Sold-out al Valle per Fatti Bene Comune

Nota in margine all’Assemblea 0. La Costituente dei Beni Comuni.

La proposta di relazione tra realtà sociali, giuristi, economisti così da “riaprire quei canali di comunicazione tra società ed istituzioni, che in questi anni sono stati ostruiti con un effetto di regressione culturale che è all’origine della drammatica situazione che stiamo vivendo” si è, al termine della giornata della “riflessione collettiva”, trasformata in un vero e proprio patto.

Un’alleanza tra diversi intorno un percorso.

Una road map che scadenzata in tre stazioni: la democrazia, i beni comuni, la vita dei cittadini, e che si snoda a partire dai dati sociali per ridefinire il rapporto con le istituzioni, mettendo in moto i saperi diffusi e il saper “usufruire” di quelli specialistici.

Un primo passo è già compiuto. I neo-parlamentari hanno ricevuto solo pochi giorni fa, tanto per capire la natura del viaggio, “un pacchetto di proposte di legge”. Un’agenda che tocca: i beni comuni, il reddito minimo garantito, il testamento biologico, l’accesso universale ad internet, l’introduzione di nuovi strumenti di democrazia diretta.

Il lavoro dovrà essere portato avanti avendo chiaro che, nella Costituzione, di beni comuni non si parla. Non ci sono, anche se è possibile rintracciarne in forma embrionale lo “spirito”. I beni comuni sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità. Non sono una “fantasticheria” di alcuni studiosi. È necessario farli riconoscere dalle istituzioni, queste ci sono, non possiamo far finta che non esistano, solo perché «non leggono qualche libro» né si accorgono «che ci sono premi Nobel che hanno parlato della conoscenza come bene comune» (Rodotà). Nello stesso tempo il riconoscimento istituzionale dei beni comuni nell’ambito del quadro costituzionale e normativo vigente è condizione necessaria ma non sufficiente. Occorre sviluppare un’iniziativa propriamente costituente, che faccia della crisi politica e economica un’occasione di trasformazione radicale, in vista del superamento della Repubblica della proprietà.

I diritti costano molto di più a non essere rispettati piuttosto che a non essere attuati.

La riflessione si è così potuta intrecciare, intercalando testimonianze dal “vivo” (attivisti sociali, ricercatori, ma anche le straordinarie parole di Carlo Levi lette da Fabrizio Gifuni) con le relazioni intorno ai temi della Costituzione, del diritto di proprietà (pubblica e privata), della costruzione di un codice della cultura, dell’ambiente, del reddito di cittadinanza.

La Costituzione è il luogo dei valori non “negoziabili” e se i beni comuni non ci sono «non c’è nemmeno l’Unione Europea» (Azzariti). La Costituente a cui si sta lavorando riguarda certo anche la tutela dei diritti fondamentali della persona, intesi però in senso sostanziale e non formale, muovendo dunque dalla critica dei diritti umani per come essi si sono configurati nel costituzionalismo borghese moderno.

Per questo bisogna sottrarsi dalla forma di controllo rappresentata dalla proprietà privata che «schiaccia e subordina la libertà di espressione e partecipazione» (Marella). E’ contro questo dispositivo totalizzante che si battono le occupazioni. Quelle per il diritto all’abitare e quelle come il Valle, il Cinema Palazzo, Macao e le tante espressioni di produzioni di welfare dal basso che hanno portato le loro testimonianze.

I movimenti in questi anni hanno affermato, attraverso le loro rivendicazioni e pratiche di lotta, la necessità di modificare il regime della proprietà pubblica e privata. La proprietà privata, per la legge, è il limite alla proprietà di tutti. E’ la proprietà collettiva a precedere – anche storicamente – quella privata (Maddalena e relativa standing ovation).

Un altro pericolo da cui guardarsi è il “razzismo ambientale” (De Marzo) che – come non pensare a Taranto? – sposta rischi e costi sulle comunità più deboli.

Se lo Stato, privandosi dei beni pubblici, nega di fatto la sovranità collettiva; se alcune istituzioni private hanno espropriatola sovranità statale, dobbiamo parlare di «privanti e non privati, perché ci privano» (Mattei). Piuttosto che correggere la normativa esistente sarà opportuno lavorare su di un Codice dei beni comuni come strumento per valorizzare, all’epoca della crisi delle fonti del diritto statuale, la normatività autonoma dei movimenti.

Ce n’è abbastanza per parlare di un’alleanza tra giuristi e ribelli (Bronzini).

Avverrà per tappe (L’Aquila, Messina, Napoli, Venezia, Roma Cinema Palazzo) con un’attenzione a non utilizzare i vecchi modelli, senza nessuna nostalgia per i modelli istituzionali passati. La vera sfida sarà quella di non chiudere lo spazio che sempre separa le pratiche politiche dalla loro possibile traduzione normativa.