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The wolves of Wall Street

La narrazione sul grande schermo, il capitalismo finanziario e il 99%

L’ultimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street è uscito nelle sale italiane a fine gennaio ottenendo un successo di critica e di pubblico, uno dei migliori film dell’anno a detta di molti, anche se non uno dei più belli del grande regista.

E’ possibile raccontare in un film che cos’è (oggi) il capitalismo finanziario tramite una narrazione, illustrando il tutto grazie a fotogrammi, musiche, dialoghi? Forse no e Scorsese nemmeno ci prova ad avvicinarsi ad una complessità tale.

Probabilmente le uniche immagini che riescono davvero a sintetizzare in qualche inquadratura lo “spirito predatorio”del capitalismo sono alcune sequenze del film Rapacità (Greed) un film muto del 1924 diretto da Erich von Stroheim, una delle prime opere di sfida e provocazione alla cultura ed alla società dell’epoca e uno dei film più maledetti e travagliati in assoluto della storia del cinema (la durata iniziale era di quasi 10 ore!), ambientato nella California dei primi del ‘900: le lunghe mani scheletrite che accarezzano delle monete d’oro, oppure i soldi sporchi di sangue nella memorabile scena finale nel deserto della Death Valley.

Nessuno sullo schermo ha mai espresso l’avarizia e la rapacità come il personaggio interpretato da ZaSu Pitts. Stroheim traduce in immagini quelli imperativi del capitalismo predatorio ancor prima della crisi del 29 senza parlare neanche di banche, ma accostandosi alla grande letteratura di Zola o di Dickens, con delle invenzioni visive e innumerevoli simbolismi metaforici di alcune sequenze che sono quanto di più ammaliante si possa riscontrare al cinema.

E proprio la rapacità più assoluta, l’ istinto del predatore, è la “dote” più pre¬ziosa in quella che è la nuova giungla in cui si aggirano i lupi famelici di Wall Street. “Il capitalista ha in comune con l’avaro l’amore della ricchezza come fine a sé stessa. Ma ciò che nell’avaro è soltanto una idiosincrasia, nel capitalista è l’effetto di un meccanismo sociale, del quale egli è soltanto una fra le tante ruote”. (Karl Marx, Il capitale).

Nel film Wall Street – Il denaro non dorme mai di Oliver Stone il mondo finanziario di Wall Street è preso come epicentro delle storture del capitalismo contemporaneo, e ne diviene un simbolo, invece nel suo nuovo film, Martin Scorsese, ha voluto focalizzarsi su un aspetto in particolare della finanza, ovvero quello del suo effetto anestetizzante, alienante dalla realtà, dai rapporti sociali, persino dall’economia stessa. La finanza che diventa negazione e cancellazione del mondo circostante, un’esperienza di intontimento, come gli effetti del quaalude, un farmaco con azione sedativa-ipnotica, droga di lusso in voga negli anni 80: una costante presenza nel film, insieme a molto altro. “Mai essere sobri”, lucidi, mai porsi alcuna domanda.

“Nessuno qui conosce realmente l’andamento della borsa, è tutto fugace, non è reale, polvere di stelle. Noi non creiamo un cazzo, non costruiamo niente, sennò la cosa diventa reale”. La droga vissuta non come esperienza di piacere collettivo, per meglio sintonizzarsi con il mondo, ma come momento di trasfigurazione della propria realtà individuale, per poterla vivere appieno inebriati del proprio estremo edonismo. Istinti, pulsioni monodimensionali, senza desiderio, alla continua ricerca del superamento del limite che alla fine diventa esclusivamente quello del corpo umano nella sua sola fisicità. Anche la sessualità sembra essere guidata dal modello del godimento solitario con la donna oggetto da conquistare.

Scorsese ha utilizzato lenti anamorfiche (che possono provocare visivamente degli artefatti) per girare il suo film, anche per procurare al meglio la sensazione di stordimento continuo.

Gli esseri umani, il mondo intero servono solo per fare soldi, perché tutto può essere comprato, venduto, espropriato, il resto è, appunto, individualismo, non ci sono amici, homo homini lupus, ma non solo.

Scorsese costruisce il film (3 ore, ma probabilmente poteva essere più breve), come un racconto in soggettiva che narra l’ascesa al potere del ventenne Jordan Belfort (basato sulla sua autobiografia), uno straordinario Leonardo Di Caprio, fino al declino (che non sarà veramente tale…), con lo stile di “Quei bravi ragazzi” in cui i nuovi gangsters ora sono i broker che hanno contribuito alla crisi economica attuale.

A volte si ha la sensazione che il racconto narrato in prima persona da Belfort e condito spesso di lunghi piani sequenza, sia quasi l’ennesimo prodotto della sua mente e serve a volte il linguaggio esplicito, misogino per riportare tutto a (quella) realtà dipinta senza filtro con tutti i suoi eccessi fatti di orge di sesso e denaro che si confondono di continuo, in ufficio, a casa ovunque, dove regna la massima opulenza. “Come lo fai questo lavoro? Cocaina e troie. La cocaina mantiene il cervello sveglio e le dita sulla tastiera”.

Tutto si basa sull’effimero, perché alla fine, mentre nella sua società fondata dal nulla, la Stratton Oakmont si smerciano le ormai famose penny market “il cliente crede di essere ricchissimo, ma è sommerso di titoli, carta, mentre noi, i broker portiamo a casa il denaro vero e vivo”. E tutto avviene da parte di Belfort e della sua squadra senza mai mostrare nessuna emotività nemmeno nell’attuare le truffe più ciniche, dove lavoratori della classe media vengono convinti, con delle vere e proprie bugie, a investire in aziende quasi inesistenti.

Le penny market, questi titoli denominati le “piccole selvagge” a Londra valgono meno di una sterlina, in Francia meno di un euro e per la Sec americana (l’autorità che vigila sui mercati Usa) sono titoli che quotano sotto i 5 dollari e che non sono trattati a Wall Street. Ci sono delle controindicazioni a possedere penny stock,perché gli investitori possono perdere il 50% dei loro investimenti nello stesso tempo in cui li possono guadagnare, esattamente come nella lotteria, ma, come dimostrano anche i dati crescenti del gioco d’azzardo, soprattutto in tempi di crisi in molti hanno immaginato e sognato di potersi svegliare miliardari grazie a un investimento minimo.

Jordan Belfort rappresenta quasi un archetipo del broker corrotto di Wall Street il prodotto di un capitalismo deviante, che ha portato alla crisi e all’ attuale Nuova Grande Depressione, quello che un po’ contraddice l’etica protestante del capitalismo, arricchirsi con il duro lavoro della propria fronte, perché, Belfort ha passato, invece, la vita a usare soldi creati da altri e dei quali si è appropriato con la truffa.

Infatti il suo leitmotiv è : “prendere i soldi dalle tasche del tuo cliente e metterle nelle tue.” Il rischio è un po’ come è stato a volte ricordato, di immaginare una sorta di capitalismo cattivo che agisce e si arricchisce al di fuori della legalità, un capitalismo eccessivamente eccessivo nei suoi sperperi e in tutto il suo portato esteriore, e di ravvedere, invece, un capitalismo “buono”, democratico, progressista, quello, che, per intenderci potrebbe essere incarnato da uno Steve Jobs qualunque, che vive nella Silicon Valley e ascolta i Pink Floyd e i Grateful Dead. Qualcosa di diverso, insomma, dalla nuova aristocrazia economica (intere dinastie, ormai) che governa il mondo e vive nelle regge di Long Island (quelle in cui già Fitzgerald ambientò The Great Gatsby fotografando l’indifferenza e l’apatia di una intera classe sociale) o Park Avenue e soggiorna l’estate a South Hampton. Quell’area nei pressi di New York in cui risiede il più alto concentramento di miliardari al mondo è una sorta di nuova Versailles in cui, però, i nuovi nobili, al contrario di quell’aristocrazia terriera seicentesca e settecentesca, non ritengono affatto che lavorare a pieno ritmo sia una disgrazia, ma anzi, le ville al mare negli Hampton sono ritenute dei veri e propri hub in cui si concentrano gli incontri “informali” (di operatori finanziari, investitori ecc…) e i futuri movimenti economico-finanziari del mondo della finanza mondiale “che conta” e che vi ruota attorno.

La crociata che Belfort giunto dal Bronx, porta avanti è quella dell’individuo che si è fatto da solo: “io non volevo sopravvivere, ma volevo vivere alla grande. Se non funziona per voi, se credete che io sia superficiale o materialista, vuol dire che siete pigri e andatevene a lavorare per quel cazzo di MacDonald”.

A un certo punto è impossibile non pensare al famoso discorso sull’avidità di un altro famoso personaggio di Wall Street, Gordon Gekko (non è un’invenzione degli sceneggiatori, ma trae ispirazione da un reale discorso fatto dal finanziere Henry Kravis) nel film di Oliver Stone del 1987, in cui si fotografavano gli yuppies in carriera figli dell’edonismo reaganiano.

“L’avidità, non trovo una parola migliore, è giusta. “Greed, for lack of a better word, is good.’‘.Il più ricco 1% del paese possiede metà della ricchezza del paese, 5 trilioni di dollari. Un terzo di questi viene dal duro lavoro, 2/3 dai beni ereditati, interessi sugli interessi accumulati da vedove e figli idioti, e dal mio lavoro, la speculazione mobiliare-immobiliare. C’è il 90% degli americani là fuori che è nullatenente o quasi. Io non creo niente, io posseggo. I do money with money (faccio i soldi con i soldi). E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy? È il libero mercato, e tu ne fai parte: sì, hai quell’istinto del killer…”

Alla domanda posta al Mefistofele-Gekko dal suo pupillo: “Qual è il limite? Quante case, macchine, barche, aerei puoi comprare?

La risposta è che il limite non c’è, si tratta di onnipotenza, di sfidare la sorte e vincere, ogni affare è una partita a pocker, possedere, sottomettere, distruggere, espropriare. Il mantra.

Il discorso di Gekko è quello che qualunque broker ancora oggi deve imparare a memoria, un must, insieme ad una delle letture maggiormente consigliate e utilizzate anche per la conduzione e strategia di marketing di molte aziende di tutto il mondo, L’arte della guerra di Sun Tzu.

E invece gli altri chi sono? Come vengono considerati quelli che “non ce l’hanno fatta?” Solo spazzatura, il rigurgito della società. Mi viene in mente una delle più famose sophisticated commedie degli anni ’30 (la prima ad essere definita screwball comedy) L’impareggiabile Godfrey (My Man Godfrey, 1936), in cui Gregory La Cava mette in scena con vivacità il contrasto tra una famiglia di ignoranti e cinici nuovi ricchi che hanno avuto fortuna con la speculazione finanziaria e un maggiordomo disoccupato, colto e raffinato che impartisce lezioni di educazione, finanza e cultura e che invece ha perso tutto proprio dopo la crisi del 29 diventando un homeless. La sequenza iniziale del film è di un cinismo da antologia, con il protagonista (il sempre affascinante William Powell) che vive dalla parte “sbagliata” di New York, lungo il Queensboro Bridge, presso la discarica, là dove risiedono, in misere baracche, “i dimenticati”, le vittime della Grande Depressione, quando gli si presenta davanti un gruppo di eleganti e giovani ricchi (tra cui la protagonista Carole Lombard) che gli propone di guadagnare 5 dollari ad un solo patto: partecipare a un gioco, denominato “la caccia ai rifiuti (…) qualcosa che è esattamente come la caccia a un tesoro,solo che invece di cercare qualche cosa che serve,si cerca una cosa di cui nessuno sa che cosa fare. Il primo che trova un vero straccione, un vero rifiuto della società e lo porta con se alla gara, vince!

Immagini senza tempo, purtroppo, quando il cinismo e l’arroganza diventano regola di vita. Quindi non si tratta qui solo di narrare l’ascesa e il declino di un opportunista (per quello molto meglio andarsi a rivedere il bellissimo Barry Lyndon di Stanley Kubrick); oppure di analizzare i risvolti all’interno delle relazioni familiari e personali che produce l’”accumulazione originaria di ricchezza” (vedere “Come le foglie al vento”, “Written on the wind” di Douglas Sirk del 1956); oppure di analizzare un vasto e variegato campionario di umanità appartenente al mondo della finanza, della politica, dell’arte (consigliato “Dinner at 8” di George Cukor 1933, feroce ritratto della borghesia statunitense); oppure di come la violenza del sistema prende il posto e si sostituisce alla violenza individuale (utile “Le forze del male”, 1948 di Abraham Polonsky, tra i primi a mostrare anche la collusione tra mafia e grandi corporation).

Il cinema risponde a una continua ricerca di immaginario collettivo, dove “la macchina da presa è uno strumento che trasforma le idee in un lampo” diceva Josef Von Stenberg.

Siamo tutti ancora parte di una narrazione incessante e senza fine, volti, corpi non atrofizzati, che vivono, vedono, pensano, raccontano e reagiscono. E’ la Storia. Possiamo analizzarla secolo dopo secolo, attimo dopo attimo, attraverso libri, musiche, dispositivi tecnologici, che diventano parte di noi. E prendere posizione.