ITALIA

Un “buco nero nella città”. Tre giorni contro il Cpr di Torino

Dal 31 gennaio al 2 febbraio, un insieme di realtà della città di Torino ha dato vita a un’iniziativa pubblica per chiedere l’immediata chiusura del Cpr di Corso Brunelleschi. Tre giorni e una notte per provare a rompere il silenzio e l’impenetrabilità a cui sono condannati i migranti reclusi

Da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio, Torino si è mobilitata contro il Cpr di Corso Brunelleschi.

Un’iniziativa nata dall’unione di varie ed eterogenee realtà cittadine, accomunate dalla stessa voglia di mettere in campo le forze contro l’enorme ingiustizia che rappresenta la macchina delle espulsioni dei e delle migranti, di cui Cpr (Centro di permanenza e Rimpatrio) e detenzione amministrativa sono gli ingranaggi principali.

Tra i promotori della tre giorni si contano parti del mondo dell’associazionismo come Carovane Migranti e la campagna “LasciateCIEntrare”, così come i Centri Sociali Gabrio e Manituana e le occupazioni anarchiche Prinz Eugen e Barocchio Squat, più un gran numero di singoli e singole che hanno apportato la loro presenza e il loro aiuto per tutta la manifestazione.

Tre giorni e una notte di assedio sotto le mura di una struttura che da 20 anni divora ed espelle esseri umani, in nome della retorica della sicurezza. Tre giorni e una notte che hanno stretto in un abbraccio i reclusi, spezzando il silenzio e la solitudine che li attanaglia nel quotidiano.

La mobilitazione è nata con l’intento chiaro e semplice di chiedere la chiusura immediata del Centro di permanenza e Rimpatrio di Torino. Un “buco nero nella città”, come è stato definito nei comunicati di lancio della tre giorni, un non luogo che trova le sue fondamenta nella criminalizzazione dei e delle Migranti e appoggia il suo diritto a esistere su basi legali fosche ed ambigue, se non addirittura inesistenti, rendendo ciò che accade dentro quello mura arbitrariamente giusto e non verificabile dall’esterno.

Troviamo la conferma dell’impenetrabilità dei Cpr nella tragica storia di Faisal Hossein, 32 anni originario del Bangladesh, morto il 9 luglio scorso proprio al Cpr di Torino. Faisal al momento della morte si trovava rinchiuso dentro una cella dell’ospedaletto, finto presidio medico, trasformato in sezione di isolamento punitivo. Il suo corpo è stato trovato diverse ore dopo il decesso. Non sapremo mai cosa sia successo a Faisal, perché le videocamere di sorveglianza dell’ospedaletto non funzionano e perché, proprio in questi giorni il PM ha archiviato il caso impedendo alla famiglia di costituirsi parte civile. Faisal Hossein per lo stato italiano è morto e basta, non importano le testimonianze di chi l’ha visto spegnersi piano piano senza ricevere aiuto, né la richiesta dei familiari di poter vedere il corpo e di costituirsi parte civile. Alla sua morte si sono sommate in un brevissimo e al quanto preoccupante lasso di tempo la morte di Aymen, un ragazzo tunisino recluso al Cpr di Caltanissetta e di Vakhtang, morto al Cpr di Gradisca d’Isonzo in circostanze ancora da chiarire, ma che lasciano presagire un possibile nuovo “caso Cucchi “.

Tornando a Torino, il Centro di Corso Brunelleschi attualmente è una struttura quasi completamente distrutta dalle rivolte interne, sono solo tre le aree attive sulle 6 previste, una delle quali è stata ristrutturata in fretta e furia poco prima del 31 gennaio e subito danneggiata da una protesta nella notte del 2 febbraio a margine della 3 giorni. Le condizioni interne terribili – sommate ai periodi di detenzione sempre più lunghi imposte dalla legge Salvini – hanno portato ovviamente a un aumento delle rivolte, represse sempre più duramente dalle forze dell’ordine e parallelamente a un aumento dei casi di autolesionismo e tentavi di suicidio. Motivi per i quali l’attenzione verso questa struttura ha ritrovato nuovo slancio nell’area di movimento torinese e più in generale nell’opinione pubblica cittadina.

La tre giorni ha avuto inizio venerdì 31 con una giornata di mobilitazione diffusa in città, composta da volantinaggi e punti informativi nei centri nevralgici e popolari della città piemontese e al posizionamento di cartelli stradali con la scritta Lager indicanti la direzione del Cpr . Nei giorni precedenti a venerdì 31 è stata sanzionata con striscioni e volantini la Sodexo Spa, società multinazionale francese che gestisce i pasti all’interno del Centro per i Rimpatri, nota alle cronache estere per scandali e abusi nella gestione delle carceri e nonostante tutto fornitrice di servizi mensa a bassissimo costo per le università Torinesi, Politecnico in primis. Sabato 1 febbraio si è aperto ufficialmente il presidio sotto le Mura, iniziato con la consegna della raccolta di cibo e vestiti avvenuta nella settimana precedente. Una quantità notevole di scatole e borsoni hanno varcato il portone blindato dell’ingresso di via Mazzarello e tenuto impegnati per ore gli agenti nei severissimi controlli di routine a cui sono soggetti i pacchi per i reclusi.

 

 

Una solidarietà andata oltre le aspettative, che lascia ben sperare per il futuro. Lo spropositato appartato di sicurezza schierato dalla questura di Torino strideva fortemente con l’atmosfera del presidio. Per tutto il giorno è andato in scena il tentativo di asfissiare l’iniziativa stringendola in una morsa di acciaio, telecamere e strade chiuse, impedendo e scoraggiando la possibilità di accedervi. Un atteggiamento arrogante, finito già nelle prime ore con l’infrangersi contro quel momento di pura e semplice solidarietà e calore umano. Nel primo pomeriggio il presidio è stato raggiunto da una biciclettata partita dal Mercato di Porta Palazzo, zona di Torino storicamente popolare e ad alta densità migrante, oggi oggetto di un grosso piani speculativo e di gentrificazione.

Durante la giornata di sabato la “commissione popolare” composta da un avvocato Asgi, un medico, due attivisti e un giornalista ha lasciato il presidio per dirigersi al portone della struttura detentiva, con l’obbiettivo di ricevere il permesso a entrare e visionare le condizioni dei reclusi, richiedendo al contempo il rilascio dei telefonini sequestrati pochi giorni prima, mossa che ha isolato definitivamente chi è rinchiuso in corso Brunelleschi. La commissione popolare è stata respinta dalla direzione del Centro dopo ore di trattativa, la giornata è continuata con dibattiti, cena solidale, proiezioni e musica. Una ventina di solidali ha proseguito il presidio fino all’alba di domenica, nonostante il freddo e il palpabile nervosismo delle forze dell’ordine.

La domenica, ultimo giorno di mobilitazione, ha visto come protagoniste le realtà più vicine alla società civile, di particolare interesse sono stati i due interventi telefonici, una testimonianza sul confine greco e la rotta balcanica e l’altro dalla Tunisia in lingua araba, a cui i reclusi hanno risposto con saluti e grida, scavalcando almeno con la voce reti e muri che li separano da libertà e affetti. La tre giorni si è conclusa con le performance live di musicisti sensibili al tema, disposti a mettersi in gioco contro quel dispositivo inumano con la pratica che più amano, la musica.

La tre giorni contro il CPR è stato un buon passo, ma nonostante tutto un passo troppo piccolo per l’obiettivo che ci si è posti. Il lavoro da fare è ancora tanto e il cammino è ancora lungo. La domanda ora è: come continuare?