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Respingimenti verso la Libia: la denuncia dal confine tunisino

36 migranti sono stati deportati a Zarzis, a confine con la Libia. Gli attivisti presenti sul posto denunciano l’ennesima violazione dei diritti umani e la responsabilità dell’Unione europea e delle sue politiche di esternalizzazione della frontiera in questa guerra contro la libertà di movimento.

Zarzis si trova nel governatorato di Médenine, nella costa sud della Tunisia. Vi risiedono poco più di 70mila abitanti. La sua posizione geografica vicina al confine con la Libia ne fa un brutale crocevia di migrazioni, di persone in fuga dall’ormai tristemente noto “inferno libico”.

Migliaia di persone provenienti dalla Libia portano con se i segni della detenzione nei campi formali e informali, di torture, stupri, lavoro forzato, estorsione. A questo si aggiunge l’aggravarsi della guerra locale tra i governi libici per il controllo del territorio. Chi attraversa la Libia per oltrepassarne le coste rimane inevitabilmente incastrato nelle maglie intricate di una dimensione bellica convulsa. Zarzis è una meta obbligata per coloro che fuggono e lì il viaggio si interrompe per poi riprendere verso il nord.

 

Le strade verso il mare e i viaggi verso l’Europa sono quasi del tutto bloccati dalle politiche di esternalizzazione europee e dal blocco delle imbarcazioni da parte della guardia costiera libica e dalla volontà di chiusura dei porti.

 

Proprio Zarzis, luogo di partenza di molti giovani tunisini, e di arrivo, soprattutto negli ultimi anni, di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana, soccorsi in mare o passati attraverso la frontiera terrestre, è stato meta della marcia conclusiva dell’appuntamento lanciato da Europe Zarzis Afrique. Il progetto nasce nel 2011, dall’incontro tra famiglie tunisine e attivisti italiani, creando quindi un contatto tra le due sponde del Mediterraneo. Ne fanno parte alcuni abitanti di Zarzis e di varie città italiane.

Molti sono stati i momenti d’incontro e le mobilitazioni di denuncia delle politiche migratorie dell’Ue e dell’Italia, indicate come responsabili delle morti nel Mediterraneo, e insieme alla Tunisia, come responsabili della scomparsa di tanti giovani tunisini in viaggio verso l’Europa. L’appuntamento lanciato dal progetto ha avuto luogo nella prima settimana del mese d’agosto, dall’1 al 5, e ha visto alternarsi diverse iniziative, laboratori su pratiche alternative di agricoltura, artigianato, pesca e turismo, per poi concludersi con una marcia verso la frontiera con la Libia, proprio a Zarzis, partendo da Tunisi, per seguire a ritroso il percorso dei migranti in viaggio.

 

Mentre il corteo raggiungeva il porto, nella mattinata di ieri sono state deportate dalla polizia 36 persone al confine con la Libia.

 

Attivisti e associazioni per i diritti umani hanno denunciato l’accaduto. Le persone deportate sono di nazionalità ivoriana, di cui 21 uomini, 11 donne di cui una incinta e 4 bambini. La polizia le ha abbandonate senza cibo né acqua. Inoltre, tale area è una zona ad alto rischio militare. Le associazioni tunisine hanno anche diramato un video che riprende l’abbandono dei migranti nel deserto e un comunicato di condanna. Da ieri pomeriggio gli attivisti stanno cercando le persone deportate e riportano da fonti attendibili che quest’ultimi si trovano in stato di detenzione, senza cibo né acqua. La polizia di frontiera non fornisce informazioni e non permette la ricerca delle persone.

Viene diffuso un comunicato stampa di denuncia contro la deportazione di Europe Zarzis Afrique, Bergamo migrante antirazzista, Campagna Lasciatecientrare, Caravana Abriendo Fronteras, Carovane Migranti, Dossier Libia, Movimiento Migrante Mesoamericano, Progetto 20k, Progetto Melting Pot Europa e dei partecipanti alle giornate internazionali a Zarzis.

Inoltre, viene rimarcato come la Tunisia non possa essere considerata un porto sicuro. Al di là delle volontà espresse sul web, secondo cui i migranti che raggiungono le nostre coste dovrebbero essere affidati al governo tunisino, molti fatti dimostrano che la Tunisia sia in realtà molto lontana dall’essere un porto sicuro in cui concludere un salvataggio secondo la definizione del diritto internazionale.

Inoltre, come riportato nel report di Amnesty International in Tunisia, le misure d’emergenza in vigore dal 2015 hanno continuato a conferire al ministro dell’Interno ampi poteri, compresa la facoltà d’imporre restrizioni alla libertà di movimento. Il ministero dell’Interno ha continuato a limitare la libertà di movimento, tramite l’applicazione ordini arbitrari, chiamati S17, che hanno confinato centinaia di persone nei rispettivi governatorati di residenza, giustificandoli come una misura necessaria per impedire ai cittadini tunisini di migrare e per poter entrare nei gruppi armati. Le misure di controllo delle frontiere definite dall’S17 hanno determinato arresti e detenzioni di molte persone, come viene documentato da avvocati per i diritti umani. All’arresto hanno fatto seguito vessazioni e intimidazioni, episodi di tortura e maltrattamenti, sia nei casi penali ordinari sia nei casi giudiziari inerenti la sicurezza nazionale.

 

La Tunisia non possiede una legislazione completa sulla protezione internazionale, e quindi non potrebbe garantire la sicurezza dei migranti, che è precondizione necessaria per essere ritenuta un porto sicuro.

 

Ricordiamo il caso del rimorchiatore Maridive 601, con a bordo 75 migranti, salvati lo scorso maggio e portati nei centri di detenzione, dopo la concessione dello sbarco, autorizzata solo a condizione che i migranti accettassero il rimpatrio volontario. Anche in questo caso una violazione della Convenzione di Ginevra che garantisce “principio di non refoulement”.

Uno degli ultimi casi è quello della barca Alex della piattaforma Mediterranea, quando dopo il salvataggio dei 54 migranti, Salvini impose la Tunisia come luogo d’approdo, anche se già dichiarata impraticabile dal tribunale d’Agrigento. Volontà che incontrò il rifiuto dell’equipaggio della Alex, tenendo la prua verso l’Italia.