OPINIONI

Dopo il lockdown, ripensare spazi pubblici al plurale

Cosa è successo al nostro tessuto urbano durante il lockdown? E in che modo questa sospensione forzata può favorire l’immaginazione di altri spazi? In questo lavoro dovremo ripartire dallo sguardo dei bambini

A voler considerare la lingua come una vecchia città con il suo intrico di vicoli e piazze, con quartieri dalla genesi remota, con rioni demoliti, risanati e di nuova costruzione, e con sobborghi che sempre più si estendono all’intorno, io potevo paragonarmi a un uomo che, dopo una lunga assenza, non si ritrova più in tale agglomerato, non sa più a cosa serva una fermata, né cosa sia un cortile, un incrocio, un boulevard, un ponte.

W.G. Sebald, Austerlitz, ed. it. Adelphi, Milano 2002

 

Napoli, ottobre 1971: l’architetto e designer Riccardo Dalisi decide di spostare il suo corso di Composizione Architettonica della Facoltà di Architettura nelle strade del Rione Traiano, un quartiere fortemente complesso, dal punto di vista urbanistico e sociale, esito dell’abuso della speculazione edilizia sul bene pubblico. Porta i suoi studenti in questo luogo, abitato da una popolazione emarginata economicamente e culturalmente, per riprogettare oggetti e spazi comuni insieme ai bambini.

L’esperimento è arduo e non privo di tensioni anche violente, ma mira a promuovere la produzione e la riappropriazione dello spazio pubblico attraverso “l’immaginazione creativa dei bambini”, per avviare un’attività educativa basata su un rapporto di scambio reciproco.

Di quel periodo, durato fino all’inizio del 1974, restano riflessioni scritte e una serie di scatti che vedono i bambini impegnati a costruire oggetti e strutture effimere, realizzate con tecniche e materiali poveri e di scarto, come i ferri di armatura degli edifici non finiti.

 

Quelle immagini vitali e potenti dell’infanzia che, con il gioco, interpreta lo spazio urbano e torna a occupare un posto di primo piano nella città, mi sono tornate in mente durante illockdown per l’emergenza sanitaria. Proprio in quei mesi in cui, serrati a casa, i bambini sembravano i perfetti esclusi da qualsiasi tipo di narrazione culturale e politica.

 

Ci pensavo mentre dalla finestra vedevo ragazzini apparire in strade libere dal traffico, con biciclette, palloni e monopattini per riprendersi, in maniera furtiva, il proprio spazio all’aperto. Ci pensavo mentre su instagram scorrevano immagini di bambini alle prese con strade e piazze del centro storico di solito occupate da orde di turisti o veicoli a motore. Le vie, le piazze, finalmente potevano tornare a essere, momentaneamente, il loro campo da gioco. Così come i luoghi più marginali e spesso dimenticati venivano riscoperti per brevi fughe in sordina dalla clausura domestica.

Allo stesso modo, alcune vie di circolazione sono diventate rifugio e luoghi del privato per chi una casa non ce l’ha. Ho visto costruzioni informali prendere piede nello spazio urbano, approfittando della tolleranza del momento, e dipanarsi nelle strade, come fossero strutture permanenti. Con arredi e giocattoli in vista e persino vasi e piante.

 

Cosa è successo al nostro tessuto urbano in questo periodo di forzata sospensione e paradossale libertà? E in che modo questa nuova e temporanea significazione può essere lo spunto per un’esperienza progettuale? Facciamo largo ai bambini, alla loro fame di libero uso della città.

 

Ho un figlio di 8 anni. Mi chiedevo come avrebbe resistito chiuso in casa e lontano dai suoi amici. Stranamente lui, come molti altri, non si è mai opposto, ha vissuto questo lungo momento come se nulla stesse accadendo. Almeno fino pochi giorni fa, quando ha interrotto il pranzo per dire: «Il coronavirus impedisce la natura dei bambini. Correre e giocare, noi esistiamo per questo. Non per leggere libri. Quindi ora basta coronavirus». Così, d’improvviso, con poche parole schiette e sincere, mi ha offerto una sintesi perfetta, capace di rompere in un istante mesi di polemiche, discussioni, riflessioni ardite e complesse che non hanno portato a nulla.

A queste immagini, si sono aggiunte centinaia di foto di tetti e terrazze, nuove piazze dove riunirsi in semi clandestinità e da cui traguardare la città secondo nuovi punti di vista. Riscoprire questi spazi comuni mi ha fatto ripensare al progetto Post-Disaster Rooftops, avviato a Taranto nel 2018, per la sua capacità di prefigurare lo scenario e il dibattito odierno. Qui, il collettivo di architetti Post Disaster Volley Team ha reso protagonisti i tetti della città pugliese, organizzando forme di confronto e riflessione, attraverso conferenze, dibattiti, proiezioni e DJ Set.

I tetti pensati come «spazi agonistici», punti di partenza per lavorare e riflettere sulle «potenzialità d’uso alternativo degli spazi urbani, troppo spesso sottoposti a norme di utilizzo e codici comportamentali che ne limitano il potenziale relazionale. […] I tetti come luoghi che sfuggono a gran parte delle definizioni normative e permettono uno sguardo pluridirezionale sui conflitti che interessano la città».

 

Immaginare, disegnare, costruire «spazi agonistici». Ecco a cosa dovremmo dedicarci come cittadini, attivisti, operatori culturali, artisti, designer e architetti.

 

Provando a seguire lo sguardo dei bambini, per dare vita a una città più vicina ai nostri bisogni fisici e mentali, fatta di vuoti, pause, tempi lenti, spostamenti flessibili e reti di prossimità. Capace di valorizzare le aree verdi così come le zone di circolazione affinché possano essere man mano sottratte al traffico veicolare e restituite a pedoni, ciclisti e mezzi pubblici.

Il dibattito internazionale al momento è molto ricco. Grandi città in tutto il mondo – penso a Parigi, Londra, Sidney, Dublino, Atene ma anche Milano e altri centri italiani – si stanno muovendo concretamente per liberare lo spazio pubblico dalle automobili, per scongiurare il ritorno al traffico della cosiddetta era pre-coronavirus.

Una sfida e una occasione eccellente che non possiamo permetterci di perdere, soprattutto nelle città italiane che da sempre, nel corso della storia, hanno messo lo spazio pubblico al centro di qualsiasi progettazione urbanistica. E così mi auguro che potremo tornare ad abitare le nostre città nella loro interezza, dal centro storico alla periferia, a considerare i nostri monumenti, le nostre spettacolari fontane e scalinate non come opere d’arte da musealizzare ma come elementi e parti integranti di un grande campo di gioco, azione e condivisione.

 

Girando a Roma negli ultimi giorni – una Roma eccezionalmente restituita ai suoi abitanti – ho spesso pensato a come alcune delibere per il “decoro urbano” ci stessero abituando alla privazione di luoghi nati per essere vissuti e utilizzati, al di là di qualsiasi sacralizzazione.

 

Penso a Fontana di Trevi, recentemente restaurata da Fendi e ora maldestramente chiusa da transenne per preservarla dal “degrado”. Una protezione inaccettabile che nega il senso stesso del progetto, dimenticando che la fontana romana è parte attiva della vita e della storia della città. O ancora alla Scalinata di Trinità dei Monti, restaurata da Bulgari e ora controllata a vista dai vigili affinché nessuno vi si possa sedere. «È diventata ‘na scala», qualcuno dice, quando invece quei celebri 135 gradini davano vita a un maestoso teatro a cielo aperto, dove cittadini e turisti si incontravano per sostare, prendere una pausa, conoscersi e guardare il panorama.

Ciascuno di questi elementi, per quanto pregiato, deve necessariamente restare fuori da qualsiasi mistica perché è irrinunciabile tassello dei nostri vasti spazi al plurale. Per tutti.

 

Fotografia di Alessandro Imbriaco, Roma, maggio 2020, Courtesy l’autore