editoriale

Sgranocchiando pop corn, in attesa del governo

La trattativa si trascina. Mentre Salvini si rigira il biglietto vincente in mano soppesando come dividere i frutti con Berlusconi con cui l’ha acquistato in società, Di Maio cerca affannosamente i pezzi del suo, stracciato nel raptus della presunta vittoria

Difficile al momento fare previsioni, gli scenari cambiano di giorno in giorno ed è possibile solo fare qualche considerazione preliminare di contesto sugli effetti strettamente politici del ciclo reazionario di cui l’Italia è un laboratorio avanzato.

L’assetto repubblicano cui eravamo avvezzi è andato in pezzi, Definitivamente. Le due forze, pessime, che ne sono emerse hanno però ancora qualche difficoltà ad allearsi organicamente per gestire il potere. C’è un solo capo virtuale, vigoroso sebbene non troppo lucido, Salvini, che è insieme sostenuto e zavorrato da Berlusconi, lui sì lucido ma indebolito dall’esito del voto e solo in parte rinfrancato dalla sopravvenuta “riabilitazione” (misura tecnica che non cancella la condanna ma ne annulla gli effetti amministrativi). In ogni caso il redivivo Cavaliere è in grado di intralciare la trazione leghista su coalizione e governo nonché la sua attività legislativa, pur senza invertire il dato elettorale.

C’è il “capo politico” del M5s, Di Maio, che in teoria è l’azionista di maggioranza del governo, ma ha perso rovinosamente la trattativa post-elettorale e ha offuscato la sua immagine davanti ai propri elettori, annacquando il programma e bruciandosi la leadership per ingordigia. Se i suoi punti del “contratto” non passeranno, la colpa sarà gettata sull’ostruzionismo di Arcore.

C’è infine il Pd, che ha il lusso di un capo occulto che si ingozza di pop corn e assolve con metodo al progetto di distruggere Pd e sinistra in senso lato, dell’autoreggente Martina, che nessuno si fila, e di una miriade di capi-corrente specializzati nel muoversi fuori tempo e beccarsi a vicenda. Su LeU tacciamo per senso del pudore.

Mentre la Lega è un partito tipico, quanto Orbán, dell’attuale populismo di destra europeo, frutto dei disastri del neoliberalismo endogeno in Occidente e importato a forza nell’Europa dell’Est, non lepenista per genealogia ma abbastanza affine negli esiti evolutivi, il M5s continua a presentare un populismo anomalo, che ora sta virando a destra più per la fragilità e l’ingenua ambizione governativa del suo ceto politico che per composizione e desideri del suo “popolo”. Se Salvini è destra dura che ha egemonizzato il centro-destra notabiliare e il fascio-nazionalismo, Di Maio non esprime e infatti non comanda un’altra destra, deve anzi fare assorbire alla sua base una linea che risulta poco comprensibile e tanto meno lo risulterà quando le promesse elettorali svaniranno.

Se Salvini, insomma, ha il problema di fare la voce grossa (senza mordere) in un’Europa paralizzata e dovrà, a costo zero o quasi, fare il duro con i migranti e sguinzagliare un po’ di giustizieri della notte, Di Maio (o chi per lui) dovrà sgonfiare le attese per il reddito di cittadinanza (per come è stato percepito) e giustificare penosamente la sua resa alla “casta” nazionale, europea e atlantica. La Flat tax si rivelerà una modesta legalizzazione dell’evasione fiscale, senza neppure gli effetti esplosivi alla Trump, stante il fatto che non possiamo stampare moneta né inviare F-35 e incrociatori lanciamissili aggiro. In complesso il M5s è quello che ci rimette di più nell’operazione ma nel contempo è il più interessato a concluderla in fretta, evitando un troppo rapido ritorno alle urne che rischierebbe di fargli perdere una bella fetta di elettori.

Proprio per questo la scelta “aventiniana” del Pd – per essere esatti, non la rinuncia a un improbabile governo Pd-5s ma il rifiuto di tentare di dividere i pentastellati, come avrebbe fatto qualsiasi opposizione, e la gioia di averli gettati nelle braccia di Salvini – appare incomprensibile, segno di marasma senile e di vocazione autodissolutoria. Intendiamoci, non c’è Hitler alle porte, Mattarella non è Hindenburg e le baruffe a sinistra sono un ricalco farsesco della tragica divisione fra comunisti e socialdemocratici che accelerò la fine di Weimar. Il governo Lega-M5s, se si formerà, non avrà lunga vita né poteri straordinari e si limiterà a portare a termine la svolta a destra già avviata con gli ultimi governi, con la benedizione a denti stretti dei poteri forti. Peggiorerà la nostra collocazione in Europa, ma l’Europa andrà male anche senza di noi. I giochi comunque si faranno altrove. L’unica novità di rilievo sarà l’estinzione del Pd e dei suoi satelliti o inadeguati antagonisti – uno spappolamento vischioso oppure la fuoriuscita (fuori tempo, come sempre) di un En marche! renziforme. Un trauma senza catastrofe.

Una risposta da sinistra ha tempi lunghi e ovviamente si colloca nelle lotte sociali, nel cambio sistemico di strategia, solo in minima parte rappresentabile sul piano delle manovre politiche, di cui sono venuti meno gli interlocutori pur permanendo le contraddizioni. Il reddito di cittadinanza e la gestione dell’immigrazione – per diverse ragioni – potrebbero essere i punti cruciali di frizione, mentre andrebbe scartata ogni tentazione di aggrapparsi alle resistenze dell’establishment contro i nuovi famelici venuti. Per quello ci sono già Berlusconi e “Repubblica” e non sono proprio garanzie di successo. La scena della finta dialettica fra populismo di destra e neoliberalismo, inoltre, non è nazionale ma europea. Non dimentichiamolo.