EUROPA

Recovery Fund: una questione democratica

L’approvazione del Recovery Fund avrebbe dovuto aprire una discussione pubblica su questo modello economico che ci ha portato sull’orlo della catastrofe ambientale e sociale. Invece assistiamo solo a una battaglia tra gruppi di interesse senza nessuna visione generale e di lungo periodo

La secondata ondata non si arresta e tutti gli stati europei si sono trovati costretti a reinserire misure restrittive e mantenerle anche in vista di Natale. Come ha scritto la Corte dei Conti Europea nel report sulle misure anti-Covid-19, l’impatto economico «non è stato uniforme a causa di vari fattori come le differenze nelle strutture economiche e delle strategie sanitarie per combattere la pandemia, così come sono stati diversi gli effetti delle chiusure nei vari settori economici». Questa situazione sta aumentando le divergenze tra gli stati membri, e all’interno delle società europee, mettendo a rischio l’intero sistema europeo e la sua coesione sociale.

Per questo a luglio del 2020, dopo mesi di misure nazionali contrastanti, prese sulla base delle capacità economiche e amministrative dei singoli stati, il Consiglio Europeo, dopo quattro giorni di negoziato, ha approvato il Recovery Fund, che ha l’obiettivo di sostenere i piani di investimento e riforme degli stati membri sul lungo periodo. Il fondo si compone di una parte di sovvenzioni, e di una parte di prestiti, e, come ben sappiamo, l’Italia è lo stato a cui spetta la quota più rilevante. Ora il nuovo bilancio settennale europeo (2021 – 2027), all’interno del quale è incastonato questo fondo straordinario, ha superato gli ultimi veti di Polonia e Ungheria nel Consiglio Europeo per approdare al Parlamento Europeo per il voto finale.

L’approvazione di questo fondo avrebbe dovuto aprire una discussione pubblica non solo su dove allocare le risorse, ma piuttosto una riflessione su cosa sia questo modello economico che ci ha portato sull’orlo della catastrofe ambientale e sociale. Ma nessuna discussione è stata aperta, e assistiamo, a ogni livello di governo, a una battaglia di gruppi di interesse che cercano di avere la fetta più grande della torta senza nessuna visione generale e di lungo periodo.

 

La trasparenza che non c’è

Non è certo semplice aprire una discussione pubblica dal basso, se tutte le trattative sono a porte chiuse. Infatti, i negoziati interni alla Commissione Europea, al Consiglio Europeo, negli organi informali come l’Eurogruppo, e in tutti i gruppi di lavoro e commissioni non sono registrati, in molti casi non sono trascritti, e nemmeno archiviati in maniera segretata. In nessun modo è possibile conoscere la discussione negoziale, nemmeno a scopo di ricerca scientifica.

La Difenditrice Civica (Ombudsman) dell’Unione Europea, Emily O’Reilly, ha richiamato più volte le istituzioni durante il suo mandato, e, ha inizio pandemia, ha scritto alla Presidente della Commissione e del Consiglio per ricordare che «tutte le decisioni relative alla pandemia, comprese quelle prese nell’ambito di procedure accelerate o di emergenza, devono essere prese nel modo più trasparente possibile, mentre le misure temporanee dovrebbero essere pubblicizzate, spiegate e riviste regolarmente». Questo fu un enorme problema anche durante la precedente crisi, come più volte denunciato da Jannis Varoufakis, dopo la sua esperienza come ministro delle finanze nel 2015 in Grecia.

 

La trasparenza non risolve certo il deficit democratico su cui fonda l’Unione Europea, istituzione sovranazionale il cui stesso organo esecutivo, la Commissione Europea, è nominato dagli stati membri, in trattative segrete.

 

Anche il sistema dello Spitzenkandidat, che avrebbe dovuto rendere più trasparente il voto europeo, grazie alla possibilità di votare un partito che già aveva nominato il candidato alla presidenza della Commissione Europea, è naufragato dopo una sola elezione. E Von der Layen è stata nominata al posto di Manfred Weber, Spitzenkandidat del partito popolare.

In più in questi decenni a Bruxelles è nata una fitta rete di lobby ed esperti chiamati direttamente o indirettamente a contribuire al processo legislativo europeo. Opinioni, pareri, o “spinte informali” sono ammesse in ogni passaggio nel corso del lungo processo legislativo europeo tra Parlamento, Commissione, e Consiglio. E in questo momento, come scrive the Corporate Europe Observatory «I lobbisti di molte industrie stanno riconfezionando opportunisticamente vecchie richieste, o sviluppandone di nuove, e usando la crisi del Covid-19 per giustificarle». Greenpeace ha denunciato il rischio di greenwashing del nuovo piano di ripresa nella sua ultima azione coordinata a livello europeo: «siamo fortemente preoccupati dal fatto che una parte importante dei fondi destinati alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica possano finire a finanziare piani dalla dubbia utilità – promossi peraltro anche da realtà responsabili dell’emergenza climatica in corso».

 

Il ruolo degli esperti e la carica dei 300

 

Negli ultimi decenni la necessità di regolamentare settori sempre più specifici, complessi e interconnessi ha reso la consultazione di esperti sempre più necessaria, a ogni livello di governo, dall’Unione Europea al piccolo comune, arrivando all’esternalizzazione di veri e propri pezzi del processo legislativo al di fuori delle istituzioni regolarmente elette attraverso la costituzione di agenzie indipendenti. A livello europeo negli anni ’80 esistevano solo due agenzie, oggi sono 51, con i più disparati compiti, dalla parità di genere alle telecomunicazioni.

 

Le accomuna una stessa logica: le istituzioni regolarmente elette non sono considerate competenti su determinati settori per i quali solo esperti e tecnici possono decidere in maniera indipendente e separata, senza la cosiddetta l’ingerenza della politica.

 

L’istituzionalizzazione di agenzie indipendenti, è andata di pari passo con la delegittimazione del dibattito parlamentare, e l’accentramento di potere nell’esecutivo e nei ministeri delle finanze, a loro modo considerati tecnici.

Se questo è il contesto, la fantomatica cabina di regia invocata da Conte, insieme alla carica dei 300 tecnici guidati da sei grandi manager indipendenti, non è altro che l’esito di questa lunga trasformazione delle democrazie rappresentative europee. Dietro questa truppa di 300 tecnici pare ci fosse l’agenzia di consulenza internazionale Mackenzie, come succede spesso, infatti, dietro l’expertise “indipendente” si cela personale collegato a doppio filo alle lobby del carbone e dei combustibili fossili, dei grandi gruppi di telecomunicazioni, delle banche e della finanza internazionale.

 

Di certo non bisogna negare la necessità dei pareri tecnici e competenti, ma come ci insegna la lotta No Tav in Val Susa, dove sono decenni che i comitati di esperti si rimpallano i dati, non esistono dati certi e universalmente validi, soprattutto per ciò che riguarda la relazione tra sviluppo, ambiente e salute.

 

I 5 Stelle a questa grande trasformazione della democrazia rappresentativa hanno provato a porre rimedio invocando risposte formali a problemi sostanziali: come le trattative di governo fatte in diretta streaming o le consultazioni online. La trasparenza è un mezzo della democrazia, ma di certo non scioglie il nodo della partecipazione democratica e dello strapotere dei grandi gruppi di interesse.

Ed è questa la questione che rimane aperta, di fronte a una politica istituzionale che diventa un patchwork di interessi, che il governo non è più in grado di armonizzare, come si riapre uno spazio democratico e di riflessione sociale? Come le istanze che provengono dalla società civile e dai movimenti sociali non diventano semplicemente uno dei tanti interessi da rappresentare al tavolo delle trattative? Forse non basta più ambire a un pezzo di torta, è lo stesso modo di dividere e contare i pezzi che va completamente trasformato. Se non la torta stessa.

 

 

Immagine di copertina: Azione di Greenpeace all’Summit dell’Unione Europea a Brussels di © Philip Reynaers / Greenpeace