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Razzismo, speculazioni e fallimenti. La terra di mezzo del neo-calcio.

La crisi di un calcio senza cultura, schiavo dei poteri forti, che non vuole cambiare e si maschera dietro la polemica sull'”invasione straniera” della Serie A

Il calcio italico si conferma terra di mezzo dal razzismo facile, landa provinciale del calcio europeo anche dal punto di vista culturale. L’ultima conferma arriva da Arrigo Sacchi, ex tecnico di Milan e Nazionale, che nei giorni scorsi ha parlato di “troppi calciatori di colore nelle nostre giovanili”. Prima di lui, ci aveva pensato Carlo Tavecchio, presidente della Federcalcio, a tessere le fila del razzismo istituzionale, con la frase tristemente nota sul giocatore straniero (di fantasia) Opti Poba, “che prima mangiava banane e adesso gioca titolare nella Lazio”. La chiosa, temporanea, di questa galleria degli orrori è arrivata dalla bocca di Zamparini, presidente maneggione del Palermo, che ha difeso Sacchi parlando di “esagerazione giornalistica, in fondo io i negri li chiamo così. E come si dovrebbero chiamare?”. Per non parlare del “molto nemici molto onore” pronunciato da Ancelotti in difesa di Sacchi.

Per spiegare questa impennata di razzismo da bar, non basta ricordare la rinomata povertà culturale che contraddistingue da sempre i vertici dello sport italiano, come anche le peggiori esperienze di tifo organizzato, ma occorre gettare un occhio sullo stato moribondo del sistema calcio. Invece di riformare sul serio un giocattolo ormai al limite del collasso (Parma docet), si mette in piedi un’operazione di distrazione di massa che individua nell'”invasione straniera” la causa principale del declino tecnico e agonistico.

Per trovare una smentita è sufficiente gettare lo sguardo oltremanica, al campionato inglese, che continua ad essere il torneo con più presenze straniere, senza che questo abbia significato alcun arretramento competitivo, anzi, esattamente l’opposto. In un mercato globale, compreso quello del professionismo sportivo, la questione è la qualità dell’investimento tecnico complessivo e dell’organizzazione di sistema, che non c’entrano un bel niente con la provenienza geografica e il colore della pelle dei giocatori.

Basta leggere la statistica (2014) sul numero dei calciatori cresciuti nel vivaio e lanciati in prima divisione, che vede l’Italia mestamente ultima con poco meno del 10%, mentre la media dei cinque campionati di prima fascia è di circa il 17%. La Spagna viaggia oltre il 22% grazie agli exploit giovanili di Barcellona, Real Madrid, Athletic Bilbao e Real Sociedad, presenti nella graduatoria dei primi dieci club per numero di giocatori prodotti dal vivaio che militano nella stessa squadra o in altra compagine delle cinque top-league europee.

Ma coltivare i vivai non significa operare sul discrimine della cittadinanza, immaginando impossibili barriere in entrata come in uscita. La dimostrazione plastica arriva dalla recente esperienza vincente della Lazio Primavera (scudetto, Coppa Italia e Supercoppa italiana), uno dei rari meriti della gestione Lotito, in cui si è affermata una rosa di giocatori di ottima prospettiva, composta da italiani e tanti stranieri, comunitari e non.

Il problema vero è la natura sostanzialmente parassitaria e lobbistico-mafiosa dell’impresa calcio. Le società vivono esclusivamente sui diritti televisivi (1 miliardo di euro, dal 2018, sborsati dal colosso cinese Infront), senza aumenti di capitale (di nuovo Lotito) né investimenti in strutture e stadi, umiliando in questo modo il ruolo del tifoso, ridotto a spazzatura, costretto alla passività in impianti obsoleti, costosi, scomodi e militarizzati.

In questo quadro, le società optano per una girandola di calciatori di media e bassa qualità, sperando in qualche plusvalenza miracolosa, con l’effetto di riempire le rose di figurine e non di buoni giocatori. Nel frattempo, l’obiettivo del Fair play finanziario assume la stessa autorevolezza dell’articolo 1 della Costituzione, preferendo navigare a vista, tra fatturati gonfiati, pignoramenti di pullman e prestiti obbligazionari, come quelli della Goldman Sachs destinati a Inter (250 milioni) e As Roma (200).

In particolare, i bond richiesti da James Pallotta serviranno a coprire i debiti esistenti, 131 milioni e, in parte, a fornire alla società le risorse per l’attività corrente, ma anche per finanziare il progetto dello stadio (che, è bene ricordare, non sarà di proprietà della società, ma di Pallotta stesso, che incasserà un affitto ad libitum). Obbligazioni che l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha giudicato BB+, il livello dei titoli spazzatura.

Lo scandalo della telefonata tra Lotito e Iodice è la cartina tornasole di questo impasse, fatto di colpi proibiti e scontro tra interessi e poteri. Da una parte la megalomania e l’arroganza del latinista de’ noantri, con una lunga carriera nel sottobosco della politica locale; dall’altra un tentativo di induzione e confessione del reato, costruito a tavolino (la telefonata incriminata è del 28 gennaio, la pubblicazione avviene due settimane più tardi), che oggettivamente sta favorendo altre cordate di potere. Ad oggi, infatti, è stato ottenuto un primo importante risultato: il ritiro della delega per le riforme al presidente della Lazio.

In questo teatro apparecchiato, risulta ipocrita e opportunista l’alzata di scudi mediatica in difesa delle piccole squadre, tirate in ballo in maniera sconsiderata da Lotito, se allo tempo non si mette in discussione un sistema strutturato attorno a gerarchie di potere immutabili, che considerano le squadre di provincia un fastidioso contorno da digerire in fretta (come puntualmente dimostrato dall’ostracismo pilotato all’ipotesi di sorteggi arbitrali – quasi – integrali).

Non solo. Citare le esperienze inglesi senza approfondire quel modello in tutti i suoi chiaroscuri, significa strumentalizzare uno scontro interno ai poteri del calcio. Partiamo dai numeri del sistema inglese: grazie alla qualità e alla dimensione globale dell’offerta calcistica, per il solo triennio 2016-2019, sono previsti 7 miliardi di euro. Metà della cifra viene divisa equamente tra i venti club che partecipano al campionato, mentre un 25% è destinato alle società in base ai risultati ottenuti ed al piazzamento in classifica; il restante 25% viene dato ai club in funzione delle partite che sono state trasmesse in tv.

Inoltre, a proposito delle nostrane velleità democratiche, in Inghilterra anche le piccole squadre godono di stadi di proprietà e una fidelizzazione straordinaria, che in molti casi si traduce in numeri al botteghino da far invidia a tante squadre blasonate del nostro paese.

Insomma, è possibile che siamo davanti ai titoli di coda dell’ultimo pezzo ancora intatto della Prima Repubblica, sopravvissuto agli scandali e a qualsiasi terremoto politico degli ultimi 20 anni. Le uniche variabili in grado di produrre una discontinuità potrebbero venire dall’alto, dal governo, attraverso la riforma del Coni e, di conseguenza, della Federcalcio (senza però alcuna garanzia di miglioramento); o dal basso, con un nuovo protagonismo dei tifosi, fuori e contro le logiche identitarie e corporative che hanno decimato il tifo organizzato negli ultimi anni. Le immagini dei tifosi del Chelsea che martedi sera, nella metro di Parigi, impediscono ad alcuni cittadini francesi neri di entrare nei vagoni, rischia di rappresentare però una tendenza pericolosa e non cosi minoritaria. Ma questa, forse, è un’altra storia.