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“Roma” di Cuarón

Con un dramma famigliare ambientato nel quartiere di Roma di Città del Messico all’inizio degli anni Settanta, Alfonso Cuarón firma uno dei suoi film più personali

Ecco il cinema. Roma di Alfonso Cuarón è uno di quei film che si ha già da subito voglia di rivedere per capire meglio, osservare di più, godere della grandezza delle sue immagini.

Che lo sguardo di questo regista fosse portatore di molti modi di vedere, nessuno ne dubitava. Ed è proprio nello stupore che nasce dalla continua variazione che risiede la potenza del suo cinema errante capace di transitare da un continente all’altro intrecciando storie, evocando esperienze, configurando geometrie espressive, ormai da oltre due decadi.

Doppiamente premiato agli Oscar per Gravity nel 2014, in questi ultimi anni il suo cinema ha contribuito a elaborare l’immaginazione degli spettatori più diversi. Da Y tu mamà tambièn, già premiato a Venezia nel lontano 2000, al terzo episodio della saga di Harry Potter, dal distopico I figli degli uomini fino a quest’ultimo lavoro in 65mm digitale che ha aperto la seconda giornata del concorso al Lido di Venezia. Roma inquadra il senso della dinamica propria dei ruoli di genere e delle possibili strategie elaborate per affrontare l’ostilità di questa ripartizione binaria. Ma questo film non fa delle donne un tema ed è qui che risiede la sua grandezza. Recupera senza eccessivo pudore una superficie delle cose e su di essa proietta questa storia familiare che si sprigiona a partire dal potere evocativo del luogo.

Roma è un quartiere residenziale di Città del Messico. Siamo negli anni Settanta in una grande casa con molti libri, quattro figli, una nonna, due domestiche e naturalmente una coppia di genitori. Nelle note di regia è spiegata l’origine autobiografica di questo ambiente e il tentativo di elaborarne una memoria privata ma anche condivisa è lo scopo di questo lavoro che supera le due ore di durata.

Lunghe sequenze, panoramiche lente che attentamente lasciano il tempo di far posare lo sguardo sui dettagli come fossero lo strumento principale di questa indagine a ritroso nel passato. Non c’è necessità di andare in profondità, di entrare presuntuosamente nelle psicologie dei personaggi. Le soggettive sono assenti come a sottolineare che non è lì che risiedono le spie per ricostruire un “paradigma indiziario”. Sono piuttosto gli ambienti sociali a essere portati in superficie da una lente ampia che permetta di elaborare una nuova leggibilità del mondo, di quel mondo quantomeno. La famiglia su tutti ma anche la strada e tutto ciò che è rumorosa sede di relazione. La vita dunque. La natura antisociale della famiglia borghese, secondo cui le donne sono madri perché si occupano di tenere compatto il nucleo d’origine, nella buona e nella cattiva sorte, viene qui attentamente guardata e mostrata. «No importa que te lo diga, siempre estamos solas» viene rivelato dalla signora di casa Sofia, l’attrice di teatro messicana Marina de Tavira, alla giovane domestica Cleo in preda a un momento di sfogo alterato. Da donna a donna possiamo dircelo, anzi, dobbiamo riconoscerlo. L’una lasciata sola con quattro figli, l’altra con una gravidanza in corso. Il dolore, sembrano dire, è la più evidente prova di questa storica solitudine.

Anche per i bambini, del resto, le donne della casa sono solo madri, mentre il padre ha diritto ai suoi impegni privati. Troppo giovani per avere coscienza delle differenze, non astraggono dalla vita domestica le donne della casa. Non importa se le due domestiche, Sofi e Cleo (le bravissime Yalitza Aparicio e Daniela Demesa alla loro prima interpretazione), siano indigene di origine mixteca, appartengano a una classe più bassa, o che la loro lingua madre sia un’altra. Restano madri con le qualità preziose delle madri.

È questo conflitto, probabilmente, tra la percezione di sé durante l’infanzia trascorsa in un ambiente prevalentemente femminile e uno sguardo maturo e più cosciente che ha imposto l’urgenza di questa ricostruzione a Cuarón. Il gioco preferito del bambino più piccolo della famiglia, forse non a caso, è infatti raccontare di un suo passato presunto in cui era adulto. Come vivesse una reincarnazione ripete alla sua balia Cleo: «quando ero grande…».

In questo film Cuarón, oltre a firmare come di consueto la sceneggiatura, mette le sue intenzioni, a buon diritto, nella complessità del discorso filmico: dal montaggio, alla produzione, alla fotografia. Il bianco e nero è infatti una scelta radicale che contribuisce fortemente a questa indagine sulla memoria. È luminoso e morbido e non lascia spazio ad accattivanti capriole cromatiche. I grigi condensano così la vasta gamma delle sfumature emotive che governano l’andamento di questa famiglia insieme con l’atmosfera politica in cui è immersa. Il presidente è Luis Echeverría Álvarez, precedentemente Ministro dell’Interno noto per la sanguinosa repressione delle proteste studentesche durante i Giochi Olimpici del Sessantotto. La storia pubblica, infatti, si intreccia spesso con la dimensione privata. Suona la banda in strada mentre avviene il rientro a casa, esplodono rivolte in città mentre Cleo in procinto del parto e la nonna dei bambini sono in giro a fare spese. L’interno e l’esterno spesso si intrecciano attraverso inquadrature cariche, gonfie di elementi, ritmate. Sono proprio quei grigi che ammorbidiscono il contrasto tra il bianco e il nero a mantenere gli ambienti legati. Grigia, del resto, è la prima inquadratura del film: una lunga sequenza che mostra il pavimento esterno della casa mentre viene lavato, con le sue grandi mattonelle di pietra romboidali. L’acqua, che a più riprese viene gettata su di esse, le trasforma man mano in un’unica parete riflettente. Una sorta di schermo su cui si proietta il cielo di Città del Messico e l’immagine di un aereo in volo. Il processo è lento, per lavare ci vuole tempo, e questo tempo, nonostante venga scolpito per poter essere inquadrato, viene rispettato grazie a un montaggio che interviene delicatamente proprio assecondando questo fluire. Non c’è fretta in questo splendido film. Che piaccia o meno, è forse per questa ragione che non ha senso parlare di errori. Ecco il cinema.