ITALIA

«È un momento cruciale per il nostro sistema sanitario». Conversazione con Antonio Faggioli

Medico specialista e libero docente in Igiene e Sanità Pubblica, Antonio Faggioli si è occupato durante fra gli anni ‘70 e ‘80 di prevenzione epidemiologica a livello urbano e di quartiere presso il Comune di Bologna con un pionieristico percorso di medicina territoriale. Proviamo a discutere con lui quali principi dovrebbero guidare il sistema sanitario sui territori, dopo che l’emergenza Covid-19 ha rimesso al centro del dibattito questi concetti

La pandemia ha messo in luce l’eccessiva ospedalizzazione del nostro sistema sanitario e la debolezza della rete medica territoriale. Come si erano sviluppate queste problematiche?

Il Medico di Medicina Generale si è trovato di fatto a ereditare la figura del Medico della Mutua, quando fu istituito il Servizio Sanitario Nazionale nel 1978. Era allora in corso una trasformazione nel versante sanitario dovuta alle preponderanti patologie croniche, per cui il Medico di Medicina Generale si è trovato a svolgere un ruolo non adeguato a un tale cambiamento. Ciò nonostante la Medicina Generale ha saputo dare risposte a problemi complessi, con un grande sforzo di innovazione e adeguamento alle nuove realtà, conservando al tempo stesso la fiducia dei cittadini nel sistema.

Ma negli anni ’90 sorse il problema della sostenibilità del Ssn, a fronte di una richiesta di salute giustamente sempre più esigente e a procedure sempre più complesse e necessarie. Fu scelta la via della “aziendalizzazione” del sistema e, con la riforma del Titolo V della Costituzione, i sistemi sanitari divennero molteplici. Aziendalizzazione e Regionalizzazione portarono in modo determinante a privilegiare nella sanità pubblica la componente “ospedaliera”, forma ritenuta la più semplice ed efficace per assicurare in modo uniforme e accentrato l’organizzazione dei servizi e l’erogazione delle cure, oltre al controllo di bilancio.

 

Che effetti ha avuto una tale riforma? 

Si verificò una marginalizzazione della Medicina Generale rispetto a un sistema che stava acquisendo sempre più aspetti privatistici. I Medici di Medicina Generale non gestivano le aree territoriali, erano esterni alle logiche aziendali, in quanto “figure autonome di liberi professionisti” in rapporto para-subordinato a un sistema che non li contemplava. Conseguentemente si rese necessaria la organizzazione delle Cure Primarie Territoriali, che purtroppo riuscirono a decollare più o meno efficacemente in zone ristrette, nelle Regioni più sensibili agli impegni aziendali e per molti anni inadeguate. A tutto questo si aggiunsero per i Mmg obblighi e procedure pressanti,  tali da non permetterne l’autonomia della libera professione e della autodeterminazione.

Le cure primarie sono rimaste dunque inadeguate rispetto al sistema territoriale e soprattutto non integrate con il sistema ospedaliero.

 

Quali misure si potrebbero adottare? 

Nel dicembre 2019, nel corso della conferenza Stato-Regioni fu approvato il “Patto per la salute 2019-2021” che prevedeva, tra l’altro, la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria e l’introduzione in tutto il territorio non solo di medici ma anche di infermieri di famiglia e di comunità. Nell’attuale situazione epidemica (ma non solo in questa) l’organizzazione territoriale si è dimostrata il punto più debole del Ssn, come è stato dimostrato dalla esperienza negativa della Lombardia focalizzata sull’ospedale rispetto a quella del Veneto in cui ha invece prevalso l’azione nel territorio.

L’assistenza territoriale va dunque strutturata organizzando le diverse parti e portando queste a sintesi unitaria. A tali fini il territorio deve superare il ruolo di filtro, assumendo invece il ruolo di baricentro del sistema sanitario: centro di erogazione, coordinamento, presa in carico e gestione unitaria dei servizi territoriali; l’ospedale diventa così solo una fra le possibili opzioni.

Il nodo irrisolto resta però la mancata integrazione organizzativa delle figure professionali mediche operanti in convenzione (medici di famiglia, pediatri, specialisti ambulatoriali) con quelle mediche e non mediche operanti nei servizi distrettuali e aziendali territoriali. Senza superare tale problema sarà difficile modernizzare il territorio utilizzando efficacemente tutte le risorse professionali già presenti.

 

Il “Decreto Rilancio” del 3 maggio prevede un aumento delle risorse per la sanità territoriale…

Sui complessivi 3250 milioni per la sanità, 1255 sono stati assegnati direttamente al territorio prevedendo 179 milioni alla rete territoriale “Covid”, 734 per il potenziamento dell’assistenza domiciliare e 342 milioni per l’assunzione degli infermieri di comunità a supporto della medicina di famiglia. Per utilizzare tali fondi, le Regioni sono tenute ad adottare Piani di Potenziamento e di Riorganizzazione della rete del territorio.

Tuttavia, come ha rilevato anche la Confederazione Sindacale Medici e Dirigenti (Cosmed), c’è un concreto rischio di assenza di coordinamento tra le Regioni, con risposte operative fortemente diversificate. Solo se vi sarà una rete assistenziale integrata e costituita da professionisti sanitari esperti di sanità pubblica, si potranno dare risposte attendibili ed efficaci. Tale rete sarebbe in via di perfezionamento e completamento da parte dei Dipartimenti di Prevenzione delle Asl e dei Distretti: a questa si fa riferimento per l’esercizio delle attività assistenziali previste dal “Decreto Rilancio”. Se invece le Regioni e le singole Aziende Sanitarie adotteranno logiche monodisciplinari e settoriali, il loro intervento risulterà parcellizzato e inidoneo a fornire risposte unitarie. È quanto avvenuto in Lombardia dove i Medici di Famiglia, senza disporre di una rete di servizi di Sanità Pubblica che avrebbe dovuto essere organizzata dai Dipartimenti di Prevenzione delle Asl, si sono trovati in forti difficoltà nell’emergenza epidemica.

 

Cosa aspettarsi dunque da qui in avanti?

Nei prossimi mesi dovrebbero concretizzarsi rilevanti opportunità per lo sviluppo dei servizi di Sanità Pubblica territoriale. Devono essere individuati alcuni caratteri essenziali di un nuovo sistema sanitario pubblico, capace di fronteggiare le emergenze ma anche la quotidianità della salute e della malattia compresa quella della transizione epidemiologica, della cronicità, delle nuove e vecchie dipendenze assieme alle disuguaglianze di salute che rappresentano le nuove sfide per la salute. Si tratta di ripensare o rilanciare alcuni caratteri che già aveva in sé il nostro sistema sanitario, ma che le politiche di austerity di questi decenni e il modello di politiche genuflesse al new public management degli ultimi anni hanno stravolto.

Ricordiamo che l’Italia ha continuato negli anni la sua politica di austerity iniziata con la crisi del 2008, portando a una riduzione della spesa pubblica ferma nel 2018 al 6,5% del PIL. Fra il 2007 e il 2017 il personale sanitario è stato ridotto di 38.000 unità; i posti letto sono passati da 7,2/1000 abitanti del 1990 al 3,2/1000 abitanti del 2017.

In attesa del vaccino per contrastare la Covid-19, è necessario allora attrezzare un sistema sanitario in grado di fronteggiare le emergenze. Dovrà essere prevista una rinascita dell’assistenza primaria e si dovranno chiarire i ruoli dei Mmg e dai Medici di Sanità Pubblica impegnati nei Distretti e nei Dipartimenti di Prevenzione, ruoli tra loro complementari.

Se tutto questo non avverrà e Regioni e Aziende Sanitarie persisteranno nel reciproco e distinto esercizio dell’organizzazione differenziata, difficilmente si potrà gestire con efficacia non solo l’intervento sanitario nella “fase 2” dell’epidemia, ma pure quello generale della tutela della salute pubblica.

 

Immagine di copertina: Florence Nightingale @ Spallanzani, via Flickr