approfondimenti

MONDO

Come si fa. Mobilitarsi durante una pandemia

Anche durante l’emergenza, collettivi, associazioni e singoli individui sono riusciti a esprimere il proprio dissenso, inventando pratiche inedite di contestazione o recuperando metodi già utilizzati in passato. Proviamo a ripercorrere alcuni casi significativi

La pandemia di Covid-19 ha forse interrotto alcune attività produttive e alcune occasioni di aggregazione sociale, ma non la necessità di esprimere il proprio dissenso. Una gestione della crisi a tratti approssimativa e la mancanza di serie politiche di tutela economica hanno fatto divampare il malcontento. Così gruppi, movimenti, sindacati e collettivi in tutto il mondo si trovano di fronte alla domanda su come mobilitarsi senza mettere a repentaglio la propria salute e quella degli altri. Dall’insubordinazione all’assenteismo, dagli scioperi alle azioni online, dagli striscioni ai blocchi stradali con le automobili, la fantasia e l’immaginazione è esplosa in tutto il mondo per non fermare le proteste….

Riconversione delle occupazioni di piazza

Iraq, ottobre 2019 – ottobre 2020

«Questi politici sono il virus», «Ci uccide più il governo della pandemia»… Il primo ottobre del 2019 in Iraq scoppiava un’ondata di proteste destinata a durare, praticamente ininterrotta, ancora fino a oggi e ad attraversare dunque anche i periodi più intensi della pandemia (nel paese mediorientale siamo ora in una fase di picco). Persone soprattutto giovani, ma forti di un vasto appoggio e della solidarietà internazionale, hanno occupato con tende e accampamenti piazza Tahrir a Baghdad chiedendo misure più efficaci contro la disoccupazione. Nel momento in cui si sono verificati i primi casi di Covid-19 i e le manifestanti hanno proceduto a organizzare l’occupazione di piazza in modo che si potessero effettuare anche interventi di primo soccorso e controlli nonché mettere in pratica basilari misure di prevenzione e distanziamento.

«C’è un elemento importante che ci insegnano le piazze irachene, sia prima che dopo la pandemia», ha raccontato durante una presentazione la giornalista freelance Sara Manisera (Internazionale, Espresso) che ha seguito le mobilitazioni. «Nonostante il governo avesse a un certo punto imposto il lockdown, la popolazione irachena è riuscita a mantenere la presenza nei luoghi di protesta auto-organizzandosi. Riuscendo a unire lo sforzo di persone di età diverse ma anche di classi sociali differenti, sono stati creati presidi medici, raccolte di cibo, iniziative di intrattenimento all’aperto… Hanno messo in campo tutta la creatività possibile per garantire continuità alla protesta».

 

(foto di Mustafa Nader, da commons.wikimedia.org)

 

 

Chiusi per ferie

Territorio bergamasco, 24 febbraio – 14 marzo

È bene non dimenticare come il cosiddetto “lockdown” sia stato tale soprattutto per quanti e quante hanno avuto la possibilità di proseguire le proprie attività attraverso il lavoro agile o comunque attraverso diverse forme di impiego da remoto. Ma per molti e molte, anche nei giorni in cui la curva dei contagi toccava il suo picco, “lockdown” ha significato semplicemente continuare i turni in fabbrica o in azienda, affrontare viaggi con mezzi pubblici affollati, svolgere mansioni in ambienti che offrivano pochissime garanzie in termini di sicurezza e salute. Il dibattito su quali fossero le attività da ritenere “essenziali” e quali no si è sviluppato sotto le pressioni di Confindustria e in un contesto per cui migliaia di aziende chiedevano (e ottenevano) di restare aperte in deroga: al 30 marzo se ne contavano in provincia di Bergamo 1800, con circa 400mila donne e uomini che vi si recavano quotidianamente, su una base di un milione e mezzo di lavoratori.

Ma c’è anche chi è riuscito a “fermare” la produzione fin dal primo momento grazie alla lotta sindacale e alla strategia dell’assenteismo. È il caso, per esempio, della fabbrica produttrice di trattori e macchine agricole Same di Treviglio (Bg). Racconta la sindacalista Eliana Como (portavoce nazionale dell’area di opposizione della Cgil “Riconquistiamo Tutto”) nella sua testimonianza contenuta nel libro Il focolaio di Francesca Nava: «A fine febbraio l’azienda ha convocato il sindacato e si accordata per una chiusura di 15 giorni, sfruttando al massimo il contratto di solidarietà già in essere e utilizzando una settimana di ferie dell’anno scorso». Si tratta tuttavia di un esperimento che, se consente ai lavoratori di mettersi in condizioni di assoluta sicurezza dal 24 febbraio al 14 marzo, viene presto additato come un esempio da non seguire. Prosegue sempre la sindacalista: «Guai a usare le ferie per chiudere la fabbrica! A Roma erano lontani anni luce da quello che stava succedendo a Bergamo e quello di Same sembrava un esperimento non gradito al sindacato nazionale, ecco perché possiamo considerare questa azienda come una mosca bianca».

 

(riunione sindacale in Same, foto di Eliana Como)

 

 

Noi l’affitto non lo paghiamo

Mondo, marzo – in corso

Nella difficoltà di avere delle entrate economiche sicure, sopraggiunta assieme alla pandemia, una delle questioni che fin da subito si è posta come essenziale è stata quella dell’affitto. In tante e tanti si sono infatti ritrovati impossibilitati a pagare la cifra dovuta per la propria sistemazione abitativa, da Roma a San Francisco, dalle Canarie a Barcellona. Da questo ha preso le mosse il movimento per lo sciopero degli affitti “Rent Strike”, sviluppatosi inizialmente negli Stati Uniti ma ben presto diffusosi quasi dappertutto, anche in Italia. «Di fatto, il nostro contributo è stato dare un nome a tutta una serie di pratiche e di lotte già in atto», raccontano attiviste e attivisti del movimento. «Lo sforzo è stato quello di creare una connessione fra le migliaia di persone che già si stavano autoriducendo il canone oppure avevano smesso di pagare. Non si è trattato dunque di una chiamata all’azione, quanto piuttosto della creazione di un contenitore che potesse trasformare dei gesti individuali in una rivendicazione collettiva. In questo senso, è impossibile verificare i numeri della mobilitazione, che ha appunto coinvolto migliaia e migliaia di soggetti da tutto il mondo anche in maniera autonoma in una sorta di “sciopero invisibile”. Noi come rete italiana ci siamo attivati già da metà marzo e abbiamo lavorato inizialmente su Telegram con un gruppo di oltre 700 persone in connessione da tutta la penisola. Dobbiamo dire che il fatto di essere presenti esclusivamente online, spesso comunicando attraverso gli spazi virtuali e impersonali di piattaforme come Jitsi, ha in qualche modo velocizzato e facilitato alcuni processi: al contrario di quanto magari accade se si iniziano dei percorsi di mobilitazione in luoghi che sono già connotati politicamente, nel caso dello sciopero degli affitti ci si è riuniti a partire soprattutto da un’esigenza concreta e non sulla base di appartenenze e affiliazioni preesistenti. Da qui sono stati messi in campo diversi percorsi, dagli sportelli legali a gruppi di studio e osservazione sul tema della proprietà in Italia. Ora la sfida è strutturarsi maggiormente, attraverso tutta una serie di nodi territoriali in parte già esistenti, ma soprattutto prepararsi per l’anno prossimo, momento in cui verrà revocata la sospensione del blocco degli sfratti e in cui ci sarà da dare battaglia».

 

(foto: Michele Lapini)

 

 

In coda per la spesa

Polonia, 15 aprile

La repressione dei diritti non si arresta neanche in caso di emergenza sanitaria, anzi. È il caso della Polonia, dove – dopo i famosi tentativi di restrizione del 2016 – anche in piena pandemia di Covid-19 il governo a maggioranza Prawo i Sprawiedliwość (PiS) ha discusso di come restringere ulteriormente le possibilità di interruzione di gravidanza previste dalla legge del paese. Le donne polacche, gruppi e collettivi femministi, però, hanno prontamente trovato il modo di manifestare il proprio dissenso senza infrangere le misure di prevenzione e distanziamento sociale.
«Tutte eravamo decise a fare qualcosa», ci hanno raccontano le attiviste del Syrena e dello Przychodnia, realtà autogestite nel cuore della capitale Varsavia. «Ci sono state alcune discussioni sulle modalità da adottare, ma è stato chiaro fin da subito che avremmo dovuto in qualche modo portare i nostri corpi in strada, pur rispettando la sicurezza di tutti e tutte».

Dopo una sfilata di automobili che ha bloccato il centro della capitale nella giornata del 14 aprile, il giorno successivo numerose persone si sono disposte a piedi nei pressi del Parlamento (e vicino a un grande centro commerciale), con mascherine e borse “decorate” con il logo-simbolo del movimento femminista per il diritto di scelta come se si trovassero in fila per il supermercato. Così, nello stesso momento, in diverse città polacche le code davanti ai supermercati sono diventate “spazio per manifestare”, in sicurezza ma senza timore di esporre il proprio disaccordo e la propria rabbia. Infine, teatro delle proteste sono stati i balconi e le finestre delle case, a cui sono stati appesi striscioni, e le pagine Facebook e Twitter dove già da settimane girava l’hashtag #pieklokobiet (“l’inferno delle donne”).

 

(le proteste a Varsavia)

 

 

Social bombing

online, 13 maggio

A metà maggio si è svolta l’assemblea generale del consiglio d’amministrazione dell’azienda di produzione energetica Eni. Si era entrati da poco nella cosiddetta “fase 2” e viste le generali restrizioni di assembramento e movimento, gli attivisti e le attiviste di Fridays For Future hanno deciso di lanciare un social bombing rivolto ai canali di comunicazione della multinazionale per contestare la scarsa attenzione che da anni presta all’ambiente e all’ecologia ma anche le recenti campagne di greenwashing volte a migliorare l’immagine dell’azienda agli occhi del pubblico, senza però cambiare niente nella sostanza delle proprie azioni. Fridays For Future ha dunque chiamato a inondare di commenti la pagina Facebook e il profilo Instagram di Eni, ingolfare il suo indirizzo di posta elettronica e creare una tempesta di tweet di contestazione su Twitter. Un “attacco” organizzato e coordinato, che ha provato a mettere in campo mezzi diversi e canali molteplici generando qualcosa come 3000 commenti su Facebook oltre 1500 su Instagram.

«Si è trattato di un’azione che forse abbiamo avuto la capacità di proporre al momento giusto», racconta Tommaso di Fridays For Future – Firenze. «Avevamo già tentato operazioni simili, ma a quel punto ci trovavamo praticamente tutti e tutte in casa e intercettare tante persone è risultato quasi naturale. Quello che abbiamo messo in campo come avvicinamento è stata una campagna volta a creare aspettativa per la data, senza svelare quasi niente di ciò che sarebbe successo ma anzi, proprio per questo, creando una maggiore attesa. Così, in pochi secondi, i commenti sotto i post di Eni aumentavano a decine. Faceva un certo effetto (e lo fa ancora, se si vanno a recuperare le pubblicazioni risalenti a quella data) vedere di fianco delle comunicazioni di Eni una serie lunghissima di denunce per i loro crimini contro l’ambiente (un esempio: “Eni inquina il delta del fiume Niger, il più importante del golfo di Guinea, una zona povera e sovrappopolata dell’Africa occidentale che subisce i disastri ambientali e le malattie genetiche che Eni crea con le sue operazioni petrolifere”). Sicuramente si è trattato di un’iniziativa con una certa rilevanza mediatica e che ha creato coinvolgimento fra attivisti e fra le persone che si interessano alla nostra lotta».

 

 

 

 

Incatenati

Roma, mattina dell’8 ottobre – pomeriggio del 10 ottobre

Ideate non per ragioni di sicurezza sanitaria ma certamente utili anche in tempi pandemici, le forme di protesta che implicano disobbedienza civile e individuale sono state utilizzate in varie occasioni da attivisti e attiviste di Extinction Rebellion. L’occasione più recente si è svolta durante la “settimana di ribellione” per il cambiamento climatico, in cui una decina di persone sono rimaste incatenate per circa 55 ore ai cancelli di ingresso della sede Eni al laghetto dell’Eur a Roma. Una “azione diretta non violenta” (come la definiscono attivisti e attiviste del movimento), che punta soprattutto a creare un disagio prolungato nel tempo e a generare il maggior “rumore mediatico” possibile. «Si punta ad avere un forte impatto emotivo», spiega una delle persone che hanno partecipato alla protesta incatenandosi. «Immaginiamo che vedere qualcuno che si sacrifica per ciò in cui crede a quel livello di intensità possa smuovere qualcosa in chi assiste da fuori. Si tratta di un tipo di azione molto impegnativa dal punto di vista degli attivisti che si espongono in prima persona e, come nel nostro caso, devono dunque restare incatenati oppure sospesi su un treppiede addirittura per giorni, ma che per altri versi è anche facile da organizzare. Non richiede di raggiungere un elevato numero di partecipanti e – di questi tempi – è anche gestibile senza troppe difficoltà sul lato della sicurezza sanitaria. La riteniamo una forma di protesta in genere più efficace di cortei e manifestazioni, anche se il nostro obiettivo finale resta la disobbedienza civile di massa. È necessario cioè raggiungere dei grandi numeri e creare disagi forti che durino per molto tempo. Solo in questo modo si riuscirà a creare la pressione necessaria per il cambiamento».

 

(foto dalla pagina Facebook di Extinction Rebellion)

 

Questi sono solo alcuni esempi di tentativi messi in pratica durante gli scorsi mesi. La crisi pandemica è una crisi al contempo sanitaria, sociale ed economica: unirsi per reclamare i propri diritti o per contrastare determinate scelte non è dunque qualcosa che succede a lato, ma dentro l’emergenza. È fondamentale, cioè, per fare in modo che la gestione di quanto sta accadendo a livello mondiale venga gestito nella maniera più equa e più dignitosa possibile, non lasciando indietro nessuno. Collettivi, associazioni, singoli individui sono riusciti a esprimere il proprio dissenso, recuperando magari metodi già utilizzati in passato oppure provando a inventare pratiche inedite di contestazione. E non è che l’inizio.

 

Immagine di copertina di Immaginario Studio