ROMA

«Si tutelano le frontiere e non le persone». Il caso degli eritrei a processo a Roma

Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è il reato per il quale da 6 anni un gruppo di eritrei è a processo. Per la stessa ragione, attivisti solidali triestini ricevono perquisizioni, la solidarietà è sotto attacco

In pochi giorni la storia di due procedimenti giudiziari a tema migrazioni hanno avuto ampio spazio nei media nazionali. A Roma si è aperto il processo d’appello per un gruppo di eritrei accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e, per lo stesso reato, una coppia di attivisti triestini ha subito una perquisizione ed è sotto indagine.

Abbiamo parlato del caso romano con Enrica Rigo, docente della facoltà di Giurisprudenza di Roma III e Tatiana Montella, avvocata della Clinica Legale della stessa università, che hanno seguito il procedimento fin dal processo di primo grado.

 

Ci potete raccontare la storia di questo processo?

Le indagini iniziano nel 2015. Come Clinica Legale ci trovammo coinvolte in questa vicenda quando ci contattò una Ong tedesca per chiederci disponibilità a seguire un ragazzo – precedentemente ad Amburgo – che era stato colpito da un mandato di estradizione internazionale ed era stato rispedito in Italia per traffico internazionale di esseri umani. Rimanemmo perplesse perché è sempre un reato delicato ma, una volta lette le carte, ci preoccupammo realmente perché questa persona, dipinta come cattivissimo trafficante, in realtà risultava essere implicato in una inchiesta vasta che coinvolgeva i luoghi della solidarietà romana ai e alle migranti, come Ponte Mammolo, Salam Palace, Piazza Indipendenza.

15 persone della comunità eritrea erano infatti accusate di traffico di esseri umani all’interno dello stesso fascicolo. La tipologia di indagini decisa dalla Procura ci preoccupa non poco rispetto alle condotte evidenziate. Vengono fatti appostamenti di intere giornate a piazza Indipendenza per dimostrare che l’indagato, estradato per queste ragioni dalla Germania, aveva distribuito panini a migranti in transito per Roma, oppure aveva aiutato ad acquistare biglietti ferroviari per profughi che dalla Sicilia volevano risalire la penisola. La sua posizione è stata poi stralciata per vicende processuali, ma il procedimento per gli altri imputati va avanti. Ricordiamo infatti che le persone accusate hanno già scontato 18 mesi di custodia cautelare in carcere.

L’impianto accusatorio imputava il traffico internazionale di esseri umani sulla base del reato associativo, accusa che poi fortunatamente cadrà in primo grado. Nella lettura dei fatti da parte della procura, non contano più i singoli gesti materiali compiuti, quanto il fatto che questi vengono compresi in una unica calotta interpretativa che unisce assieme tutte le tratte per muoversi dal Corno d’Africa al Nord Europa. In questa visione aiutare a comprare un biglietto per Milano diventa parte di un unicum che permette ai trafficanti di portare le persone in Europa e quindi chi dà una mano in Italia è automaticamente “associato” a ogni altro pezzo di tragitto percorso. In quest’ottica si criminalizzano condotte quali offrire ospitalità per qualche notte o comprare un biglietto per una tratta interna a uno stesso paese.

Il processo ha poi mostrato altre incongruenze, viene infatti considerato capo dell’associazione Medhanie Tesfamariam Berhe arrestato a Palermo, che poi si è verificato essere accusato ingiustamente per scambio di persona con un altro eritreo, Medhanie Yehdego Mered, quest’ultimo realmente trafficante di esseri umani.
Nel processo in nessun modo sono emersi gli elementi materiali che configurano l’associazione e, infatti, con la sentenza di primo grado gran parte degli imputati viene assolta, grazie al lavoro della difesa composta da giovani avvocate. Le persone “offese”, che quindi secondo l’accusa, sarebbero state “trafficate” hanno poi testimoniato a favore degli imputati, distinguendo tra i trafficanti in Libia e chi ha dato loro una mano sul territorio italiano.

Inoltre tutti gli imputati e le presunte persone trafficate venivano dallo stesso villaggio, erano parte di una rete familiare allargata in Eritrea che per questo motivo aveva continuato ad aiutarsi anche in Italia.

Nella sentenza si contesta che i familiari allargati siano realmente tali, ma questo dimostra l’incapacità di leggere le categorie e i codici culturali che sono ovviamente differenti tra l’Eritrea e l’Italia. Inoltre l’inchiesta viene nominata “Agaish”, termine utilizzato nelle intercettazioni, che viene erroneamente tradotto come “cliente” mentre era utilizzato nel suo significato di “ospite”.

 

Come si è concluso pertanto il procedimento di primo grado?

Durante il processo di primo grado sono cadute, oltre all’associazione, anche le accuse di favoreggiamento della permanenza clandestina sul territorio. Bisogna ricordare che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ha due ambiti. Quando si tratta di favoreggiamento all’ingresso nel paese è perseguibile anche senza fini di lucro, ragion per cui vengono spesso indagate le Ong che fanno soccorso in mare.

Quando le condotte di favoreggiamento riguardano la permanenza all’interno del paese, invece, il reato si configura solo quando c’è un ingiusto vantaggio per gli imputati, e in questo caso non era presente. In tal senso le intercettazioni sono state esemplari. In una di queste, un ragazzo che per lavoro raccoglieva angurie risponde alla telefonata di richiesta di aiuto dicendo che non poteva lasciare il luogo di lavoro. A seguito delle insistenze, l’imputato si reca in bicicletta a incontrare le donne bisognose di aiuto, offre loro da dormire e compra a proprie spese cellulari, abiti e biglietti per proseguire verso Nord.

Il reato di favoreggiamento della permanenza, quindi, deve contemplare un “ingiusto vantaggio” che non è emerso nel processo e nella sentenza di primo grado questo ha fatto cadere le accuse per questi capi di imputazione. Anzi, in molti casi gli imputati hanno rimesso soldi di tasca propria per aiutare le persone ritenute “trafficate” dal pubblico ministero. Per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel territorio, opera inoltre la clausola di salvaguardia per l’aiuto umanitario, vale a dire che non commette reato chi agisce a fini umanitari; questo fine però quasi mai viene riconosciuto quando gli imputati sono cittadini stranieri.

La sentenza di primo grado ha assolto sei persone, quattro sono state invece condannate perché le loro condotte di solidarietà sono state viste come finalizzate all’attraversamento dei confini interni all’Europa e pertanto sono state considerate perseguibili anche in assenza della finalità di lucro.
Se ora però non cadono le accuse, i quattro imputati rischiano di tornare in carcere perché per questo genere di reati non vale la condizionale.

Sono persone a cui il processo sta rovinando la vita ormai da sei anni e c’è il rischio di un effetto intimidatorio per tutta una comunità che ora ha paura anche solo a dare una mano, visto cosa può accadere in conseguenza.

 

A tuo parere, in questo caso assistiamo a una legislazione persecutoria che dovrebbe cambiare, o c’è una forzatura nell’interpretazione della legge stessa da parte della magistratura?

Un po’ entrambi gli aspetti. Quando il reato venne introdotto nel 1998 ci furono prese di posizione critiche. Lo schema utilizzato è quello del favoreggiamento della prostituzione: la prostituzione non è reato, ma perseguendo tutto ciò che le gira intorno, di fatto la si criminalizza. Ricordiamo che sia gli imputati che le persone offese sono state riconosciute rifugiati. Allora, ci si potrebbe chiedere, dove è questa immigrazione clandestina, visto che sono state aiutate persone a vedere riconosciuto il proprio diritto d’asilo?

La legge è configurata in modo tale che il bene giuridico protetto sono le frontiere e non la vita delle persone: questo è il problema di fondo. Si va a colpire intenzionalmente le reti tramite cui le persone si spostano. Altri aspetti, quali le aggravanti possono essere considerate questioni da giuristi, ma il problema di fondo è politico. Anche le imputazioni a Mimmo Lucano erano sull’articolo 12, cioè sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e così pure quelle che hanno colpito i due attivisti triestini.

Le procure hanno però un margine di discrezionalità per decidere se e quando procedere. La configurazione di impianti accusatori sul reato associativo è un grave problema. L’ impressione, anche se non abbiamo ancora letto gli atti di Trieste, è che anche in questo caso sia un’inchiesta vasta che però tiene i pezzi assieme con l’idea di uno stesso disegno criminale dietro le tratte dei migranti.

Non è facilissimo porre il problema politico, perché i trafficanti cattivi esistono davvero, così come esistono persone che fanno solidarietà vera. Si può evidenziare tuttavia un atteggiamento delle procure che, in particolare negli ultimi anni dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, ha messo al centro dell’attenzione i trafficanti ma colpisce condotte molto diverse tra di loro in modo indiscriminato.

 

Quale dovrebbe essere la reazione di chi fa movimento a difesa dei migranti?

Gli atti di disobbedienza radicale delle Ong che fanno salvataggio in mare sono serviti ad attirare l’attenzione sull’impianto penale, così come è importantissimo portare solidarietà in casi quali quello di Trieste. L’altro passaggio è comprendere che, in termini numerici e di conseguenze sulla vita quotidiana, i più colpiti dalla criminalizzazione della solidarietà sono i migranti stessi. Si deve lavorare per portare solidarietà all’attivismo di tutti anche a quello dei migranti. Il processo agli eritrei non ha coagulato il sostegno che altri processi eclatanti come quello a Lucano hanno coagulato.

Ora ci sono però le condizioni perché la presa di coscienza si allarghi. In questo impianto accusatorio possono essere tirati dentro tutti, da chi offre assistenza legale e sociale a chi offre da mangiare; e questo va rifiutato.

Non bisogna poi dimenticarsi che il problema sono le frontiere e la loro invalicabilità. Più sono invalicabili più si rafforzano le organizzazioni criminali perché il business possa essere redditizio. Nel ruolo di movimenti solidali va tenuta l’attenzione sul fatto che il problema sono le frontiere e la criminalizzazione della libertà di movimento.

Intanto il processo contro i quattro imputati continua e il giudice ha convocato la prima udienza di appello per il 10 marzo.