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“Loro 2”, inno alla resilienza sulle note di Malafemmena

Uscirà il 10 maggio nelle sale italiane “Loro 2”, seconda parte del film di Paolo Sorrentino dedicato alla figura di Silvio Berlusconi. Un film in costume che rielabora episodi della nostra storia recente per far fronte alle grandi ossessioni del suo regista

Il carrello è l’incedere della storia, il dolly il respiro del film, la panoramica la suspense, diceva Bertolucci a proposito di Novecento (film in due parti e fresco di restauro), e più in generale la descrizione del valore espressivo della grammatica filmica. Anche Sorrentino, possiamo ormai affermarlo, ci ha impartito il suo manifesto fatto di corrispondenze precise tra punteggiatura e pensiero. L’eroismo italiano, la parte “buona” di questo paese, dunque, non poteva che essere un lento piano sequenza conclusivo che mettesse a fuoco l’ambiguità irrisolta della prima parte, facendola apparire più chiaramente come un estenuante prologo.

Godono gli dei del mercato davanti a Loro 2. La “strategia temporale” della serie sul Santo Padre immaginario altro non era – forse – che un banco di prova per il lungometraggio spezzato in due parti sul Papi affatto santo e decisamente meno immaginario. Basta vedere il trailer. In esso risiede il nucleo dell’intero film, operazione commerciale in sé, che punta sulla seconda parte per riscattare i malumori generalizzati degli spettatori della prima ora. E il botteghino incassa, perché non si lascia un film a metà.

È infatti Malafemmina cantata a gran voce davanti a un pubblico commosso il fulcro armonico di questo film (basta vedere il primo dei due trailer). ‘Ncopp’a sta terra tutto è il contrario di tutto, raccontano del resto i versi della canzone culto della tradizione italiana. È lui, Totò, a sentirsi offeso mentre offende, solo mentre abbandona, ingannato mentre dice menzogne, come racconta la figlia Liliana de Curtis in un libro sulla travagliata storia d’amore tra il padre e la madre, la donna alla quale la canzone fu dedicata. Totò capovolge la realtà con la sua scanzonata malinconia che in questo mondo, sembra dirci il film, si canta ormai da sola. Viene in mente un’altra storpiatura di Totò: «ogni limite ha una pazienza». Perché anche qui è in atto la stessa capriola, intavolata come un gioco sullo schermo. Quale orizzonte si mette a fuoco dunque? Di certo non l’agire politico, grande assente di questo cinema. Il punto di fuga è allora piuttosto incarnato nella melodia il cui armonico maggiore fa risuonare l’intreccio tra identità linguistica, culturale ed estetica.

Con Loro 2 Paolo Sorrentino e Umberto Contarello raccontano così un mondo che sembra un brutto cinema al quale non crediamo più. Malafemmena è chi la Malafemmina canta, dunque, perché in questo film si solfeggia della persuasione come tecnica politica e imprenditoriale, del perdono come arma di ricatto, dell’altruismo come forma alta di egoismo. L’impero del mezzo bambino mezzo dio prende così forma come astrazione concreta fatta di muri invisibili che solo in pochissimi riescono a vedere e che organizzano lo spazio sociale che pullula intorno al patrimonio.

Silvio ora non è più LUI della prima parte. Torna alla riscossa con il suo vero nome scrollandosi di dosso molti dei tratti della maschera, su tutti il mimetismo linguistico. Il lungo discorso telefonico con cui mette a verifica l’efficacia della sua capacità da piazzista, come terreno di prova per il nuovo palcoscenico politico, si serve di un’oscillazione continua tra le opportune inflessioni dialettali. La cadenza veneta, lombarda, napoletana creano un linguaggio persuasivo, gonfio e poroso, tutt’altro che standard. Sa vendere la possibilità di immaginare, sempre seducente per chi non la possiede o non può permettersela.

Vengono così costruiti e messi in scena gli strumenti culturali della nuova ragione del mondo: per vincere il venditore rifiutato non deve offendersi ma assorbire i colpi silenziosamente e alzare il tiro. È un inno all’individuo performante che lavora su di sé per essere efficiente e versatile. Eccolo l’imprenditore di sé stesso, valutabile attraverso i criteri imposti dal mercato. Quella che i Greci chiamavano metis oggi, nella fabbrica neoliberista, si chiama resilienza. Da piazzista di appartamenti a commerciante di poltrone il passo è breve. In fondo uno scanno stabile vale come una casa con l’antifurto di ultima generazione.

Il maestro suggeritore della strategia per ottenere il suo terzo mandato come presidente è infatti Ennio Doris (interpretato dallo stesso Servillo), fondatore di Mediolanum e artefice, in una bella scena, della mossa berlusconiana della compra dei deputati. È tutta una grande messa in scena, no hay banda. Siamo davanti a un film in costume che rielabora episodi della nostra storia per far fronte alle grandi ossessioni del suo regista: su tutte, la paura dell’invecchiamento e della morte. Del resto è stato proprio Berlusconi ad auspicare un aumento della prospettiva di vita fino a 120 anni, con un post su twitter. Chi meglio di lui può raccontarci la resilienza come salvezza, basta un po’ di chirurgia e rinnovare il detergente per dentiera per ingannare vista e olfatto.

Peccato che per le donne non funzioni, soggette a uno sguardo che le riduce a esseri attraenti solo in giovinezza. Così Kira (Kasia Smutniak, una delle donne considerate più belle del cinema italiano) da ape regina diventa fiore appassito con le lacrime agli occhi, al massimo attricetta sbiadita nei panni di una Lady D su un canale Mediaset, e Veronica (Elena Sofia Ricci) si osserva nuda con la malinconia di chi sta fissando il tempo. È il rapporto con lei il basso continuo di questo progetto ambizioso, che però conserva la linearità come traiettoria. La storia d’amore, ancora attiva nella prima parte tra Silvio e Veronica, ora volge al termine, perché lui resiste e lei abbandona. Del resto, già nel 2011 il film La conquête, biopic su Nicolas Sarkozy, uscito – questa volta nella sezione fuori concorso del Festival di Cannes – alla vigilia di quella che sarebbe stata la sua sconfitta politica contro Hollande, aveva usato il fallimento della vita coniugale come elemento narrativo.

Ecco perché al termine di queste continue capriole vi è il respiro eroico del piano sequenza. Un po’ di salvezza ce la meritiamo. Il Cristo che benedice Roma nella prima scena de La dolce vita, risorge dalle macerie dell’Aquila in questo finale. La gru che calava Titta di Girolamo (sempre Toni Servillo) nel cemento armato ancora fresco nel finale de Le conseguenze dell’amore, ora estrae il corpo della statua dalle macerie. Poi la carrellata sui visi dei vigili del fuoco e dei volontari che seduti mangiano nel buio della notte.

Ultima (s)cena.