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Smetto quando voglio II. O della rottura del pendolo

Attenzione: pericolo spoiler involontario.

Ieri sera ho guardato “Smetto quando voglio 2″… devo dire che l’ho trovato molto gustoso, penso mi sia piaciuto più del primo (sul cui successo credo molto abbia fatto la brillante scelta del soggetto, così “normale” nel suo essere paradossale).

Intanto devo confessare il mio amore per quei Blockbuster che riprongono “i soliti ignoti” in salsa contemporanea. Per uno come me, le citazioni di Guy Ritchie (almeno su fotografia e sviluppo del soggetto, ma anche in qualche altra chicca tecnica), di Ocean’s Eleven (ma anche Twenty ecc) e persino di Indiana Jones and the Last Cruisade in salsa “logistica del capitale” o “follow the money”, già depongono bene se voglio guardare una commedia senza troppe pretese.

La prima reazione della mia compagna di visione è stata, intorno al quindicesimo minuto, ineccepibile sul piano dell’etica rivoluzionaria: “ma no, ma dai, ma diventano guardie”.

Ma di etica nelle vite nostre, dei protagonisti, delle guardie non c’è traccia. Non ce n’è traccia dove la cercheremmo classicamente, almeno negli aspetti esistenziali della sfera “pubblica”, gli aspetti più “sociali” o meglio più connessi al lavoro, cioé per meglio dire al capitalismo, cioè meglio ancora alla vita… vabbè… forse almeno al procurarsi il necessario per vivere…

E tuttavia nel corso dei successivi 95 minuti o poco più di visione, una cinica, disincantata e sarcastica ironia da etica rivoluzionaria emerge. Uno spirito del tempo che parla non solo dei ricercatori (anche nell’upgrade dei tre “cervelli in fuga” che stanno a dimostrare come “tutto il mondo accademico è paese”). Una visione che parla a me, a noi, forse ancora più di quanto parlasse il primo episodio (magari perché potrei anche io dire “piacere Nicola Carella, ingegnere civile, reati contro il patrimonio e l’autorità”).

Se nel primo episodio l’orizzonte era la stabilità, la realizzazione professionale, nel secondo diventa la libertà, ma non la libertà di ritornare a prima, fuori dal carcere o all’università. Al primo espisodio non si torna, non si ripropone lo stesso obiettivo formale, quella vita viene rifiutata in modo esplicito, magari balbettando ma viene rifiutata.

È la rottura del pendolo burn-out o stress da raggiungimento obiettivi – depressione; la rottura con un’alternanza che governa le nostre vite con i genitori con casa, famiglia, mutuo, auto, ferie, malattia ecc, che abbiamo vissuto per intero la precarietà accettandola come dato di fatto non più discutibile. Una generazione tra i 30 e i 40anni che a volte sceglie forme di vita paradossali almeno quanto quella di Zinni&co.

Quella forma di vita così nostra, fatta di una libertà che rifiuta la normalità claustrofobica della “stessa vita tutti gli anni tutti i giorni fino alla pensione”, perché ha scoperto un’altra libertà che non nasce da altro se non dalla relazione sana con gli altri, con la banda in questo caso, lì dove puoi trovarti su un treno in corsa, inseguito tra fori romani, su una jeep del terzo Reich, lì dove ti vengono riconosciute debolezze, qualità, caratteri, dove ogni errore alla fine è accettato dall’altro e dove gli altri capiscono chi sei e ti lasciano andare via quando senti di doverlo fare. Una banda con un obiettivo che è espressione di qualcosa di proprio anche se innominabile fuori da sé, nella società. Una forma di relazione in cui i saperi diventano centrali, finalmente vitali, qualità peculiari di ognuno come vera esperienza di vita e non più come un CV accademico o un foglio di carta per un presunto “mondo del lavoro”. E questo passaggio accade proprio mentre le vite vengono rifiutate e abbandonate come le montagne di tesi dimenticate nei magazzini degli atenei o i resti decadenti del dismesso polo di ing. nautica che si vede nel film.

E se il capitale come soggettività incompleta risulta essere una condizione in cui una banda può anche costruire una forma di vita altra dalla relazione strumentale o dallo sfruttamento proprio del capitalismo, la polizia, l’accademia, la chiesa appaiono come le più ciniche tra le istituzioni complete, decadenti, bugiarde, volente, marce, sessiste.

E questo fortunatamente ha tranquillizzato la mia rivoluzionaria compagna di visione e mi ha fatto mangiare il felafel più sereno con me stesso e la mia inflessibile morale da ACAB scritto alla fermata del bus.

Un film di “mezzo”, in cui per la “banda dei ricercatori” si valorizza più il termine BANDA che lo status di ricercatori mancati. E questo perché la vita fa crescere, anche se non come ci saremmo aspettati (e questo, personalmente, mi rasserena. Almeno per adesso).

In conclusione consiglio questo film divertente, in cui il crescendo rossiniano di scambi rapidi porta ritmicamente da “volevamo una lavastoviglie” ad un mission quasi eroica da “salviamo il mondo”, in tensione verso il terzo episodio di una trilogia che, secondo me, metterà il regista nella difficile posizione di dover concludere all’altezza dei due precedenti una storia che è “le storie” e, si sa, prevedere il futuro nostro, delle bande, di una generazione che fa muaithai a Bangkok, vende panzerotti pugliesi a Berlino o viaggia per il mondo su un transatlantico di Greenpeace, non è compito facile. Ma forse, perché non ci è mai importato poi davvero tanto del futuro. Sidney Sibilla si prendesse del tempo per osservare ed ascoltare e sarà un successo.

Per adesso buon “Masterclass” .