editoriale

Rotture istituzionali

Le elezioni in Grecia e i sondaggi spagnoli riaprono il dibattito su rappresentanza politica e rotture istituzionali. Ma a quali condizioni sono possibili?

La possibile vittoria elettorale di Syriza e i sondaggi che riguardano Podemos segnalano che una rottura degli assetti istituzionali rappresenta oggi una possibilità concreta nell’Europa segnata dall’egemonia neoliberale. Lungi dal credere che siano sufficienti le contraddizioni che tali eventi produrranno in Europa, siamo però convinti che le elezioni di Atene prima e di Madrid poi segnino un passaggio interessante. Il fatto che due organizzazioni come Syriza e Podemos vincano le elezioni apre alla possibilità di una – seppur parziale – inversione di tendenza del confronto europeo. Un’inversione con direzione contraria a quella indicata dalle forze nazionaliste e reazionarie, le uniche a intaccare fino a questo momento il discorso dei tecnici e dell’austerità, ma niente affatto sufficiente se non ci saranno movimenti in grado di imporre un diverso ordine del discorso su un livello immediatamente europeo.

Un’eventuale vittoria di Syriza potrebbe aprire lo spazio di possibilità per una rinegoziazione del debito da parte della Grecia e forse degli altri stati dell’UE, e per un rilancio di politiche economiche neokeynesiane. Soprattutto, romperebbe a livello transnazionale l’egemonia del governo neoliberale della crisi. Una possibilità non scontata, ma che avrebbe certamente degli effetti di carattere europeo, sicuramente rispetto agli spazi di dibattito e perché no a quelli di mobilitazione. D’altronde, cosa ci insegna il Sud America degli ultimi anni se non che, al fianco della circolazione delle lotte, si presenta anche una possibilità di circolazione delle trasformazioni istituzionali?

In queste ore, a un passo dalle elezioni greche, l’attenzione è stata chiaramente assorbita dal Quantitative easing di Mario Draghi e della BCE. Una mossa che, nelle dimensioni e nella durata, ha indubbiamente stupito: un bazooka di 1.140 miliardi di euro, denaro che la BCE stamperà di qui al settembre del 2016 (60 miliardi al mese) e con il quale acquisterà i titoli di Stato. Le condizioni poste al Qe di marca europea, però, ripropongono, in un contesto indubbiamente nuovo, i problemi di sempre: l’operazione finanziaria, infatti, è continentale, ma le perdite eventuali, per l’80%, saranno scaricate sulle banche nazionali; di più, per la Grecia l’allentamento quantitativo sarà disponibile solo in cambio del rispetto dei vincoli imposti dalla Troika. Non è per nulla scontato, poi, che in un sistema produttivo fortemente banco-centrico, come quello dei paesi del Sud, l’iniezione di liquidità dai mercati si riversi sull’economia reale. Sicuramente l’euro debole aiuta le esportazioni e riduce il peso del debito, ma di certo non stiamo parlando di un rinnovato keynesismo. Anche a partire da queste novità, dunque, la vittoria di Syriza potrebbe aprire contraddizioni molto rilevanti, su cui innestare l’immaginazione e le pratiche politiche del conflitto.

I movimenti in questi anni hanno radicalmente contestato le politiche dell’austerity nello spazio nazionale e hanno tentato di costruire la possibilità di uno spazio transnazionale delle lotte. Uno spazio strategico e decisivo per l’opposizione all’austerity e per praticare oggi delle effettive trasformazioni radicali. Non semplicemente la connessione delle lotte nei diversi spazi nazionali, ma la sperimentazione di una dimensione transnazionale capace di ridefinire le lotte stesse. Il 18 marzo, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della BCE a Francoforte, i movimenti torneranno ad assediare i responsabili delle politiche di austerity. Saremo in quella piazza per sfidare la dittatura dell’austerity, ma anche per scommettere sulla moltiplicazione delle lotte su scala transnazionale.

Non ignoriamo affatto che a fronte di queste possibili rotture istituzionali si presentano anche numerosi problemi, che occorre affrontare con la dovuta prudenza. Vorremmo però provare a farlo senza le rigidità ideologiche o l’opportunismo praticone che capita spesso di incontrare nel dibattito di movimento della provincia italica.

In primo luogo, bisogna essere coscienti della grande differenza che intercorre tra Podemos e Syriza. Syriza ha le caratteristiche tradizionali di un partito della sinistra radicale, o meglio ancora, di una coalizione di partiti e organizzazioni della sinistra. A differenza di quelle sparse nel resto d’Europa, ha però saputo interpretare un malessere sociale diffuso, sintonizzandosi con le istanze e le lotte che dal 2008 in poi si sono aperte nella società greca. Sostenendole e appoggiandole, dalle mobilitazioni studentesche all’occupazione di piazza Syntagma, passando per le battaglie per i beni comuni fino a quelle sul lavoro, Syriza è stata capace di porsi come riferimento dei movimenti, spesso prendendovi parte, assumendo posizioni e pratiche spregiudicate, facendosi – parzialmente – contaminare, costruendo nuove reti di mutualismo sociale per rispondere concretamente alla crisi, ma in fondo rimanendo un partito nel senso tradizionale del termine.

L’esperienza di Podemos ha origini radicalmente diverse, profondamente inserite nella trasformazione radicale della società spagnola prodotta dal movimento 15M. Un contesto in cui, a dispetto delle lotte, le disuguaglianze sociali sono aumentate e il 70% delle ricchezze spagnole sono in mano a pochi privilegiati. Quando parliamo di Podemos non parliamo di un partito, perlomeno in senso classico. Struttura leggera, centralità dell’utilizzo dei media tradizionali e delle herramientas del web 2.0. Strategia discorsiva à la Laclau e metodologia democratica degli indignados sono alla base del successo della nuova piattaforma spagnola. Nato in brevissimo tempo a ridosso delle elezioni europee, Podemos non si pone tanto il problema di rappresentare complessivamente il movimento o di apparire come il partito del 15M, ma viene percepito in Spagna come parte del movimento, aggregandone e disponendone direttamente le istanze sul piano della rappresentazione politica. Pur non ponendosi come auto-rappresentazione del 15M, raccoglie quell’immenso desiderio di cambiamento e lo inserisce in una strategia politica, colmando il vuoto istituzionale generato dalla crisi della rappresentanza.

Assunte però le differenze tra i due esperimenti, non possiamo non considerare ciò che entrambi hanno in comune. La Grecia e la Spagna sono state attraversate negli ultimi anni da movimenti moltitudinari, che hanno profondamente trasformato la grammatica politica di entrambi i Paesi, aprendo spazi di partecipazione democratica radicale e costruendo la possibilità dell’affermazione di nuove sperimentazioni istituzionali. Da una parte, il metodo decisionale e la relazione politica tra i gruppi, i collettivi e gli attivisti sono stati profondamente trasformati. Dall’altra, il discorso neoliberale sulla crisi – retorica dell’austerity, pareggio di bilancio, dittatura dello spread – è progressivamente andato in pezzi all’interno dei rispettivi confini nazionali. In ultimo, queste esperienze hanno preso avvio e costruito il proprio spazio politico a partire da una radicale e non estemporanea alterità e contrapposizione con i partiti socialisti e con le loro proiezioni minoritarie. Sono le condizioni così determinatesi che hanno reso possibile la sperimentazione di Podemos e la sfida di Syriza.

La possibilità di una rottura dall’alto – tanto rispetto alla politica economica quanto rispetto ai soggetti della rappresentanza istituzionale – passa dunque attraverso rotture agite dal basso: è per questo motivo che entrambi gli elementi vanno necessariamente pensati assieme, in un quadro in cui i movimenti non perdano il loro carattere propulsivo e radicale, ma invece sedimentino nuove forme di istituzioni sociali. Il rischio, altrimenti, è quello di immaginare il rapporto tra movimenti e forma politica in un’ottica di subordinazione, in cui le istanze di trasformazione cedono il passo, prima o poi, al problema rappresentativo. Stesso discorso per gli elementi di programma economico di stampo neo-keynesiano. Bisogna essere capaci, attraverso la valorizzazione di pratiche già presenti di produzione e welfare autogestiti, di fare un uso non-keynesiano del keynesismo.

Si potrebbe dire a questo punto che in Italia non c’è stato il 15M, che non c’è stata piazza Syntagma, che in questi anni non siamo stati attraversati da movimenti moltitudinari di quell’estensione e durata, e che per questo è necessario aprire oggi uno spazio politico nuovo. Ma, troppo spesso, la capacità espansiva dei movimenti italiani si è misurata con chi credeva che alla non autosufficienza dei movimenti, si potesse sostituire l’autosufficienza della rappresentanza politica. E che al tempo dei movimenti e dell’estensione sociale, a un certo punto, si dovesse sostituire per naturale evoluzione, la scelta istituzionale. Oggi, sull’esigenza di riportare anche “qui” le esperienze politiche del sud-Europa, questo schema sembra in Italia ripetersi con la stessa grammatica che ha sancito gli innumerevoli fallimenti delle nostrane “alleanze tra partiti e movimenti”. Senza interrompere la continuità del progetto di riunificazione delle sinistre, e al contempo, senza un ripensamento della stessa forma-movimento, non vi può essere spazio adeguato alla trasformazione.

La possibilità della trasformazione passa invece attraverso la costruzione di coalizioni sociali che siano in grado di produrre forme avanzate di contrattazione, partendo però da un ripensamento radicale del politico e del far politica. D’altronde, è questa la lezione che ci viene dai movimenti europei. Possiamo raccoglierla oppure rimanere confinati nella piccola provincia italiana.