e là ad aprire concetti che nell’uso comune risultano imperforabili, tanto sembrano astratti o serrati. Concetti come quelli di tempo, di lavoro, crisi, economia, potere e via via così, in un lungo eccetera.

Cinque anni

In quell’anno, il 2012, dopo quella di Ascanio, le pagine di Comune lette furono 283.940, poco più di mille al giorno. Avevamo fatto giornali per tanto tempo e sapevamo bene di essere una pulce, eppure quella cifra ci sembrò un’enormità. Invece nel 2013 le pagine diventarono 688 mila. Nei tre anni successivi, il numero s’è assestato sempre poco sotto il milione e mezzo, in media 4 mila al giorno.

Cifre relativamente modeste ma impensabili, considerando che nella cucina in cui si mettono in pagina le notizie, le storie, gli approfondimenti, i titoli, i sommari e le immagini di Comune restiamo in tre. Tutti con mille e una difficoltà soggettive, malgrado una certa tenacia nel perseguire l’ambizione di poter raggiungere un giorno un reddito minimo capace di garantire a ciascuno la dignità per vivere.

Siamo ancora una pulce, sia chiaro. Oppure un minuscolo asteroide nell’immensa galassia del web planetario, come scrivemmo nella prima campagna di Comune, ma quando abbiamo festeggiato a Roma il quinto compleanno, il primo giorno di aprile, molte delle 250 persone venute a farci gli auguri ci hanno detto, facendoci pure un po’ arrossire, che per loro questa nostra bizzarra e inadeguata fatica è davvero utile, anzi è molto importante. Il perché, l’hanno scritto, ognuno a modo suo, nelle bellissime adesioni alla campagna 2016, Facciamo Comune Insieme, e in quelle degli anni precedenti: Nome Comune di Persone e Ribellarsi Facendo.

Come quest’anno hanno fatto, in modo splendido, due nostri straordinari compagni di lungo corso: Maurizio Ribichini, illustratore e fabbricante di storie a fumetti, ha disegnato l’immagine chiave della nostra campagnaBarbara Pullierocopy e account di Chiaroweb, nonché appassionata comunicatrice di vini naturali, terra e mondo contadino, ha sapientemente ridisegnato la testata, imponendoci così, finalmente, non l’idea di ricominciare ma quella, ben più impegnativa, di cominciare un’altra volta. Da dove? Da qui, adesso, naturalmente.

Una delle partecipazioni essenziali per chi legge con piacere gli articoli di Comuneresta però quella di aiutarci, almeno una volta l’anno, a riempire le magrissime tasche. Tra un articolo e l’altro, dovete saperlo, non possiamo esimerci dal provare a inventare altre fonti di reddito possibili e impossibili: corsi, progetti, laboratori di formazione, cene, pranzi e merende di finanziamento.

La campagna 2017

La cosa principale, però, è, ed è giusto che resti, – non solo in termini quantitativi – la campagna annuale, la vera garanzia della nostra indipendenza e del rifiuto di vendere o comprare quel che raccontiamo. È per questo che anche quest’anno, vinta l’ennesima esitazione, siamo qui a chiedervi di inviarci almeno 20 euro, perché chiunque possa continuare a leggere Comune liberamente. Chi può mandi qualcosa in più, anche per sostituire – come accaduto negli anni passati – i molti che vorrebbero ma non riescono proprio a farlo.

Scriveteci (qui in coda tra i commenti oppure a info@comune-info.net) anche qualche riga di adesione, per favore. Diteci da dove e come pensate che Comune possa cominciare un’altra volta, un nuovo lustro di esistenza più utile, più bella e capace di raccontare ciò che (ci) accade. Quel che è certo è che noi proveremo a farlo rifiutando di proiettare il passato nel futuro, come suggerirebbe invece l’astrazione di un tempo vuoto, quello degli orologi e dei calendari, per i quali le ore e i giorni sono sempre uguali e girano su se stessi senza prevedere alcuna possibilità di cambiamento.

Quel facciamo ha ancora un senso? La realtà cambia in modo repentino, non si sa mai. Serve ancora un tentativo così fragile di costruire un racconto del fare di chi – invece di limitarsi ad analizzare o a celebrare la rovinosa frana di un sistema che ha governato il mondo per duecento anni, magari rimanendone schiacciato – prova a resistere cercando di trasformare quel che gli cade addosso in materiale vivo per fare un mondo nuovo?

Vivere nel caos

Il sistema-mondo, come lo chiama Immanuel Wallerstein, corre da tempo e in modo evidente verso l’autodistruzione. Basta guardare, per fare un solo esempio, a come discutono e a cosa fanno i governi, tutti i governi, non solo quello di Trump, per i cambiamenti del clima. A cosa fanno, sì, non a cosa dovrebbero fare e non fanno, come dicono i media.

Quel sistema, il sistema del dominio del capitale, si decompone in un vortice di caos, guerre e dolore. Nessun analista può ragionevolmente prevedere cosa ci aspetta ma nessuna persona seria può ancora illudere la gente con il miraggio della riformabilità. La spoliazione e la speculazione sono diventate “naturali”, facili quanto letali, tanto incrostate nelle attività giornaliere dei grandi operatori del mercato mondiale che perfino chi non le considera desiderabili o necessarie a un ordine superiore delle cose – come gli adoratori della governance, della stabilità dei mercati e della crescita infinita – le pensa ormai come un “male minore”, rispetto alle più rovinose tragedie che possono emergere dal caos in cui siamo precipitati.

Può essere molto doloroso vivere nel caos, quando nasci nel posto sbagliato, quando la guerra di tutti gli Stati contro tutti i popoli ti tocca da vicino e non sei sufficiente fortunato da poter difendere la vita. Quella di coloro a cui vuoi bene, la tua e quella di tutti. Di tutti, perché per noi, come dovrebbe essere a scuola, “tutti” resta un pronome bello quanto indispensabile, il solo in cui potersi riconoscere, il primo comandamento del nostro fare.

I muri e le crepe

Per questo ci piace raccontare di quelli che provano ad aprire crepe nei muri. A cosa servono poi, i muri, se non a proteggere l’oscena libertà di depredare la terra e le persone? Li erige una tendenza mondiale consolidata, che definirà sempre più le forme di relazione non solo tra i paesi ma soprattutto al loro interno. Fateci caso, la maggior parte dei muri recenti ha un segno comune: malgrado la propaganda dica che servono a proteggere la gente “per bene” dal crimine o a garantire il privilegio nazionale dall’avanzare dei migranti, i muri servono a nascondersi per proteggere chi sta in alto da chi sta in basso.

L’altra faccia del muro è, paradossalmente, la libertà di movimento che regola gli spostamenti delle merci e delle persone in funzione delle necessità di un capitale messo alle corde dalla sua drammatica crisi. Una crisi generata dall’incapacità di imporci del tutto la dinamica distruttiva dei ritmi di lavoro e produzione necessari a generare profitti sempre più alti e sempre più velocemente. Sì, perché il dominio del capitale dipende da noi, dai dominati. Senza i dominati, quel dominio si sgretola e comincia a franare.

Non lo troverete nei titoli di testa del serial dei colossi mediatici che inventano “l’opinione pubblica mondiale”, salvo quando non si depotenzia in forme innocue di puro spettacolo, ma il rifiuto del saccheggio della terra e della subordinazione della vita al denaro, si esprime ovunque. Lo fa in forme molteplici, ormai quasi sempre imprevedibili e spesso sotterranee.

La miscela tossica

Vive, com’è ovvio, quel rifiuto, nelle grandi proteste sociali dei paesi che non fanno notizia, e cresce ogni giorno nelle piccole crepe aperte con un modo “altro” di vivere. Quelle che, pur tra mille contraddizioni, provano e riprovano a impedire la riappropriazione da parte del capitale della nostra ribellione. È quel “ribellarsi facendo”, tanto caro a noi di Comune, che è, a nostro modesto avviso, la sfida contemporanea, asimmetrica, non speculare alla crisi del mondo intero. Una sfida non rinviabile a tempi migliori, a una futura accumulazione delle forze necessarie alla presa del potere.

Perché non ci pare né sensato né realistico rifugiarsi tra i relitti del naufragio istituzionale. Non possiamo continuare a esigere cambiamenti da chi non li vuole, né alimentare la fantasiosa idea secondo la quale la soluzione dei problemi del mondo arriverà quando a un potere cattivo si riuscirà a sostituire un potere che si presume migliore. Del resto, quel che rimane della forma politica del capitalismo chiamata “democrazia” viene da tempo (e verrà sempre più) rimosso: il solo modo di governare dall’alto, nelle condizioni attuali, è una miscela tossica di astrazione, paura e autoritarismo.

Le classi politiche si contendono ormai quasi solo il controllo relativo che hanno sui dispositivi dell’oppressione. Alimentano, sempre più inascoltate, l’illusione che tutto possa cambiare cambiando gli uomini al governo. Le vecchie forme di antagonismo si rivelano inutili, talvolta perfino dannose, laddove creano delusione, frustrazione e infine un micidiale senso d’impotenza.

Non siamo in lotta contro il tempo

E allora, da dove possiamo cominciare a costruire mondi nuovi? Dall’alto non arriveranno soluzioni. Non verrà creato alcun riparo per mitigare gli effetti della tormenta che infuria sul mondo. Perché, come scrive Johanna Hedva nel bellissimo La teoria della donna malata, “il capitalismo, per restare in vita, non può farsi carico delle nostre cure: la sua logica di sfruttamento esige che qualcun* di noi muoia”.

Un antico retaggio delle culture che hanno formato la gran parte di noi lega l’idea di rivoluzione soprattutto alla conquista di una dimensione spaziale. Da quella più o meno simbolica dei Palazzi del potere a quella più strettamente politica del territorio cittadino o degli Stati. Forse, per una volta, potremmo provare a cominciare da un cambiamento della relazione con il tempo. In fondo, il sistema che affonda nasce con l’era degli orologi che strappavano le persone al sonno per comprare il loro tempo e ridurle all’asservimento del lavoro. Ci sarebbe, naturalmente, anche da riflettere sulla cancellazione del Kairós, il tempo nel suo contenuto di azioni umane, a favore del Chrónos, il tempo scandito dalle lancette e dalle sveglie mattutine.

Quel che più ci interessa sottolineare qui è però la necessità di liberarsi da due credenze a dir poco nefaste. Una ci vuole ingranaggi impotenti di un tempo-orologio, l’altra condannati a una battaglia persa contro i giorni e gli anni che passano. Non siamo in lotta contro il tempo ma per un tempo non più sottomesso al denaro e libero dall’astrazione.

Siamo finiti in un carcere

Negli ultimi decenni, il dominio del capitale ci ha sottratto gran parte di quel che avevamo conquistato. Le libertà politiche su cui si fondava la nostra convivenza vengono fatte a pezzi ovunque, ogni giorno. Siamo finiti in un carcere. Le parole usate da John Berger poco prima di lasciarci descrivono meglio di altre come il potere sia stato costretto a mostrare oggi la sua natura essenziale senza cautele né inibizioni. A esibire, sfidando ogni residuo di pensiero critico, ciò che per tanto tempo ha dissimulato o nascosto in mille modi.

Nella Quarta guerra mondiale, come piace chiamarla agli zapatisti, non possiamo pensare di salvare dalla rovina un mondo che cade a pezzi distruggendo la natura e la cultura. L’espressione suprema della resistenza è oggi la costruzione autonoma di mondi nuovi. Crollo e creazione sono complementari. Eppure, le grandi rivoluzioni sono nate nel mezzo di guerre e conflitti spaventosi, come reazione dal basso, quando tutto stava crollando. Sulle nostre pagine, lo ricordava Raúl Zibechi, annotando però che “i popoli non hanno mai aderito in massa alle alternative sistemiche. Prima lo faceva una famiglia, poi un’altra, e così via”.

Liberarsi dalla propria dipendenza dal mercato e dallo Stato non può naturalmente essere un processo lineare. Ancor meno lo sarà liberarsi dall’idea che qualcuno, altri debbano governare per nostro conto. L’educazione moderna nasce per costruire quella specie di fantasma concettuale chiamato “Stato-nazione” e che si pensava potesse prendersi cura dell’affermazione della dignità nella vita di tutti. Quel fantasma alimenta dunque “di per sé” nazionalismi, populismi, neocolonialismi e relazioni sociali patriarcali e razziste.

Dipende da noi

Possiamo farne a meno, dipende da noi. Coltivare, accompagnare, proteggere e raccontare la speranza non significa affidarsi all’ottimismo né a improbabili progetti costituenti per un vago e sospirato avvenire. Significa, forse, cominciare adesso e da qui a leggere la realtà anche in modo aperto all’imprevedibile. La società, nel suo insieme, è il risultato di un’infinità di fattori e condizioni che il più delle volte non sono messi in conto dalle nostre modeste capacità di analisi. Capacità di gran lunga inferiori, per fortuna, alla potenza di un flusso sociale che non si arresta, di una ribellione del fare quasi sempre sotterranea ma capace di rimettere nelle mani delle persone il proprio destino.

Marco Calabria, Riccardo Troisi, Gianluca Carmosino

Articolo tratto da comune-info

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