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Roberto Benigni, un leone che non ruggisce

La Mostra del cinema di Venezia annuncia il Leone alla carriera a un attore-regista che fu innovativo ma che è oggi solo conformista. Era meglio Zalone o Neri Parenti.

A cosa servono i festival e i premi cinematografici? Sin dall’inizio, negli anni Trenta, e poi ancora di più nel dopoguerra, i festival di cinema sono eventi ibridi e dai significati multipli. Lungi da essere solo il regno di cinefili assetati dell’ultima novità, i festival di cinema sono sempre stati giganteschi hub di networking, forme di diplomazia politico-culturale dove si mette in mostra quello che si produce, luoghi dove arte e mercato si incontrano e talvolta scontrano.

In particolare la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è sempre stato un coacervo di conflitti e prisma attraverso il quale vedere la politica, e la politica culturale, italiana: da Mussolini che nel 1932 (la più antica, dopo gli Oscar) la promuove e facilita, facendone uno strumento di propaganda, con il Conte Volpi di Misurata (a proposito, sono maturi i tempi per cambiare il nome alla Coppa?), fino al Sessantotto e dintorni con il Lido preso d’assalto da militanti politici, contestatori, scontri con la polizia, mostre alternative.

 

Insomma, non un luogo pacificato, ed è un bene che sia così e spesso i direttori della Mostra sono stati espressione del peggior conservatorismo filmico-nazional-popolare e pertanto contestati e discussi.

 

Viene da chiedersi quindi coerentemente quale sia adesso l’idea di festival portata avanti da Alberto Barbera, direttore della Mostra dall’edizione del 2012 – un’era cinematografica fa. Negli ultimi anni, anche per contrastare l’avanzata del Toronto International Film Festival che si svolge nello stesso periodo, la Mostra ha strizzato sempre di più gli occhi a Hollywood, aprendo alle piattaforme, con le vittorie tra l’altro di opere come Roma di Alfonso Cuarón e Joker di Todd Philips.

E giù polemiche, sul ruolo di Venezia che dovrebbe facilitare la circolazione di opere non scontate, che più difficilmente arriverebbero al pubblico, di autori e autrici magari meno conosciuti e non star mondiali. Solo che Venezia non è Porretta Terme, o Salsomaggiore, o Sulmona (tutti festival minori e bellissimi, di grande impatto cinefilo), ma neanche Locarno o Berlino, dove sembra ancora possibile portare avanti un discorso cinematografico slegato dal pubblico e dal mainstream.

Il Leone d’oro alla carriera a Roberto Benigni, però, sembra un’altra storia e sembra marcare una svolta più decisiva in un cambiamento diciamo ontologico di quello che è la Mostra. Che senso ha infatti dare il premio più prestigioso e autoriale a un artista come Benigni? Il Leone alla carriera è andato nel tempo autentici mostri sacri del cinema italiano come Rosi, Bellocchio, o Bertolucci.

 

Foto di Piero Fissore da Flickr

 

Ma si può davvero pensare che sia un mostro sacro del cinema italiano un regista/attore che di fatto non azzecca un film dal secolo scorso? Altre volte il Leone alla carriera ha avuto un significato implicito di “risarcimento”, andando ad autori che non avevano mai vinto un Leone d’oro in concorso ma avevano avuto un significativo impatto sulla storia del cinema (come Frederick Wiseman, per dirne uno).

Non è il caso di Benigni, vincitore di ben tre Oscar, tra cui il primo (e unico italiano) interprete maschile a ricevere l’Oscar come miglior attore protagonista recitando in un film in lingua straniera.

 

Benigni è ovunque, come attore, come ospite televisivo, i suoi film da regista non sono certo di nicchia, anzi hanno cresciuto un paio di generazioni di appassionati di cinema. Insomma, a Benigni non manca la visibilità.

 

Alla Mostra del cinema di Venezia, però, sì. E soprattutto, ha bisogno di visibilità oltreoceano, dove Benigni, grazie a quel pastrocchio storico che è La vita è bella (1997), è ancora una star. La notizia, basta guardare alle reazioni delle prime ore, è ovunque, e questo era probabilmente il principale obiettivo della nomina.

Barbera nelle motivazioni parla di «una ventata innovatrice e irrispettosa di regole e tradizioni» che avrebbe portato Benigni nel mondo dello spettacolo italiano.

 

 

Questo era senz’altro vero, controversi quanto possano essere i film e gli spettacoli diretti da Giuseppe Bertolucci (Berlinguer ti voglio bene, Tutto Benigni) ma anche gli altri film come Tu mi turbi (1983) o Il mostro (1994) hanno davvero detto qualcosa di nuovo, diverso, innovativo, in parte sconvolgente, divertendo e cavalcando l’onda di un cinema d’autore popolare che è stato per anni la cifra del cinema italiano.

 

L’impatto culturale del primo Benigni, quello degli anni Settanta, Ottanta e in parte Novanta, specie in alcune zone d’Italia (la Toscana in primis) è davvero incredibile, dentro e fuori dalle sale cinematografiche, con compianti compagni di viaggio come Carlo Monni o Massimo Troisi («Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!», Non ci resta che piangere cult assoluto).

 

Anche La vita è bella era a suo modo innovativo: non si era riso molto sulla Shoah fino ad allora. Ma oggi? Da quanto Benigni non fa qualcosa di innovativo e irrispettoso di regole e tradizioni? Da quanti anni si è accomodato su degli allori parecchio stanti, ripetitivi, e conformisti?

Lo si dice senza nessun snobismo verso il cinema popolare, tutt’altro, anzi, a questo punto non si capisce perché non dare un Leone d’oro a Checco Zalone, Massimo Boldi, Neri Parenti, Christian De Sica, loro sì snobbati sempre e comunque dall’establishment culturale italiano, loro sì mai candidati all’Oscar, mai distribuiti fuori dall’Italia.

 

Foto di copertina di Federico Ravassard da Flickr