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ROMA

Torlonia: lo Stato, il perdono e la ricompensa

Contrariamente a quanto dice Franceschini, la mostra sui marmi Torlonia in corso ai Musei Capitolini vede lo Stato arrendersi su ogni fronte alle richieste della famiglia macchiata da decenni di abusivismo

A Roma, a Villa Caffarelli, sono esposte in queste settimane 92 statue provenienti dalla collezione Torlonia,“la più importante collezione privata di scultura antica esistente al mondo”, usando le parole di Federico Zeri: in totale la collezione comprende più di 600 pezzi. La mostra ha riaperto il 25 gennaio, dopo mesi di chiusura, e terminerà à a giugno. Sono statue che tornano visibili dopo decenni: sgomberate e ammassate negli scantinati di Villa Albani alla fine degli anni ‘60, ma già nei decenni precedenti rese inaccessibili al grande pubblico.

Negli anni ‘70 iniziò un contenzioso che mise a repentaglio la conservazione delle statue, che ne impedì la fruizione, e che termina, in qualche modo, con questa mostra. Un braccio di ferro tra lo Stato e la famiglia Torlonia, possiamo dire, raccontato da diverse testate (ma non, come già notato da altri, nel catalogo della mostra). Il Ministero dei Beni Culturali, nella persona del ministro Dario Franceschini, rivendica, legittimamente, di aver portato alla conclusione questo contenzioso, questo braccio di ferro. Ma chi ha vinto il braccio di ferro? Hanno vinto tutti, come vorrebbe la narrazione ministeriale?

La storia e la collezione

La storia recente della collezione è in breve la seguente: il Museo Torlonia che esponeva la collezione presso Palazzo Torlonia in via della Lungara già dalla fine ‘800 diviene sempre più difficile da visitare, nessun catalogo viene pubblicato dal 1881 in poi, la collezione diviene sempre più inaccessibile fino a quando, con gli avvenimenti legati alla seconda guerra mondiale, di fatto chiude al pubblico. Lentamente il grande pubblico perde ricordo e informazioni sulla collezione, finché, nei primi anni ‘70, Alessandro Torlonia la fa sgomberare gli spazi del museo per ottenere 93 appartamenti abusivi. Le statue vengono ammassate negli scantinati.

Se oggi possiamo parlare di tutto ciò e della collezione, lo dobbiamo soprattutto a uno straordinario personaggio quale fu Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, che riuscì a ottenere un’ispezione e appurare lo stato indecente in cui versava la collezione.

Iniziano da lì una serie di vicende giudiziarie, così riassunte da Maria Serna Palieri su L’Unità nel 2003: “Nel gennaio del ’77 si svegliò un pretore, Albamonte, e sequestrò il palazzo, gli affitti e, su denuncia della Sovraintendenza archeologica, la collezione. Ma nel ’78 arrivò la prescrizione per il reato edilizio e un’amnistia per il reato contro il patrimonio storico-artistico.

Piazza Torlonia ad Avezzano (da commons.wikimedia.org)

Ma il Torlonia non si accontentò: voleva l’onore perduto, cioè l’assoluzione piena. Nel ’79 la Cassazione respinse la richiesta, con una sentenza che ben descriveva la sua incuria talebana verso opere «stipate in maniera incredibile e addossate l’una all’altra, destinate a sicura morte dal punto di vista culturale», in «locali angusti, insufficienti, pericolosi». A scriverne, tra gli storici dell’arte, fu solo Giulio Carlo Argan.

Il Ministero mandò in ispezione anni dopo, nell’82, una commissione di archeologi, che testimoniarono la pazzesca situazione, ma aggiunsero – e siamo nel paradosso – una stima della cifra da pagare, se lo Stato voleva salvare la collezione: alcune decine di miliardi di lire dell’epoca, da versare all’autore della distruzione. Italia Nostra scese in campo, con una campagna basata sul principio che quella collezione doveva andare allo Stato, invece, gratis: perché il principe, in realtà, in base alle leggi, avrebbe dovuto pagare penali enormi per il danno che aveva procurato”.

Iniziano poi due percorsi legislativi. Il primo, promosso da Antonio Cederna con la sinistra, negli anni ‘90, doveva portare la collezione a diventare pubblica, tutelata e visibile, senza compensazioni.

Un secondo, più accomodante, sempre nel solco delle proposte di Cederna, nel 2002, avrebbe dovuto sancire il passaggio della collezione in mani pubbliche in cambio di una sanatoria per i 93 appartamenti abusivi. Ma in entrambi i casi, i cambiamenti politici impedirono alle proposte di diventare legge.

Da allora, ogni tentativo di far passare la collezione alla proprietà pubblica finì in un nulla di fatto. Fino a oggi. Sì, perché se il Corriere della Sera nel 2016, con lo sblocco della trattativa tra Stato e famiglia Torlonia, titolava “oggi vince Antonio Cederna”, dati alla mano viene da chiedersi se sia realmente così.

Con Franceschini cambia tutto

Un repentino cambiamento si registra infatti con l’arrivo al Ministero di Dario Franceschini, nel 2013. Inizia una trattativa, con la mediazione di Gino Famiglietti e del nipote di Alessandro Torlonia, Alessandro Poma, che porta l’anziano Torlonia a rinunciare alle velleità di vendita della collezione all’estero (provati sono i contatti con il Getty Museum) e, in pochi mesi conduce a un accordo con lo Stato.

Dario Franceschini (da commons.wikimedia.org)

Alessandro Torlonia nel 2014 crea una Fondazione che dovrebbe occuparsi della gestione della collezione. La Fondazione Torlonia, secondo il loro sito, “nasce per volere del Principe Alessandro Torlonia, con  lo scopo di preservare e promuovere la Collezione Torlonia e Villa Albani Torlonia “eredità culturale della Famiglia per l’umanità” da tramandare alle generazioni future.

Insieme, oltre ad essere un eccezionale patrimonio artistico, riflettono alcuni momenti fondamentali della nostra civiltà, della storia del collezionismo, dell’archeologia e del restauro: la Collezione Torlonia in quanto immagine di un significativo spaccato della storia del collezionismo di antichità e Villa Albani Torlonia, sublime testimonianza di unità di ragione e natura, in quanto intatta rappresentazione di gusto settecentesco”.

Secondo l’accordo con lo Stato, sancito nel 2016, la Fondazione Torlonia s’impegnava a esporre parte della collezione in una mostra temporanea, nel 2017 e successivamente in un edificio pubblico a Roma.

Ci sono dei ritardi, dovuti al decesso di Alessandro Torlonia e alle liti familiari per l’eredità, che portano a un sequestro (nel 2018) e a un dissequestro (nel 2019) della collezione, ma nel 2020 la mostra vede la luce.

Cos’è cambiato tra 2003 e 2015? A guardare le evidenze, sembra presto detto: cambia l’atteggiamento dello Stato nei confronti della collezione. Dal 2015 non si parla più, infatti, di passaggio della collezione in mano pubblica. Alla presentazione della mostra il 18 ottobre 2019 il ministro Franceschini ha annunciato che «autorevolissime richieste stanno arrivando da tutto il mondo» per esporre la mostra dopo la chiusura, mentre lo Stato «è favorevole a mettere a disposizione un proprio immobile nel quale le sculture, che resteranno di proprietà Torlonia, saranno esposte in modo permanente».

Insomma, non solo le sculture sarebbero rimaste in mano alla famiglia (in realtà passano a una fondazione bancaria, ma sempre nell’orbita della proprietà privata e facilmente recuperabili al patrimonio familiare), ma lo Stato avrebbe messo a disposizione i locali per l’esposizione, per poi consentire alle statue stesse di uscire dall’Italia.

Un cambio di paradigma radicale rispetto ad Antonio Cederna. Resta da chiedersi: chi avrebbe guadagnato cosa dall’esposizione, se le statue fossero rimaste alla Fondazione Torlonia?

Musei Capitolini (da commons.wikimedia.org)

La mostra e il futuro

Dal sito dei musei capitolini, è facile capire le caratteristiche della mostra: «La mostra è il risultato di un’intesa del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo con la Fondazione Torlonia e nello specifico, per il Ministero, della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio con la Soprintendenza Speciale di Roma. Il progetto scientifico di studio e valorizzazione della collezione è di Salvatore Settis, curatore della mostra con Carlo Gasparri. Electa, editore del catalogo, cura anche l’organizzazione e la promozione dell’esposizione.

Il progetto di allestimento è di David Chipperfield Architects Milano, nei rinnovati ambienti del nuovo spazio dei Musei Capitolini a Villa Caffarelli, tornati alla vita grazie all’impegno e al progetto della Sovrintendenza di Roma Capitale. La Fondazione Torlonia ha restaurato i marmi selezionati con il contributo di Bvlgari che è anche main sponsor della mostra».

Riassumiamo quindi: lo Stato mette a disposizione e adegua i locali a proprie spese; Electa, una società privata, organizza la mostra e pubblica il catalogo (che venderà moltissimo, essendo il primo catalogo della collezione dal 1881); Bulgari paga i restauri. Electa, società privata, e Zètema, società privata a partecipazione pubblica, curano organizzazione e introiti della biglietteria e dei servizi della mostra. Un terzo degli introiti di biglietteria va alla famiglia Torlonia. Lo Stato, trattandosi di una collezione privata, non prende neppure i diritti sull’utilizzo delle immagini pubblicate nel catalogo. E poi, come dicevamo, permetterà a questa mostra, privata, di rilanciarsi all’estero.

La cosa più preoccupante, però, è che questo strano disequilibrio di spese e guadagni non sembra si limiti alla mostra in essere, dato che Dario Franceschini ha già parlato di concedere un edificio pubblico per l’esposizione della collezione.

Si sta parlando del centralissimo Palazzo Rivaldi, tra il Colosseo e i Fori Imperiali, per il restauro del quale sono già stati stanziati 35 milioni di euro di fondi pubblici.

Il museo sarà pubblico? La collezione sarà pubblica? O, come sembra chiaramente trasparire dalle dichiarazioni ministeriali, si metterà a disposizione un palazzo pubblico, restaurato con 35 milioni di fondi pubblici, per esporre una collezione privata garantendo ampi introiti ai proprietari, nonostante negli ultimi 40 anni ci siano state una molteplicità di situazioni che hanno suggerito il procedere a un esproprio coatto? Cosa spinge a un accordo tanto umiliante per lo Stato italiano?

C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui le famiglie nobiliari, per cambiare la loro immagine agli occhi dell’amministrazione e dell’opinione pubblica, sceglievano o erano costrette dopo lunghi bracci di ferro con l’autorità statale a donare o cedere le proprie collezioni. Sono nati così i più grandi e importanti musei italiani. Quel tempo sembra finito, e ora, se donare una collezione non appare più necessario per rivalersi agli occhi dell’opinione pubblica e il mecenatismo ha cambiato volto diventando sponsorizzazione, certo a dettar legge è il soldo.

Questo non lo scopriamo oggi. Non abbiamo alcuna ragione per negare che la famiglia Torlonia abbia tutto l’interesse a ottenere un guadagno, o comunque una tutela, dall’accordo.

Marmi Torlonia (da commons.wikimedia.org)

Ma ci chiediamo che interesse abbia il Ministero dei Beni Culturali a concedere alla famiglia Torlonia non solo il perdono, insomma una sanatoria di tutte le malefatte, ma anche un accordo che chiede allo Stato di mettere soldi, spazi e permessi, in cambio di nulla, se non della rivendicazione di “essere stati capaci di riportare queste statue alla luce”. Ma a beneficio di chi?

Nessuno nega che ai Torlonia, qualora ci fosse una donazione pubblica della collezione, debba essere dato l’onore delle armi. E anche un ringraziamento. Inutile accanirsi su colpe ormai passate. Ma qualora ciò non accadesse, e dato che in questo momento non sta accadendo, garantire oltre al perdono anche la ricompensa (introiti, proprietà della collezione, un edificio pubblico restaurato a spese pubbliche, un tour mondiale) appare davvero troppo. Anche in questi tempi.