EUROPA

Spagna: un cambiamento instabile

In Spagna, gli scenari politici che si aprono con la caduta di Rajoy e la nomina di Sanchez sono tutti estremamente precari ed indefiniti. L’ambigua posizione del PSOE e gli scarsi margini di manovra del nuovo esecutivo nella direzione di una politica anti-austerità e di rinnovamento democratico, rimettono al centro il rilancio del conflitto sociale

Senza dubbio, vedere il PP scalzato dal potere genera grande soddisfazione. Lo strumento deciso e inaspettato della mozione di sfiducia a geometrie impossibili con il quale Rajoy è stato espulso dalla Moncloa [sede della Presidenza del Governo del Regno di Spagna e residenza ufficiale del Presidente – ndt], è stato particolarmente crudele verso il PP e la sua concezione del potere interamente patrimonialista. Le crisi politiche sono tendenzialmente suscettibili a sorprese e colpi di scena. Agiscono sul piano della rappresentazione della politica che segue una sua logica particolare, ma si inseriscono in un contesto sociale ed economico specifico all’interno del quale dominano determinati rapporti di forza e di potere che definiscono una gamma finita di opzioni possibili. Un aspetto di questi rapporti è la capacità delle élite dominanti di accentrare e unificare i propri interessi verso un’uscita collettiva per evitare un’accelerazione permanente e azioni a breve termine da parte degli attori in rovina all’interno di dinamiche interne al sistema rappresentativo. Gli intoppi sono frequenti e quello di questi giorni è stato esemplare. Fine dei giochi. Ciò che ci aspetta, ovviamente, rimane ancora incerto. Sicuramente migliore di quello che abbiamo avuto finora, ma in nessun caso un governo di “cambio”, se vogliamo dare un significato forte e genuino a questa parola. Sanchez rappresenta sì un ricambio, però instabile e improvviso. Un ricambio auspicato dalla logica parlamentare di un sistema rappresentativo in crisi e non da un’azione di Stato. Un ricambio imbucatosi alla festa, che non gode delle simpatie delle elites politico-finanziarie e dell’apparato statale che scommettevano da tempo su Albert Rivera per indurre la crisi di regime. Come se il “resistenzialismo offensivo” del PP e l’ombra della minaccia neorestaurazionista di Ciudadanos avessero generato anticorpi a sufficienza, non per provocare una rottura del Regime né per forzare una solida autoriforma dall’alto, ma per attivare stimoli improbabili per un’inverosimile uscita serena e non traumatica dalla prolungata crisi istituzionale. L’ascesa di Sanchez incarna un’alternanza imperfetta, quasi inopportuna, che riflette la profondità e i limiti della crisi istituzionale. Un governo del PSOE ne rimpiazza uno del PP, ma in condizioni di debolezza inedite.

 

Personaggio dalle convinzioni ideologiche volubili, il merito principale di Sanchez è stata la tenacia. Per arrivare fino a qui ha interpretato tutti i ruoli possibili, facendo tutto e il contrario di tutto in un brevissimo arco di tempo. Lontano dall’ortodossia social-liberale, nella sua carriera politica non ha mai aderito ad alcun progetto, nemmeno timidamente. Per sopravvivere politicamente nel suo primo incarico di segretario generale del PSOE (luglio 2014 – ottobre 2016) si è dovuto sottrarre a qualsiasi logica di “grande coalizione” con il PP e ha capito che si giocava il futuro nello scontro con Podemos per la guida della sinistra. Dopo aver rassegnato le dimissioni a causa del golpe interno contro di lui, si è visto obbligato a reinventarsi abbracciando una retorica di rinnovamento, di sinistra e democratica, per dare così un senso politico e una visione coerente al tentativo di recuperare la segreteria generale, indirizzando il malcontento della base del partito verso un progetto di rinnovamento di una forza politica il cui mediocre apparato politico faceva vergognare i propri iscritti. Eppure, ai primi di giugno del 2017 ha ancora una volta abbandonato qualsiasi velleità di sinistra e, schiacciato dalla crisi catalana, si è piegato senza battere ciglio alla ragion di Stato. Sicuramente, le sue articolate peripezie in prima linea nel PSOE gli hanno permesso di acquisire un’autonomia relativa reale dal potere economico e mediatico e dall’apparato statale per quel che riguarda la sua politica di alleanze che, quando è giunto il momento, si è rivelata decisiva per poter presentare la mozione di sfiducia.

 

Sanchez è salito al potere senza un piano preciso se non quello di cercare di sopravvivere e di rafforzarsi con l’azione di governo, volta da un lato ad applicare l’ortodossia neoliberale più stretta e dall’altro ad integrarla con strumenti di impatto, reale o simbolico, sul piano democratico, civico e delle politiche sociali. In breve, neoliberismo con palliativi sociali, valori progressisti e de-escalation dell’involuzione politica autoritaria. Proverà a sbrogliare una matassa di proposte, tra le quali l’annunciata riforma della Ley Mordaza [Legge Bavaglio, approvata nel 2015 – ndt], profondamente collegate con il progressismo mainstream classico e che risultano essere tanto ad effetto quanto superficiali, ma non per questo meno necessarie. L’obiettivo del nuovo presidente sarà rafforzarsi da una posizione di potere, rimettere in sesto un PSOE ai minimi termini e riaffermarne l’egemonia nella sinistra mettendo Podemos in minoranza, per poi costituire un secondo governo da una posizione meno precaria. Inoltre, Sanchez non dispone di ampi margini di manovra, che anzi potrebbero ridursi bruscamente di fronte a prospettive di un deterioramento della situazione economica all’interno di una congiuntura delicata di scala europea. Si troverà tra l’opposizione feroce di una destra che controlla il Senato e gode della maggioranza della Tavola del Congresso [organo interno del governo con funzione di governare ed ordinare il lavoro di tutto il Congresso dei Deputati – ndt] e la rivalità annunciata con il PP e Ciudadanos per presentarsi come vero cavallo di battaglia della sinistra. Nel 2004 la destra politica, mediatica e culturale non ha mai accettato il successo di Zapatero dopo gli attentati di Atocha e di Madrid e non accetterà ora la legittimità di Sanchez. Paradossalmente, il vantaggio di quest’ultimo è la confusione strategica di chi gli ha sponsorizzato il potere: Unidos Podemos e gli indipendentisti catalani.

 

Escluso il PP, Ciudadanos è il grande sconfitto del momento. Dato in ascesa folgorante da tutti i sondaggi, doveva solo restare a guardare la rovina di Rajoy e raccogliere i frutti alla prossima tornata elettorale. Gli eventi hanno sicuramente rovinato i piani del partito di Rivera, una forza in generale con poca capacità di azione al di là dello sfruttamento opportunista delle congiunture favorevoli. L’imprevedibilità intrinseca di ogni situazione di crisi delinea due scenari contrapposti per il partito arancione: la possibilità di rimanere relegato a lungo all’opposizione ad osservare ancora una volta il consenso sgonfiarsi come un pallone, se Sanchez riuscisse a stabilizzare la situazione; oppure capitalizzare la sconfitta di un eventuale fallimento di un governo PSOE e diventare il vincitore delle prossime elezioni affermandosi come l’alternativa definitiva al bipartitismo. Non bisogna dare Rivera per morto né pensare che il suo trionfo sia inevitabile, ma bisogna avere chiaro in mente quali sono le responsabilità della sinistra: la ragion di Stato, a cui Sanchez è leale e alla quale sta cercando di avvicinarsi Iglesias, può trasformarsi nella pista di atterraggio di una vittoria di Ciudadanos se il nuovo governo sarà incapace di offrire qualcosa di diverso dal solito.

 

Spronato dalla crisi catalana e trasformato nella scommessa del potere economico e finanziario, il progetto di Ciudadanos è una combinazione di solvibilità modernizzatrice e rigeneratrice business friendly alla Macron, nazionalismo spagnolo identitario, che sfrutta il malcontento sociale, che è inoltre compatibile con un leggero tocco moderno e liberal-competitivo nei costumi e negli stili di vita, come è risultato evidente durante lo sciopero delle donne dell’8 marzo, quando Ciudadanos ha provato (non senza contraddizioni e tratti ridicoli) a smarcarsi dal suo neoconservatorismo tradizionalista anti-femminista. Se usiamo l’inflazionato termine “populista” per Ciudadanos, si dovrebbe tener conto che il suo populismo è neoliberale, nazionalista, per nulla solidale e modernizzatore. Vende alle classi medie e lavoratrici declassate il sogno meritocratico di essere imprenditore  o professionista di successo (a immagine e somigliannza dei propri leader di partito), mobilita seguendo il classico schema dell’identità nazionale come meccanismo di dissoluzione dell’antagonismo di classe, e sfrutta in senso contrario alla solidarietà la frustrazione dei più svantaggiati per direzionarli contro altri segmenti delle classi subalterne. Questo ultimo aspetto, come ha segnalato Nuria Alabao, è quello più recente nella politica di Ciudadanos e l’aspetto più decisivo a medio termine nel definire l’esito o il fallimento del suo tentativo di convertire le simpatie elettorali e mediatiche in un progetto di egemonia socio-culturale più  ampio. Non è scontato che ci riesca e la mancanza di quadri locali, di basi organizzate e di forza complicano considerevolmente l’avanzata in questa direzione. Ciudadanos è nato come un partito costruito nelle platee telivisive e come una imitazione di destra di Podemos, più superficiale dal punto di vista comunicativo e senza la dinamica militante ed attivista che aveva la formazione di Pablo Iglesias ai suoi albori. Si trascina dietro i suoi limiti oganizzativi e quelli fondanti della sua cultura politica. Ma senza ombra di dubbio sarebbe un paradosso piuttosto sarcastico se, mentre Podemos si sta progressivamente svuotando dal basso e sta consolidando una relazione con la società sempre più fondata sul rapporto elettorale e mediatico, Ciudadanos fosse capace di far presa e gettare davvero radici.

 

Podemos giunge sul nuovo scenario condizionato dalla sua crisi interna permanente e per errori importanti rispetto alla sua relazione con il PSOE. Dopo aver reinventato la mappa politica con il suo discorso anti-casta, anti-regime ed aver impugnato il bipartitismo dopo la sua irruzione nel 2014, ha avuto un momento di sbandamento drastico dopo le elezioni generali del 20 dicembre del 2015, ipotizzando come orizzonte immediato un governo di coalizione tra i due partiti. La proposta di governo con il PSOE ha implicato una non-necessaria riabilitazione dello stesso come partito del cambiamento, così come la rottura del precedente asse “forze pro-regime e della casta contro forze costituenti e popolari”, a favore di una ricomparsa acritica e repentina dell’asse sinistra-destra, ma presentato nella sua forma più superficiale, e cioè in base alle relazioni con il PSOE come elemento strutturante. Allo stesso tempo, il giro pro-governamentale verso il PSOE si è dato senza alcun tipo di posizionamento o discussione pubblica e, per tanto, senza la formulazione di un orizzonte di chiare misure antiausterità e democratiche (fatta eccezione per il caso del referendum catalano) che potessero servire per contrastare la politica di entrambi i partiti. Il risultato a partire da questo momento è stata l’incapacità di tenere assieme un discorso anti-bipartitista e una politica unitaria verso il PSOE.

 

Nella nuova tappa che si è aperta, lo scenario peggiore per Podemos sarebbe quello in cui Sánchez capitalizzi i suoi successi, mentre invece Podemos rimanga macchiato dai suoi fallimenti. Evitarlo richiede apparire come una forza autonoma, capace di condizionare il governo ed in simbiosi con le lotte e le organizzazioni sociali. La richiesta rinnovata da parte di Iglesias di entrare nell’esecutivo del PSOE segna, invece, una direzione sbagliata, quella dell’integrazione completa nel campo e nella logica di governo. Al di là di questo, la questione di fondo per Podemos è se contribuirà ad abbassare le aspettative di cambiamento o se invece lotterà per mantenerle alte mettendo al massimo in tensione Sánchez. In un contesto storico come quello attuale, segnato dalla durezza della situazione politica e sociale, dal peso accumulato da decenni di retrocessione senza vittorie decisive e per la mancanza di riferimenti socioculturali alternativi, il principale avversario di qualsiasi progesso di cambiamento sociale è la tendenza al conformismo. E cioè la distanza enorme tra malessere ed espettative. Esso spinge sempre verso una politica del male minore che alla lunga è nemica mortale delle forze come Podemos. Imbellettare il “cambiamento” che propone Sánchez non aiuta a mantenere alta la guardia ed a prepararsi per una politica che sappia essere di impulso e straripamento. Forse non è più di un aneddoto, ma l’immagine dei deputati di Podemos che gridano “Sí se puede!” nel Congresso dopo l’investitura del nuovo presidente è apparsa una miacciosa autoparodia.

 

Ci sono diversi scenari pensabili, ma, schematizzando, si possono delineare tre possibilità. La prima è quella della stabilizzazione relativa della situazione politica da parte di Sanchez. Ciò necessiterebbe di un governo che mantenga intatta la politica economica di Rajoy, condendola con qualche misura sociale di natura secondaria, realizzando qualche cambiamento sul terreno democratico e distendendo la situazione con la Catalogna, ma senza trasformazioni importanti. In un certo senso, la via di Sanchez sarebbe in realtà la più audace nei termini di una balbuziente autoriforma del Regime, dal momento che comporterebbe la neutralizzazione definitiva di Podemos come alternativa e la disattivazione di un indipendentismo catalano disorientato. Ma richiede una audacia che fino a ora è stata assente tanto nella classe politica, come nei cenacoli privati del potere e un consenso mediatico-intellettuale che è oggi introvabile. Il PSOE è troppo debole e Sanchez e la sua squadra hanno pochi vincoli solidi con una oligarchia finanziaria che per il momento non scommette su di loro. Se, alla fine, si verificase con successo un’operazione di Stato attraverso la sinistra (e attraverso il fianco plurinazionale) sarebbe piuttosto inaspettata e quasi accidentale, e, in buona misura, frutto delle debolezze strategiche degli avversari del Regime.

 

La seconda ipotesi è quella di un governo breve, burrascoso e debole, molestato mediaticamente dalla destra, che non ottenga trionfi visibili e sia un mero ricambio transitorio fallito, che si precipiti verso le elezioni senza essersi consolidato. Lì potrebbero avere spazio due scenari contrapposti. Il primo è che se Sanchez si incaglia – stretto tra le vessazioni della destra e il suo stesso busto social-liberal e pro-Regime, stretto tra le aspettative di cambiamento e la sua capacità di soddisfarle – Podemos potrebbe capitalizzarne il logoramento attraverso una tattica di pressione permanente sul PSOE. Un’ipotesi oggi assente nelle previsioni della maggioranza dei futurologi, che se si materializzasse sarebbe dovuta probabilmente più a un’impennata delle mobilitazioni sociali che non ai meriti di una direzione di Podemos che ha abbracciato acriticamente Sanchez, senza essere capace di apparire come un fattore di condizionamenteo reale della sua azione di governo. Il secondo scenario è che un eventuale fallimento del governo di Sanchez sbocchi in una vittoria della destra, di Ciudadanos con ogni probabilità. In questo senso, come tante altre volte nella storia, un pessimo governo “delle sinistre” potrebbe essere semplicemente l’anticamera di una nuova e demoralizzante vittoria della destra. Non di una vittoria di routine, ma dell’ascesa al potere della nuova destra di Albert Rivera con un progetto di rigenerazione restauratrice.

 

La felicità per la fine di Rajoy deve essere così grande quanto la mancanza di entusiasmo per Sanchez. La sfida, adesso, è spingere lui e Podemos ad andare più in là rispetto a dove vogliono arrivare. E farlo dall’autonomia organizzativa e strategica rispetto agli apparati di entrambe le forze politiche. In altri termini, spingere dal conflitto e senza farsi illusioni in quelli che sono specialisti nell’affogarle, senza avere speranza in quelli che sono maestri nel seminare cinismo. L’evoluzione della nuova situazione non dipenderà soltanto dalla capacità del nuovo governo di conciliare la sua agenda neoliberale con un minimo di misure democratiche e sociali per, in questo modo, affermarsi. Ma soprattutto da come appariranno i risultati: se come meriti (e le rinunce come colpe) del PSOE, di Podemos o della mobilitazione civile. Non è equivalmente uno scenario in cui Sanchez segna il ritmo, con uno in cui è Podemos a sembrare di avere l’iniziativa, con un altro in cui la lotta sociale è entrata in scena in modo autonomo, condizionando così i movimenti dei grandi partiti. Il governo di Sanchez sarà doppiamente debole, sia per la grande eterogeneità dei suoi sostegni parlamentari, che per la poca forza del PSOE. Questo è sempre un scenario buono se si sa utilizzarlo. Non puntare stupidamente agli applausi iperbolici che sovradimensionano il significato di ciò che è accaduto e cedono tutta l’iniziativa al governo e agli apparati di partito, né cadere in uno “sconfittismo” fatalista che prepari solamente un resistenzialismo minoritatio auto-sconfitto in anticipo. La sfida, piuttosto, consiste nell’approfittare del cambio di ciclo per togliersi la disperazione per gli ultimi tetri mesi e provare a rilanciare un’agenda di lotta sociale e di ricostruzione socio-politica che interagisca criticamente e senza subalternità con le nuove forze che sostengono il nuovo governo.

 

Articolo apparso sul sito El Salto

Traduzione a cura di DINAMOpress