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Una storia d’amore chiamata Totti

Presentato alla Festa del cinema di Roma Mi chiamo Francesco Totti, il documentario di Alex Infascelli sul capitano della Roma. Al cinema fino al 21 ottobre

C’è stato un tempo in cui Francesco Totti non era Totti, ma solo un bambino che giocava sulla spiaggia. È un’immagine molto straniante quella con cui comincia Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, presentato alla Festa del cinema di Roma, con questo bambino paffuto, biondino, che come qualunque altro bambino prova a fare calci ad un pallone più grande di lui su una spiaggia del litorale romano. Il pupone quando era effettivamente un pupo, quando era solo Francesco. Adulto, oltre i quaranta, ci accoglie proprio lui nello stadio deserto, con tuta nera con cappuccio molto semplice, per raccontarci la sua storia. Quasi due ore di voce fuori campo, che si aprono e chiudono con il 28 maggio 2017. Quel giorno, un assurdo e inaspettato rituale laico ha segnato l’addio al calcio di uno dei calciatori italiano più forti di sempre, del simbolo di una città e di una squadra.

 

Quello che gira intorno a Totti è ormai un universo mediale, in espansione: dai libri, inclusi quelli scritti in prima persona, fino alla serie TV in produzione.

 

Si può parlare di un “prodotto Totti”, un prodotto perfettino, spendibile, con la famiglia bella e sorridente, tutte luci e pochissime ombre, una persona pubblica che Totti ha costruito nel tempo, evitando gli eccessi e i comportamenti condannabili dalla morale pubblica – specie fuori dal campo – puntando su una simpatia quasi ingenua (reale? forzata? pianificata? ma ha davvero importanza?).

Il film di Infascelli non è davvero un documentario sportivo né scade nell’agiografico, per quanto la materia spingerebbe in quella direzione, ma che di certo non è neutro: è la storia di Totti, come vuole raccontarla lui, un’autobiografia più che una biografia. Va dato atto al regista di aver controllato il film, di non essersi fatto prendere la mano dall’enfasi e dall’entusiasmo, di non far pesare una conosciutissima voce fuori campo che avrebbe potuto stancare.

Nello spazio del film si segue la traiettoria di Totti calciatore, dagli esordi fino a quel giorno di maggio del 2017 (non dopo, la vita del post non c’è), ma si vedono anche la famiglia, gli amici calciatori ma soprattutto quelli di una vita che lo hanno accompagnato in tutti questi anni. Moltissimo il materiale d’archivio, immagini note di partite famose o meno, ma anche le immagini sgranate degli anni Ottanta, le partite di un Totti giovanissimo e già leader. Ma c’è anche il Totti famigliare, dalle riprese amatoriali del fratello durante la prima trasferta in Inghilterra con la nazionale a quelle con lo smartphone della moglie Ilary Blasi il giorno dell’addio al calcio, alla Roma, all’Olimpico. Un solo reenactment, poco ingombrante e gestito benissimo, il piccolo Francesco che gioca a calcio con gli amichetti e mangia il gelato. Qualche scena forse sopra le righe, con un afflato religioso anche esplicito nel finale, ma tutto si lega nel descrivere una persona che è inevitabilmente anche quello – non solo visto come una figura quasi mistica, ma anche egli stesso devoto (e formule come “grazie a Dio” o “Dio ha voluto” ricorrono nel film).

Emerge il ritratto di un uomo semplice, timido, a cui il successo è quasi capitato, circondato da amici, famiglia, da due donne che lo hanno seguito amato e fatto crescere (la madre e la moglie), dal padre deceduto proprio in questi giorni e da un angelo custode, il preparatore Vito Scala che lo ha gestito fin ore i quaranta anni. La normalità di una persona che balla goffamente festeggiando i 30 anni con scarpe da ginnastica bianche, polo verde e jeans, dopo aver vinto un mondiale.

 

 

Nel film ci sono tante cose e persone. C’è il rapporto con Antonio Cassano, per cui usa solo parole al miele, spiritose, affettuose, e rivedere gli scambi in campo di quei due è non solo un tuffo al cuore ma è l’essenza del romanismo: quello che poteva essere, e non è stato davvero, troncato, interrotto, fermatosi prima dell’esplosione. Mai ‘na gioia. Ricostruisce anche il rapporto complicato con l’allenatore Luciano Spalletti, mantenendo nonostante tutto un grande rispetto. Manca, quasi completamente, De Rossi: si vede sullo schermo, naturalmente, e sarebbe impossibile evitarlo, ma Totti non ne parla mai. Da un punto di vista filmico il film regge bene, scorre, risulta interessante e godibile anche per chi non è coinvolto in questa storia. E chi non è coinvolto può fermarsi qui, non c’è molto altro da sapere.

Non sono molte le date che un o una romanista sceglie di ricordare. Per quelli della mia generazione, una generazione illusa da uno scudetto in età adolescenziale e poi quasi nessun’altra vittoria, sono davvero poche. Di quelle date però ricordiamo tutto, dove eravamo, con chi eravamo, con chi avremmo voluto essere ma erano lontani e allora ci siamo collegati su Skype, chiamati al telefono, mandati lunghissimi messaggi vocali mentre urlavamo di gioia, non credendoci neanche noi che sì, abbiamo recuperato tre gol al Barcellona, o che davvero mezzo paese si è fermato per qualche decina di minuti per salutare Totti. Quel 28 maggio del 2017 infatti ci siamo resi conto di una cosa che quasi nessuno di noi sapeva: Totti non è solo roba nostra. Che quella costruzione del “prodotto Totti”, della persona pubblica affabile e simpatica, era andata ben oltre Roma.

Quasi nessuno immaginava le dirette di SkyTg24 e Rai News, i messaggi degli amici non romanisti che pudicamente ti chiedono come va, quasi nessuno immaginava che i nostri pianti di quel giorno sarebbero stati compresi oltre il GRA. Quel giorno abbiamo scoperto che Totti è nazional popolare, e del resto la serie TV, il film, le pubblicità dei detersivi eccetera.

È l’unico dei capitani romani e romanisti ad aver avuto questo destino, che sicuramente non è toccato a Agostino Di Bartolomei, Giuseppe Giannini, Bruno Conti e tantomeno a Daniele De Rossi. Eppure è anche robba nostra, di noi romanisti, di una città che lo ha amato senza remore, senza senso, senza farsi domande, giustificando (anzi, spesso esaltando) calci e sputi, e per noi romanisti di sinistra anche un qualunquismo di fondo, un’immagine pubblica così poco nostra.

L’amore è reciproco, Totti ama Roma alla follia, con la frustrazione di non poterla davvero vedere, perché tutti lo fermano, «sono diventato un monumento anche io». Racconta che un giorno vorrebbe vedere Roma normalmente, camminare per le strade senza essere fermato, ma non succederà per troppo amore: il desiderio di essere solo un essere umano frustrato da un’esistenza tra normalità/quasi banalità e monumentalità. Del gol che di fatto decreta la vittoria dello scudetto nel 2001, sotto la curva sud, dice che è stato «un lancio d’amore nei confronti della gente e la rete l’ha bloccato». Consapevole anche lui di questo amore, una delle forme d’amore più pure che si possa provare.

Totti è stato un marcatore temporale, una presenza che ci ha accompagnato per 25 anni. Quando davanti allo specchio dice «sto tempo è passato, pure pe’ vvoi però», qualunque tifoso romanista sa esattamente a cosa fa riferimento e rivede il film della propria vita, di quegli anni passati di gioie e dolori pensando che in un modo o nell’altro Totti c’era sempre. Sì Francè, sto tempo è passato pure pe’ noi. Quando nel cinema di periferia (di Roma, naturalmente) dove chi scrive ha visto film è apparsa la scritta “Intervallo”, il pubblico ha rumoreggiato dicendo noooo, adesso no. Ci siamo sempre sentiti così: non interrompete, non ci svegliate, fatelo andare avanti per sempre. È stato la nostra Champions, i dieci campionati che non abbiamo vinto (ma vincerne uno a Roma, dice lui, è come vincerne dieci altrove), è stato tutte le volte che abbiamo provato a non sentirci soli, tutte le volte che pure se siamo eterni secondi ci siamo sentiti primi.

Non ci siamo più ripresi da quel giorno. Forse solo il 28 maggio del 2017 abbiamo scoperto davvero che le cose finiscono. La caducità della vita.