OPINIONI

Regime di guerra

La guerra è venuta per restare e per cambiare tutti i tratti del nostro mondo. Finora siamo stati
ciechi, adesso è il momento di farcene carico

Sono almeno 50 anni, dalla caduta di Saigon, che non si vede una guerra come si deve. Intendo con gli aggressori cattivi, gli aggrediti simpatici e vincenti, i collaborazionisti che si aggrappano all’ultimo elicottero, la falce e martello che sventola sul Reichstag, i soldati con l’acqua alla vita sulla spiaggia di Omaha, i musi gialli, l’odore di napalm al mattino, la resistenza, gli eccidi, i Lager, i dittatori appesi per i piedi.

Ma neppure la guerra fredda, l’incubo nucleare, lo scambio delle spie sul ponte di Glienicke, le convulse trattative sui missili cubani, i maccarthisti ghignanti e i traditori con il colbacco.

Certo, siamo stati un po’ ciechi, anzi proprio ciechi, perché nel mondo le guerre si sono moltiplicate, la Siria è stata dilaniata e ridotta in macerie, due volte l’Iraq è stato invaso e l’Afghanistan pure, la Palestina agonizza e anche “bianchi come noi” in Jugoslavia si sono scannati fra loro e li abbiamo bombardati noi (ricordiamo quanto ha fatto un noto imprenditore vinicolo a Belgrado).

C’ha ragione papa Francesco, quando parla di una terza guerra mondiale a pezzi. Solo che la rateizzazione dell’orrore ne ostacola la ricezione.

Siamo stati perfino solidali, in alcuni casi a corrente alternata, con i palestinesi, più convintamente con i curdi nel Rojava (un po’ meno in Anatolia).

In complesso la guerra, percepita distrattamente attraverso gli schermi, non è stata messa a tema, non abbiamo immaginato che esistesse un nesso forte fra guerra e globalizzazione, anzi in pratica davamo per scontato che la seconda emarginasse la prima, almeno vicino a casa nostra.

Adesso constatiamo che la guerra sta fra noi e ci resterà a lungo e dobbiamo chiederci perché e darci da fare per impedire una rovina generale, visto che i device elettronici non sostituiscono ma veicolano missili e testate atomiche.

Di questo stesso ripresentarsi della guerra abbiano colto gli effetti collaterali: inflazione, possibile carenza di energia, difficoltà logistiche, minacce di razionamento, insopportabile propaganda congiunta e unificata di media e apparati di Stato.

I morti e le macerie finora li abbiamo visti solo in Tv – e tutto sommato non paragonabili ai documentari e ai ricordi della seconda guerra mondiale e neppure alle stragi mediorientali.

L’assuefazione al bombardamento di immagini sta sopravvenendo con l’abituale rapidità. Lo spettro nucleare è stato rimosso in fretta. Il sentimento è tuttora che la guerra è bella, gloriosa e non ci toccherà troppo.

Però, chissà, e l’opinione pubblica italiana, per fortuna, non si scalda troppo alle trombe della co-belligeranza e dei sacrifici patriottici.

A differenza della prima metà dello scorso secolo, abbiamo smarrito la consapevolezza del rapporto indissolubile fra mercato mondiale e guerra, ovvero della natura dell’imperialismo, e abbiamo condotto indagini sottili e più o meno valide sull’evoluzione del capitalismo ignorandone la dimensione bellica. Che ora appare connaturata e deflagrante nei processi di globalizzazione. Nonché irreversibile, per quanto restino auspicabili tregue e cessate il fuoco locali.

Siamo stati ciechi e ora dobbiamo aprire gli occhi e spostare la prospettiva, non soltanto cogliendo quanto la guerra ricostruisca e alimenti la follia identitaria e produca miseria e precarietà ma comprendendo quanto la lotta contro la guerra sia determinante per uscire dal capitalismo e dalle logiche imperiali contrapposte.

Di fronte a una terza guerra mondiale a pezzi e strisciante, a un regime di guerra permanente se non a un conflitto globale (per ora), come trasformare lo scontro inter-imperialistico in guerre civili, anch’esse a pezzi e striscianti? A questa altezza dobbiamo muoverci, con poche esperienze da citare e quasi nulla da imitare.

Potremmo, per cominciare, usare la chiave di lettura della guerra per interpretare e in parte prevedere l’andamento dei conflitti politici in corso, il ritorno dell’inflazione, l’accorciamento e gli intoppi delle catene produttive e delle reti globali, il presumibile fallimento della transizione ecologica in campo energetico e, in conseguenza del climate change e delle guerre, l’esplosione dei fenomeni migratori su scala ancora inimmaginabile.

I milioni in movimento nell’Europa orientale sono niente in confronto a quanti (almeno 100) sono in giro nel mondo e sono destinati a salire vertiginosamente per effetto diretto della guerra ucraina e del blocco dell’esportazione di grano (Maghreb, Egitto e Medio Oriente), della siccità e dei combattimenti innestati dal “grande gioco” russo-turco sul bordo settentrionale della Mesopotamia e in Libia.

L’Ucraina riqualifica e risucchia materialmente tutte le altre guerra e le formazioni mercenarie che le gestiscono (gruppo Wagner, attivissimo in Libia e Africa sub-sahariana, ceceni, siriani, affreux britannici e contractor Usa), facendosi epicentro e metro di paragone di ogni contesa e sperimentazione strategica.

Con una gigantesca operazione (questa, sì, “speciale”) di riduzione di complessità la guerra guerreggiata vorrebbe ripristinare tutte le categorie identitarie, nazionali e di genere, messe in discussione negli ultimi decenni, “semplificare” e binarizzare ogni pluralità in nome del “discorso della vittima” complementare al “discorso del vincitore” – Zelenskij vs Putin, l’interventismo umanitario vs gli anatemi di Kirill, il bianco Nato russofobo vs la Z slavofila.

Come dire, la somma di ogni orrore immaginabile, di ogni monnezza della civiltà.

Sebbene la gente abbia dimenticato l’abominio di due guerre mondiali e contempli stupefatta i guasti dei bombardamenti e la pratica quotidiana del massacro di civili e degli stupri come se non ripetessero scene familiari almeno ai più anziani, la propaganda di guerra non morde, non trascina consensi, non stimola volontà sacrificali di massa.

Pace e consumismo hanno coperto (in Occidente) le ingiustizie quotidiane, ma intralciano il progetto ostinato di reimporre un modello bellico di governance. Ciò non toglie che le élites dirigenti ci provino e si guardino bene dall’assecondare la riluttanza popolare a soffrire e morire – ma che egoisti!

Al contrario, non a caso proprio sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina, di fronte a timidissimi tentativi del M5S di sottoporli a una periodica approvazione parlamentare (neppure di bloccarli!), il governo tecnico di Draghi, in coerenza al suo mandato istitutivo “senza formula politica”, ha vigorosamente protestato contro il commissariamento dell’esecutivo posto sotto tutela del Parlamento (come se, appunto, non fossimo una normale repubblica parlamentare), sostenendone la completa indipendenza dalla rappresentanza eletta. La guerra giustifica – in maniera certo non saltuaria e occasionale – una nuova divisione dei poteri, in cui la decisione è trasferita a una cerchia ristretta che risponde più alla Nato e al campo di appartenenza che alla volontà popolare, perfino nella sua forma già delegata e addomesticata.

Lo stato di emergenza determina la Costituzione reale e, al solito, la guerra è il vertice e il compendio di ogni emergenza.

In modo del tutto complementare la figura del ministro degli Esteri, che nella sua contingenza corporea a nome Giggino era stato messo lì non per competenze particolari ma a rappresentare il socio di maggioranza della coalizione parlamentare che faceva da foglia di fico al “migliore”, viene sottratta alle dinamiche di partito e diventa una prerogativa di nomina o conferma del “capo”, come è tradizione dei monarchi costituzionali o dei regimi presidenziali.

Casi del genere si moltiplicheranno, nella stessa misura in cui la guerra produrrà tensioni sempre più forti nella base popolare espropriata e fra gli stessi partiti che dovrebbero rappresentarla in modo già da sempre alienato.

In regime di guerra la legittimità dei partiti non si calcola più sul grado di rappresentanza, d’altronde sempre più logorata, di una sezione del popolo, ma sulla conformità agli schieramenti internazionali coinvolti nel conflitto e al suo andamento sul campo.

Anche sul piano dei contenuti l’ordine delle priorità è subordinato alle prospettive della guerra –ciò che determina una ristrutturazione del bilancio e degli investimenti e in generale accresce le diseguaglianze, sia sottraendo risorse al welfare a beneficio degli armamenti sia squalificando come antipatriottici i conflitti sociali e le richieste salariali.

L’emergenza per definizione (la guerra) scaccia le emergenze reali, in primo luogo quella ecologica. Figuriamoci la povertà e la sanità – roba da sospetti pacifisti.

I processi sommariamente delineati sono irreversibili nel medio periodo, ma gli esiti non sono predefiniti anzi divergono paese per paese, come risulta dal confronto fra Italia e Francia. Nel senso che alle tendenze sacrificali e autoritarie si oppongono livelli diversi di reazione e di negoziazione della crisi.

Al limite, la stessa nube tiene in sé la guerra e la rivoluzione. Come la prima, anche le forze che le si oppongono procedono e procederanno “a pezzi” e naturalmente lo stesso pacifismo opera in modo contraddittorio, sotto ricatto dei belligeranti e sotto tiro dei “patrioti”, con defezioni ambigue (Balibar) o paradossali (Žižek).

L’interventismo umanitario e quello dei diritti umani avevano fatto da screditati battistrada e l’atlantismo trascendentale è la loro messa in ordine.

Immagine di copertina da Wikipedia