ROMA

Roma è zona fuxia

Oggi Piazza del Popolo si è tinta di nero e fuxia: come nel resto d’Italia, anche la capitale è stata riempita dal movimento transfemminista a ribadire che, no, neanche la pandemia ferma la lotta contro il sessismo e la violenza di genere. Il racconto con le voci dalla piazza

Cinque anni fa nella periferia romana veniva bruciata viva Sara di Pietrantonio. Qualche donna andò sul luogo di quel delitto, con uno striscione bianco e una scritta fatta velocemente con una bomboletta. Di fronte quella morte efferata, tra quelle strade costruite ai confini del raccordo anulare, mentre tutta l’Italia discuteva del referendum costituzionale, è balenata l’idea di convocare una manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne. Cinque anni dopo nessuno si ricorda più di quel referendum costituzionale, ma molte portano nel cuore manifestazioni oceaniche, assemblee nazionali, collettivi, slogan, canzoni, scioperi transnazionali, in una parola il movimento transfemminista globale.

Lo scorso marzo il lockdown nazionale è stato dichiarato proprio a cavallo dell’8 marzo, e tutte le manifestazioni di Non Una di Meno furono annullate e le attività spostate online. Campagne contro la violenza, assemblee su zoom, azioni online, web radio. Ma la fatica è stata tanta. La seconda ondata ha determinato l’impossibilità di organizzare una manifestazione nazionale, e Non Una di Meno ha deciso con enorme caparbietà di lanciare due giorni di mobilitazione, il 25 e 28 novembre.

 

Foto di Renato Ferrantini

 

In piazza del popolo, si arriva alla spicciolata, nonostante il centro di Roma sia invaso per lo shopping natalizio. Arrivano gruppi di amiche, famiglie con i figli, collettivi di studentə, gruppi di quartiere. Come le donne di Torpignattara, che, come spiega Martina, vengono alla manifestazione da quattro anni «ci teniamo molto a venire a questa manifestazione perché ne condividiamo il messaggio, e poi è piena di creatività, di colori, di idee. Ci piace tantissimo».

In tante sono vestite di nero e fuxia i colori del movimento, alcune indossano dei boa, o cappelli eccentrici, c’è chi finisce di colorare i cartelli. Si indossano i pañueli, tagliati e dipinti nel workshop creativo organizzato alla casa delle donne Lucha Y Siesta, simbolo ripreso dalle lotte argentine. Tante amiche e compagne si aiutano a vicenda, l’una con l’altra, per fare il nodo alla stoffa fuxia, per legare quel simbolo di sorellanza dietro il collo, suggellando così un patto «sorella, non sei sola». I palazzi antichi, le chiese, l’obelisco che disegnano Piazza del Popolo appaiono in netto contrasto con queste donne nere e fuxia. Sembra un dialogo tra vecchio e nuovo, praticamente inconciliabili ma che, non avendo scelta, si guardano negli occhi.

 

Foto di Renato Ferrantini

 

Dal camion iniziano a parlare, e una voce roca con un bel accento romano dichiara la piazza «zona fuxia», uno spazio di utopia reale, dove  stare insieme, superare l’isolamento e la violenza che tutte le donne vivono nelle proprie vite. Dal camion si alternano gli interventi dei centri antiviolenza senza fondi, della casa delle donne Lucha Y Siesta sotto sgombero, e poi maestre, lavoratrici licenziate, artiste e lavoratrici dello spettacolo. «Gli amori e gli affetti in cui crediamo sono quelli che ci tradiscono e umiliano. Per questa società non siamo mai abbastanza, e siamo sempre troppo».

Lə giovanissimə e lə adolescenti sono scesə in piazza molto numerosə, e la loro presenza sembra suggerire un passaggio di testimone tra generazioni, in cui la lotta  rifiorisce e prende forme nuove. Francesca, diciotto anni, lo racconta così: «Sono stanca di sentirmi inferiore anche se so di non esserlo. Scendo in piazza per tutte le donne, per le mie amiche, mia madre, mia nonna, e anche per la mia bisnonna e la mia prozia che non ci sono più, perché mi hanno ispirata e mi hanno fatto diventare la persona che sono oggi». Alma e Max sono in terza media ma molto convinte delle loro ragioni: «In Italia e anche nelle altre parti del mondo, le donne vengono sottovalutate, vengono uccise, stuprate, violentate – afferma Max – e molte persone poi se la cavano, anzi spesso danno la colpa alle donne. Questa cosa fa schifo». E Alma aggiunge: «Non importa se sei una donna o un uomo, in questi casi bisogna mostrare che vogliamo cambiare le cose».

 

Foto di Renato Ferrantini

 

Ci sono tanti uomini e ragazzi in piazza, alcuni indossano il pañuelo, come Fabrizio, per il quale partecipare a questa manifestazione «è parte di un percorso molto importante, un processo che mi ha portato a rendermi conto della mia posizione di privilegio, e anche solo essere qui penso sia importante, anche se sono solo dei piccoli passi». C’è Valerio che porta un cartello con scritto “el violador eres tu”, che spiega «non importa quale sia il tuo sesso, dobbiamo combattere tutti questo sistema violento». 

Nel frattempo dal camion continuano tanti interventi, e sono tante le donne che decidono di raccontare i propri vissuti difficili. Come Miriam, con le braccia incrociate a quelle delle  sue amiche e compagne di Black Lives Matter, che racconta gli abusi subiti da bambina in famiglia: «i marchi che lui mi lasciava sul corpo, li nascondevo bene, ma nessuno li voleva vedere. Era colpa mia». Una donna, che è di fronte lo striscione steso a terra, sentendo questa storia, non trattiene le lacrime, e si asciuga gli occhi spostando la mascherina. «Non sapevo cosa fare, ero piccola… Le donne non valgono niente. Soprattutto se non sei bianca e ricca, sei senza voce». Ci si guarda negli occhi, e le parole di Miriam, risuonano forti nella piazza. 

 

Foto di Renato Ferrantini

 

E poi arrivano le murghe, con i loro vestiti colorati verdi e gialli, brillantini e frange, hanno tradotto la “cancion sin medio”, che in questi giorni è girata nelle chat di telegram, e sui canali social di Non Una di Meno. In tante conoscono le parole, altre la leggono dal cellulare o dal volantino distribuito, e solo per questo momento si sta un po’ più strette nella piazza. «Cantiamo con forza, chiediamo giustizia. Gridiamo per quellə che più non ci sono. Se toccano una rispondiamo tuttə. Che suoni più alto “non una di meno”». Ed è la musica che unisce la piazza, anche se per un breve momento, perché purtroppo non si può stare insieme per molto. 

Mentre andiamo via, passa una mamma che chiede alla figlia piccola di darle la mano per passare tra la gente. Come tutte le donne che sono in questa piazza: anche loro, in un legame di sorellanza, si danno la mano per attraversare questa società violenta e patriarcale. 

Foto di copertina e dell’articolo di Renato Ferrantini