editoriale

Salvini inciampa

Le cose sono cambiate e dobbiamo partire da qui. Dalla volatilità delle appartenenze, dalla metamorfosi parziale delle ideologie in emozioni, dalla permanenza degli interessi e delle contraddizioni. La sinistra non l’ha capito il 4 marzo, Salvini ci ha inciampato il 12 luglio.

Le cose sono però iniziate un paio di giorni prima: lunedì 9, quando i migranti hanno cominciato a rumoreggiare sulla Vos Thalassa, avendo constatato che la nave salvatrice stava invertendo la rotta e dirigendosi verso i “porti sicuri libici”, e mercoledì 11, quando un gruppo di attivisti si è incatenato davanti al Ministero delle infrastrutture per protestare contro il rifiuto di Salvini e Toninelli di accogliere in un porto italiano l’unità della Guardia costiera U. Diciotti che aveva rilevato i presunti “ammutinati” dal mercantile che non voleva aver grane né per sé né per la piattaforma Total che serviva.

Naturalmente la Vos Thalassa non è il Bounty o l’Amistad, se non per la stampa forcaiola italiota, e i terrorizzati profughi non erano né “facinorosi” (Toninelli) né “delinquenti” da ammanettare (Salvini), ma le due sequenze che abbiamo indicato (la protesta dei migranti e l’incatenamento degli attivisti) hanno un carattere in comune ed è un carattere esemplare: che dei corpi si sono messi a rischio e solo dopo è arrivato l’eco mediatico e infine la reazione spropositata. Un percorso, quindi, diverso da quello pur meritorio delle magliette rosse, nato sui social e poi materializzato sulle piazze, con relative reazioni e dissociazioni tutte mediatiche. La priorità del reale per modificare l’immaginario arresta e inverte in tendenza il processo opposto, che ha finora trionfato, e in cui la predicazione mediatica ha alterato (e tuttora altera) la percezione del reale, diventando più materiale dei dati materiali, cioè dotata di una forza malefica. I manifestanti davanti al Ministero e quelli sulle banchine di Trapani indossavano le magliette rosse, ma il loro gesto – così come l’elementare resistenza di chi voleva evitare la deportazione – è di un altro ordine. E, senza polemica, è su quella strada che dovremmo procedere, come già è avvenuto con il corteo di Ventimiglia. Suscitando emozioni e capovolgendone la gerarchia con un’azione politica razionale: la pancia ce l’abbiamo tutti, non solo i razzisti xenofobi e i poveri coglioni da tastiera irrecuperabili. “Prima gli umani” vale, sul piano degli affetti, quanto “prima gli italiani” o “prima i bianchi”. All lives matter.

Non stupisce, perciò, che questo risveglio del reale sia stato pernicioso per un politico come Salvini, che ha costruito le sue fortune sulla sovrapposizione della propaganda al vero e sul continuo rilancio dei proclami, nel più totale disprezzo della loro praticabilità (tipo il rimpatrio coatto) e della divisione governativa e costituzionale delle competenze.  La realtà lo ha stretto a tenaglia con le due braccia ben diverse ma convergenti della resistenza dal basso e dei poteri forti dall’alto.

«All’apparir del vero / tu, misero, cadesti» – ci perdoni l’adorato Poeta. Detto più prosaicamente, il supersbirro Marvel, oltre a violare le leggi nazionali e internazionali e il comune (sebbene minoritario nei sondaggi) sentimento della compassione solidale e a invadere la sfera d’azione del pagliaccesco Toninelli, ha pestato i piedi a quelli che contano: magistrati e militari e al loro garante, il Presidente della Repubblica, che presiede tanto il consiglio superiore della magistratura quanto il Consiglio supremo di difesa ed è il referente informale di Nato e Ue.

Unico risultato di tutto quell’attivismo sulla pelle di migranti sempre meno remissivi (vedi anche la passarella di Rosarno) e di pentastellati sdraiati e disgustati è stato l’intervento di Mattarella, che in pratica ha commissariato il flebile Conte (che vaneggiava sia di ammutinamento che di foreign fighters), accentuando vistosamente le probabilità di una crisi autunnale di governo. Istruttivo è quanto si è verificato subito dopo con la ripresa degli sbarchi direttamente sulle coste siciliane: Salvini si è lanciato nell’ennesimo sequestro con annunci roboanti e minacce di (illegale) respingimento, ma l’iniziativa è stata “sequestrata” dal redivivo Conte e dalla diplomazia di Moavero. Il bilancio finale, malgrado le apparenze, è piuttosto insidioso per il ministro della paura, perché la palla è passata alla componente M5s e istituzionale e i paesi europei che sono venuti in soccorso per una assai parziale redistribuzione non sono stati gli amici di Salvini, i “volenterosi” di Visegrad e Innsbruck, ma proprio le odiate Malta e Francia. Infami prese di ostaggi e porti chiusi, ma chi decide non è più lui.

Entrano poi in gioco altri fattori. In primo luogo la volatilità del rancore: non in quanto sentimento reattivo (che purtroppo continua a imperversare) ma nei suoi oggetti e quindi nei confronti di chi lo alimenta e indirizza. Ricordiamo la parabola di Renzi, il cui populismo blairiano, in ritardo e in controtendenza, si alimentava tanto di promesse verificabili (occupazione, buona scuola, bonus assortiti) quanto di capri espiatori (le vecchie ideologie, l’articolo 18, il posto fisso, i sindacati, i fannulloni), con il duplice effetto di esporsi a fallimenti pratici e di coalizzare interessi offesi. Comunque il dato interessante è che, a causa del sovraccarico di annunci, realizzazioni maldestre e provocazioni è durato quattro anni contro i venti (non continuativi) di Berlusconi. I tempi di Salvini si configurano ancora più ridotti: velocissima ascesa con urla, molto fumo e poco arrosto (a parte l’incrudelimento di comportamenti già in essere e un  “liberi tutti” a violenze, prevaricazioni e rutti), sgomitate con gli alleati di governo, letteralmente travolti da un leader assai più mediatico e supportato da un partito tradizionale e disciplinato, ma alla fine diffusione di paura: prima paura immotivata per rom e migranti, poi paura per l’arroganza e il consenso elettorale virtuale di Salvini stesso. Il suo ciclo sembra aver imboccato la curva discendente, anche se gli rimangono altre carte infami da giocare, grazie al radicamento del suo estremismo in un ciclo reazionario che coinvolge buona parte dell’Europa. Altre praterie restano aperte, nella speranza che non si moltiplichino gli sbarchi: sparare ai ladri, sgombrare qualche campo rom e occupazione abitativa, provare a “disinfestare” qualche “nido di zecche”, legalizzare la tortura. Ma non è facile frenare di colpo dopo una corsa a briglia sciolta, dimostrandosi vulnerabile nelle due varianti di piatire da vittima del sistema o di incassare furbescamente come vittoria un passaggio di gestione. Teniamo presente che alla Lega non interessano gli obiettivi conclamati ma solo fottere gli alleati pentastellati e costruire una destra egemonica e un sistema europeo di alleanze reazionarie. Qui vanno misurate le loro difficoltà.

Esagerare non fa bene in un’epoca di volatilità, dove le fluttuazioni emotive non sono ancorate a un’ideologia reazionaria stabilizzata, come accadeva nella Germania dell’inflazione e del trattato di Versailles. Inoltre nella sfera degli interessi e dei poteri pesanti, dove il buonismo o il cattivismo non fanno né caldo né freddo, un amico troppo sfacciato di Putin e di Trump, cioè uno disposto a sfasciare l’Europa e ad agire da Manchurian candidate di non si sa bene chi, sgomenta abbastanza. Anche la prospettiva dell’asse dei volenterosi anti-Merkel e filo-Visegrad non fa comodo, non rientra nei pur confusi programmi di adattamento flessibile all’Europa, tanto più in una fase di calo generalizzato del Pil e di assalto trumpiano sui dazi.

La coalizione dei sovranismi funziona da ricatto, ma appena si passa sul piano positivo e propositivo esplodono contraddizioni insormontabili – dazi, frontiere, gestione della migrazione secondaria, ecc. Per fare un esempio marginale, questa domenica Salvini è volato a Mosca per omaggiare Putin, corteggiare i croati in versione para-ustascia e «gufare la Francia». Ma è dubbio che Putin e gli spettatori sovietici sostengano una Croazia filo-Kiev e che ha umiliato la loro nazionale ai rigori. Nel migliore dei casi, insomma, fai l’utile idiota (e nello specifico il menagramo) in una strategia che non controlli. E lo stesso vale per zio “Giuseppe”, alla corte di zar Donald.

Ultima nota di un discorso che è più una proposta di lotta che una linea di analisi fattuale ossia enfatizza controtendenze minoritarie dentro un complessivo ciclo reazionario, segnala quel poco che c’è in Italia – e bisognerebbe cominciare a guardare a quel di più che c’è in giro nel vasto mondo, dal Messico agli Usa, dalla Spagna all’Inghilterra.

Questa ripresa pur minima di iniziativa è avvenuta fuori della logica dei giornali di regime e dei tramortiti partiti di opposizione (l’unica a farsi viva è stata Forza Italia, turbata dal “comunismo” del M5s e del DL Dignità – figuriamoci!), è nata come un movimento agganciato all’associazionismo e per ora non cerca sponde ufficiali. Suscita contraddizioni senza aspettare che qualcuno “autorizzato” le gestisca – come pure sarebbe utile. Non è ancora in grado di farlo, cioè di acuire il solco fra M5s e Lega e all’interno dello stesso M5s, ma non sta aspettando che il Pd si risvegli, estirpi il tumore renziano e, smagrito, faccia il suo mestiere di opposizione. È di primaria rilevanza che l’occasione sia fornita dalle migrazioni, che in Europa come negli Usa sono la cerniera fra i diritti civili e i diritti sociali, fra diritto di fuga e nuova composizione della forza-lavoro.

Non possiamo aspettarci a breve qualcosa di simile al movimento No global o all’Onda, che avevano un orizzonte pre-populista oggi scomparso. Sarà un bene o un male, ma intanto non c’è più e sfido chiunque a rimettere il dentifricio nel tubetto. Può darsi che, malgrado tutti i fallimenti e l’oggettiva difficoltà della fase, si diano ancora tempi interessanti.