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ITALIA

Ribaltare l’ordine esistente. Sex work e mutualismo durante la pandemia

Durante l’emergenza Covid-19, in numerose città italiane sono state avviate esperienze di collaborazione e mutualismo dal basso per garantire diritti alle comunità di lavoratori e lavoratrici sessuali. Una panoramica del fenomeno da nord a sud, con le voci del Mit di Bologna, Ombre Rosse – Napoli e B-Side Pride

L’attivazione della campagna Nessuna da Sola – promossa dal comitato dei diritti civili delle prostitute e Ombre Rosse – a sostegno delle lavoratrici e dei lavoratori sessuali, tra le categorie meno tutelate e quindi più duramente colpite dall’emergenza Covid-19, si è resa strumento indispensabile non solo per arginare le situazioni di maggiore vulnerabilità, ma anche per sostenere una presa di parola collettiva magmatica e incisiva. La campagna è diventata così una delle esperienze politiche più interessanti e articolate di quest’anno appena passato.

La risposta mutualistica dal basso nasce come una esigenza politica diffusa e radicale: risponde ai bisogni materiali e immateriali (accompagnamento ai servizi sanitari, sostegno, connessione) di categorie sociali e lavorative discriminate, stigmatizzate ed escluse da qualsiasi forma di sostegno istituzionale, ma tuttavia non si limita a quella; crea relazione, mette in rete comunità alleate a partire dagli spazi che queste abitano, dando loro ascolto e proponendo narrazioni che contrastino le stigmatizzazioni sociali.

Ecco dunque che il sex work in questo contesto diventa un luogo di complessità, un margine dal quale pensare tutte quelle “zone opache” che pure nella nostra società esistono e che sfuggono a quel rigido quadro interpretativo e classificatorio con cui interpretiamo la realtà: cosa sia e cosa non sia il lavoro, la fluidità delle identità di genere, le modalità attraverso cui le forme di oppressione s’intersecano ed esercitano sulle soggettività, la creatività e multiformità delle forme di resistenza e di relazione lì dove non esiste rete familiare o istituzionale di riferimento.

Durante l’emergenza Covid-19, esperienze di mutualismo diffuso si sono diffuse in molte città italiane: Bologna, Napoli, Roma, Rimini, Torino. Queste esperienze sono state in parte, se non nella loro totalità, guidate da o appoggiate alla campagna Nessuna da Sola che ha interrelato realtà di tutto il territorio nazionale e ha saputo far radicare l’esigenza di una risposta materiale in una mediatizzazione efficace e diffusissima di una realtà sociale, il sex work, spesso conosciuta attraverso un traboccare di stereotipi che ne riducono tutta la complessità sociale e politica.

Ma anche in contesti più piccoli si sono verificati episodi di solidarietà: per esempioa San Berillo, il crocicchio di vicoli che a Catania accoglie una caleidoscopica e ricca realtà umana composta per la maggior parte da migranti e, come scelgono di chiamarsi molte di loro, prostitute di strada (qui il femminile è universale a fedele rappresentazione di quello spazio), sono stati donati e ridistribuiti pacchi spesa, Officina Rebelde – comunità antagonista da oltre dieci anni al centro dei processi politici del quartiere – ha fatto ripartire il suo sportello sociale e attivato una campagna di crowdfunding per mantenere aperto il suo spazio di accoglienza e confronto; infine la comunità di sex worker è riuscita a far fronte alla crisi riorganizzando le proprie attività (pare scontato, ma mascherine e gel disinfettante hanno un costo quotidiano importante e spesso limitante).

Proviamo a raccontare alcune di queste esperienze attraverso le voci di Anna D’Amaro del MiT di Bologna, partner della campagna Nessuna da Sola, di Ninì di Ombre Rosse Napoli e di Giuseppe per B-side pride Bologna che ha organizzato la campagna Pane, Paillettes e Connessioni – per sostenere lesbiche, gay, trans e queer in difficoltà economica a causa della crisi sanitaria ed economica da Covid-19.

 

Il banner della campagna

 

Partiamo innanzitutto da voi, quali sono i percorsi di mutualismo di cui fate parte?

Anna: Noi del MiT facciamo parte di un progetto che è Via Luna, un progetto del comune di Bologna con la regione Emilia Romagna che si occupa di riduzione del danno, quindi noi portiamo preservativi e lubrificanti a sex worker e street worker. E poi abbiamo il progetto indoor, quindi si contatta chi esercita sex work indoor per informare su i servizi disponibili. Facciamo spesso anche degli accompagnamenti, ma con la pandemia abbiamo dovuto ripensare tutto.

Questa estate c’è stata una piccola ripresa, come in qualsiasi altro settore lavorativo, e tuttavia si è risentita l’esigenza di creare una rete di supporto e appoggio a chi fa sex work, soprattutto perché con il coprifuoco è tornato ad essere difficile lavorare. Quindi abbiamo creato una rete, TforT (trans per trans) di cui fa parte il MiT, Ora d’aria con Gender X a Roma, l’ottavo colore a Parma e Atn a Napoli; con loro abbiamo creato una rete per far capire che noi continuiamo a raccogliere donazioni per poi darle alle persone che hanno necessità. Oltre a questo, diamo anche supporto psicologico a coloro che si trovano in condizione di difficoltà. Il nostro lavoro è soprattutto indirizzato allo stigma che colpisce chi fa sex work.

Ninì: Ombre Rosse Napoli è un progetto nato da poco e in costante via di definizione; questo poi è un momento un po’ complesso, col fatto che non ci si può vedere e con la precarietà che c’è, anche nell’animo, è difficile qualsiasi cosa. Il momento di coesione maggiore delle persone che fanno parte di questo progetto è stato attorno alla campagna Nessuna da Sola. Abbiamo trovato il modo per essere attive in strada durante il lockdown così da distribuire pacchi spesa e rispondere alle esigenze di alcune delle moltissime sex worker in stato di bisogno.

Con alcune di loro abbiamo stabilito dei contatti, con altre è stato più difficile. Molte ci raccontavano di abusi di ogni tipo acuti dall’esigenza di nascondersi per poter continuare a lavorare; in questa seconda fase le cose sembrano essere andate un pochino meglio, però di fatto le donne sono in strada senza clienti e siamo ad un livello di fame non indifferente.

Giuseppe: Il B-side pride è una pride coalition, nata dentro le realtà bolognesi di area tfq e rappresenta le realtà transfemministe e lgbtq non mainstream che hanno organizzato un proprio pride a partire da un confronto con le comunità. Il b-side pride è partito dal chiederci: come abbiamo costruito la comunità Lgbtq? quali sono i nostri strumenti oggi? Al momento fanno parte di B-Side Pride: Laboratorio Smascheramenti, il Mit, La Mala Education, movimento studentesco femminista di UniBO, Unilgbtq+, Elastico fa/Art, Ombre Rosse – tassello importantissimo – e altre; queste sono quelle con cui abbiamo iniziato.

Prima del periodo pandemico avevamo già organizzato progetti di mutualismo come la scuola di intercultura queer autogestita strutturata su una conoscenza condivisa (si affiancavano ad esempio le lezioni di italiano a quelle di arabo) e sulla costruzione di una comunità interlinguistica che mettesse a disposizione conoscenze, esperienze e saperi. Pane, Paillettes e Connessioni è nata quindi da una riflessione collettiva sul mutualismo che mettesse in rete tutte le nostre realtà, molte delle quali avevano già fatto altre esperienze di mutualismo e di costruzione di servizi dal basso (penso al consultorio autogestito della Mala o a quello del Mit), per poi trovarsi a fronteggiare l’emergenza della pandemia.

Contestualmente a Bologna si stavano muovendo altre cose, noi abbiamo partecipato a Don’t Panic – rete delle associazioni del terzo settore che hanno messo insieme realtà di movimento e non – e questo ci ha permesso di capire quali fossero i bisogni che stavano emergendo, anche perché i nostri servizi sono di comunità, centrati sulla comunità LGBTQ+ e non per un senso identitario, ma per ragioni di natura pratica: le nostre soggettività sono escluse dal welfare e i nostri bisogni non sono riconosciuti soprattutto dal punto di vista sanitario. La comunità T, ad esempio, è quella che soffre di più questa esclusione soprattutto dal momento che la scienza medica è stata pensata su corpi cis e su atteggiamenti eteronormati creando così enormi ostacoli all’accesso ai servizi sia da un punto di vista di numeri che di approcci (atteggiamenti tossici, ostacolanti e ignoranti).

Non si può quindi pensare il mutualismo senza una ridefinizione radicale di quella che è la gerarchia della cura, ad oggi ancora femminilizzata e fortemente escludente. Su questo la nostra riflessione si è legata a quella che le comunità queer e Non Una Di Meno portano avanti ormai da molto tempo.

 

(Foto dalla pagina Facebook di B-Side Pride)

 

Qual è la configurazione politica a cui mirano le azioni di mutualismo che avete messo in campo durante questo lungo anno di pandemia?

Anna: Nei momenti di criticità, soprattutto in una fase di precarizzazione collettiva e generalizzata del lavoro, le persone non ti deludono, si crea maggiore predisposizione a comprendere. Molte delle persone che si sono avvicinante a noi per sostenerci, erano anche curiose di capire come funziona il lavoro sessuale, capire quali sono i modelli, quali le tutele più adatte per le persone che entrano nei circuiti di prostituzione, quindi sia coloro che si autogestiscono, sia le vittime di tratta. C’è un interesse attivo a comprendere un lavoro che prima non si conosceva; anche nel femminismo si sta aprendo uno spazio di confronto e di riconoscimento di agency a quelle soggettività dissidenti, a quelle donne (cis o trans) che esercitano il lavoro sessuale e che prima non c’era.

Una cosa che forse non si è capita è stato l’impegno che è stato messo nel creare la piattaforma, che accoglie circa 18 realtà urbane d’Italia. Si è partito da quale base? Stiamo parlando di lavoro sessuale, nessun* sa niente, ma soprattutto c’è un forte stigma nei confronti di chi fa sex work, c’era la necessità di rendere la campagna Nessuna Da Sola virale perché altrimenti le persone non si sarebbero avvicinate, negandoci quel sostegno che ci serve per aiutare la rete (parte della campagna è stata infatti indirizzata a tamponare un bisogno materiale concreto, la spesa).

Essendo il lavoro sessuale stigmatizzato, non esiste una rete istituzionale. Non ci sono tutele e il sex work è più esposto alla violenza; una sex worker che, ad esempio, vuole denunciare un cliente violento è fortemente sfiduciata nel chiedere aiuto alle istituzioni. Come fai nel quadro legislativo presente, che nega riconoscimento a questo lavoro, a proteggerti? È come se attribuissero a te la colpa, “te la sei cercata”. Un po’ la retorica che si usa con lo stupro e si usa ancor più là, dal momento che il lavoro è legato al sesso. C’è un profondo stigma nei confronti delle comunità di sex working che non permette loro di vivere serenamente questo lavoro.

Pertanto, è stato fatto un grande lavoro mediatico per sollecitare questa comprensione e devo dire che aldilà dell’impegno nostro nel creare la piattaforma molte realtà si sono avvicinate per contribuire: le Sberle a Milano, che è un collettivo che fa una scuola di box popolare, hanno creato allenamenti per sostenere la campagna ad eco, intercettando altre palestre popolari e persone interessate che poi si sono avvicinate anche a percorsi di “formazione” sul tema. Poi c’è Frad, compagna di Roma, che ci ha fatto un logo per la campagna, Zerocalcare, o ancora la campagna Witches are Back organizzata da un piccolo gruppo di Dj e Edizioni Minoritarie che ci ha dato un contributo importante traducendo Star di Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, volto dei moti di Stonewall e protagoniste del movimento di rivendicazione dei diritti della comunità Lgbtqia+ e di chi fa sex work.

La risposta compagna è stata ampia e trasversale: il laboratorio Smaschieramenti, Mujeres Libres e il B-side pride a Bologna, Assembramentah a Napoli…insomma da Nord a Sud la risposta è stata importante, le persone hanno consapevolizzato e hanno scelto così di sostenerci. É la dimostrazione che c’è un interesse per il lavoro sessuale e quindi seppure le donazioni stanno continuando, il lavoro migliore che si può fare, è dare voce a chi fa lavoro sessuale. Bisogna creare delle leggi che tutelino chi fa questa attività, perché la pandemia ci ha mostrato i limiti del nostro sistema; fino ad ora le istituzioni hanno campato di rendita, c’è stato tempo, si è aspettato e abbiamo arginato un problema, ma queste persone esistono hanno una voce e vanno ascoltate: c’è bisogno di una seria rielaborazione della legge sul lavoro sessuale.

Ninì: Era talmente diffusa la condizione di bisogno che noi siamo a malapena riuscite a tamponare il bisogno di alcune e stiamo ancora agendo sulla emergenza; sebbene in questo momento non siano emerse situazioni di emergenza come quelle del lockdown c’è bisogno di preservativi, di tutto. È difficile in questo momento poter pensare a degli obiettivi, però Ombre ne ha: l’abolizione di ogni frontiera perché pensiamo che solo così si possa abolire la tratta, l’autodeterminazione rispetto al nostro lavoro e alla nostra vita in un’ottica che non sia né idealizzante, né vittimistica, essere riconosciute in quanto lavoratrici e avere così accesso alla pensione o semplicemente alla possibilità di avere un conto in banca.

Non ci sentiamo di prendere parola per la legalizzazione, ma per la decriminalizzazione, perché non riusciamo ad avere fiducia in uno stato che parla di noi in una maniera abominevole; sono state fatte negli anni delle proposte strampalate, riaprire i registri per farci pagare le tasse o riaprire le case chiuse, tutte situazioni che non tengono conto di quelle che sono le nostre rivendicazioni e i nostri desideri che nessuno, per altro, ci ha mai chiesti, eccezion fatta per Pia (Covre, del Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute, ndr).

Bisogna fare un lavoro culturale profondo sullo stigma e su che cosa che cosa significa fare lavoro sessuale, anche perché è un termine così ampio dentro cui ci sono le strippers, le massaggiatrici, le assistenti sessuali e nessuna si definisce lavoratrice sessuale e questo ci depotenzia molto. Se tu parli con le donne dei centri massaggi loro non sono lavoratrici sessuali, parli con le strippers e loro non sono lavoratrici sessuali, le assistenti sessuali la stessa cosa. C’è una enorme difficoltà a ricomporre la categoria, perché è talmente forte e interiorizzato lo stigma che quello da fare diventa un lavoro culturale. Sicuramente con la campagna Nessuna da Sola si è parlato tanto di lavoro sessuale e in una maniera decriminalizzante e questa è una roba importantissima dalla quale spero che non si torni indietro.

Anche il femminismo si sta interrogando su come approcciarsi, detto ciò il discorso sul lavoro sessuale è sempre ancora diviso tra stigmatizzazione e idealizzazione. Lavorare contro lo stigma significa operare sulla narrazione al negativo (“oddio le vittime del patriarcato”, “le vendute al patriarcato”) ma anche su quella al positivo (“ah che figo il lavoro sessuale”), oltrepassare lo stigma significa non cedere né da un lato, tanto meno dall’altro. La realtà è che è un lavoro come tutti, ci possono essere dei rischi, delle giornate sì e delle giornate no.

 

(foto dalla pagine Facebook di Ombre Rosse)

 

Giuseppe: Il nostro progetto parte dalla consapevolezza di dover rispondere a dei bisogni cui altrimenti nessuno avrebbe potuto rispondere. L’idea però non è sostitutiva, non abbiamo quindi intenzione di sostituirci allo stato ma di attivare dei processi politici. Su questo c’è stato un confronto profondo: come si può passare politicamente dalla risposta materiale ed emergenziale a un bisogno ad un ripensamento dei servizi, di riaccentramento del welfare sulle comunità? La costruzione di una risposta politica e condivisa delle comunità ai propri bisogni, attiva un percorso politico che mette le basi per ripensare l’ordine comunitario. In questo per noi è stato di grande ispirazione il lavoro che è stato fatto con la campagna crowdfunding, Nessuna Da Sola, coordinata dal Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute e Ombre Rosse.

Prima di tutto ci ha dato l’idea che un crowdfunding si potesse fare ed era una cosa non scontata; all’inizio ci è stata molta diffidenza su quali strumenti utilizzare, ma poi il risultato di quella campagna è stato talmente dirompente che ci ha dato la spinta a dire: “facciamolo anche noi”, ma senza sovrapporci quanto più intrecciando le tante realtà che, a partire da una autodeterminazione delle proprie comunità, si era attivata nella risposta a un’emergenza. Inoltre, sapendo bene quanto si stava già muovendo, si è deciso di offrire dei servizi complementari.

Per esempio, sapendo che il MiT attraverso il crowdfunding e una sua azione mirata sulla comunità, stava gestendo la parte della spesa secca (pasta, legumi) ma senza la parte del fresco (carne, pesce, verdure), a quella abbiamo provato a pensare noi. Abbiamo pensato ad un luogo che potesse aiutare a complessificare la risposta e così abbiamo costruito con Campi Aperti (coltivatori diretti, piccole aziende del bolognese fuori dalla grande distribuzione) una spesa solidale e una serie di buoni. Andando là abbiamo scoperto che loro avevano una loro moneta, il grano, e per noi è stato il coronamento di un progetto, perché non solo la risposta alimentare veniva sottratta alla grande filiera ma entrava in un scambio monetario altro.

Abbiamo deciso di muoverci a partire da quello che c’era intorno, abbiamo mappato bisogni e desideri attraverso l’autoinchiesta e il lavoro del focus group per prendere coscienza del e indagare il bisogno per poi costruire insieme una domanda politica. Questo è tanto più importante quando non parliamo tanto di rendite alimentari, ma di quei bisogni sociali che soprattutto nella comunità queer, intersecano necessità materiali e desideri. Dopo la mappatura, abbiamo pensato alla risposta costruendo insieme un servizio (stiamo cercando un sostituto per questo termine) e da qui ecco Pane Paillettes e Connessioni. Del Pane abbiamo parlato, parliamo di Connessioni.

Invece di riciclare o farsi regalare pc, abbiamo deciso di mettere al centro saperi autogestiti: ricicliamo i computer, recuperiamo la scheda madre e li rigeneriamo con Linux. Una quota di questi pc è andata alla scuola di intercultura queer e un’altra a chi si è trovato in DAD. Paillettes, invece, risponde a bisogni di socialità e tutto quello che non era possibile mappare, quelle sfumature che non entrano nei confini istituzionali o istituzionalizzati. Aver bisogno di una casa, ad esempio, significa aver bisogno di una rete, di una quotidianità. Tuttavia eravamo nel pieno dell’emergenza, la situazione cambiava continuamente e noi continuavamo a interrogarci, quindi forse Paillettes è stato l’aspetto più fragile del progetto.

Sicuramente siamo riusciti a metterci in connessione tra di noi, a costruire comunità, visto anche che molti spazi erano andati persi con le chiusure imposte. Da un punto di vista comunicativo è stato molto importante dire che i bisogni erano anche altri da quelli materiali.

 

Qui la pagina della campagna di raccolta fondi Nessuna da sola

Qui la raccolta Red Shadows del gruppo Witches Are Back a sostegno della campagna

Immagine di copertina dalla pagina Facebook di Ombre Rosse