DIRITTI

Questo è lo sballo dell’estate

Anche quest’anno, immancabile come un gavettone a Ferragosto, è arrivato il classico tormentone estivo di cronaca. Dopo l’anno degli incidenti stradali e il via libera ad ordinanze di ogni specie (analisi dell’urina, del capello, della saliva, finanche dell’anima), questa è l’estate della messa al rogo delle discoteche, della crocifissione dei giovani “devastati dai piercing” e della ri-scoperta dell’MDMA – per gli amici ecstasy, l’acerrima nemica dell’ordine e del decoro sociale.

Partiamo dai fatti: fino ad oggi la torrida estate 2015 annovera tre eventi specifici che hanno come minimo comun denominatore il decesso di giovani ragazze e ragazzi “dopo una serata da sballo”, caratterizzata dal consumo di sostanze psicoattive. A partire da qui si è definita la campagna dei media mainstream, attraverso inchieste spazzatura che hanno rovistato nelle “dinamiche giovanili” spargendo paura e terrore sul futuro (anteriore) che avanza. L’intento appare chiaro: da una parte, individuare nella sostanza in sé e nel contesto in cui viene consumata le cause solitarie dei decessi; dall’altra, colpevolizzare lo stile di vita e i comportamenti della vittima, condannata all’inferno della devianza. Un gioco antico e conosciuto, che si ripete con cadenza rituale, senza alcuna cognizione storica, scientifica, sociale. Questa volta il disprezzo velatamente razzista e sessista, la morbosità voyeuristica, la colpevolizzazione hanno colpito Ilaria Boemi, la ragazza di 17 anni morta a Messina pochi giorni fa. (qui gli articoli di Repubblica e del Corriere del Mezzogiorno)

Cosa hanno “scoperto” le redazioni di Repubblica e Corriere, le questure più zelanti, qualche parlamentare imbevuto di viagra e cocaina? Che nel 2015, diverse migliaia di persone, forse qualche milione, assumono sostanze illegali e vanno a ballare. Ma anche al cinema, a lavoro, allo stadio, a teatro, alla cena di famiglia. E meno male che l’alcool è legale, oltre a essere uno status symbol resistente alle mode, così passano sotto silenzio i 30 mila morti l’anno per il suo abuso.

Il dibattito che si è aperto a seguito della chiusura del Cocoricò non appare nuovo né originale. La stessa miope ipocrisia si scagliò diversi anni fa contro la scena dei free party. La crociata in primo luogo puntava il dito contro l’illegalità e l’incontrollabilità degli eventi. Il fatto che non fossero autorizzati e controllati li rendeva inevitabilmente più pericolosi delle serate in discoteca e, dunque, luoghi da evitare e da reprimere. Restano indimenticabili le parole del noto DJ Coccoluto in un’intervista rilasciata a Repubblica nel marzo 2008: “Nei club organizzati – disse Coccoluto – c’è gente professionale che paga le tasse e ha le licenze per organizzare feste come questa; qui invece pesa l’idea dell’approccio anarchico, la caratteristica del rave illegale che nasce contro tutto e tutti, e cresce sull’orgoglio di essere fuori dal sistema”. L’articolo si intitolava “Pasticche ed ex fabbriche: il brivido del party estremo”.

Oggi, però, sembra che il nemico abbia cambiato casa. Non si nasconde più nelle ex fabbriche temporaneamente occupate o nei camion di qualche tribe. Il male, quello vero, si muove tra le discoteche, i bagni e i parcheggi dei club dove, udite-udite, sembra addirittura possibile procurarsi della droga! Qualche giorno fa è stato, addirittura, il Foglio a riportare due elementi di realtà facilmente riscontrabili: 1) questi luoghi devono la loro sopravvivenza, in modo diretto e indiretto, proprio al consumo di sostanze. 2) l’atto stesso di ingerire una pasticca, un tempo considerato elemento di trasgressione e anticonformismo, è oggi una delle azioni quotidianamente più ripetute da milioni di persone. Una pasticca per qualunque ambito dell’esistenza: ciclo sonno-veglia, sessualità, controllo del peso, controllo della fertilità, depressione, ansia, performance scolastiche e lavorative, e chi più ne ha più ne metta. Al manifestarsi del problema, la risposta è quasi immediata. Basti pensare che per acquistare alcune tipologie di psicofarmaci è sufficiente la ricetta bianca del medico di base.

Alla retorica sulla droga che uccide e sui giovani depressi che trovano la morte in pasticche rimediate da qualche coetaneo che per una notte si trasforma in efferato pusher carnefice, si contrappongono tanti anni di ragionamenti ed esperienze concrete promosse dai movimenti antiproibizionisti, dalle associazioni, dai consumatori, dagli operatori sociali (una viene raccontata qui)

Un esempio su tutti è l’analisi delle sostanze psicotrope. Attraverso il Pill testing è infatti possibile sapere se ciò che si assume è tagliato con sostanze nocive. Questa buona pratica, che in Italia è relegata all’abito dell’illegalità, potrebbe davvero rappresentare un’ancora di salvezza per i tantissimi giovani che affollano i club, le serate e gli eventi notturni di un paese ormai dilaniato dal perbenismo più ipocrita. Questo sì un “servizio pubblico” che, da solo, ridurrebbe drasticamente il rischio di mortalità, con buona pace degli eserciti “antidroga” e dei sigilli ottusi e inutili.

Depenalizzazione, informazione capillare, prevenzione, riduzione del danno, usi creativi, sanitari e produttivi: si tratta di una lunga storia di esperimenti e lotte contro le mafie, la repressione cieca, per la libertà personale e per la salute pubblica, che oggi trova anche un primo riconoscimento politico nella proposta di legge sulla parziale legalizzazione della cannabis, depositata alla Camera da uno schieramento parlamentare trasversale.

Anche da qui, ma non solo, sarà possibile contrastare un discorso mainstream dispiegato a velocità massima su e contro i luoghi e le forme della socialità giovanile. Un’ondata allarmistica, autoritaria, proibizionista,che nulla ha a che fare con la tutela della salute, ma con la reiterazione di un modello di consumo subalterno, fondato sulla doppia retorica della colpa e della trasgressione a comando. Una campagna che declina sul terreno degli stili di vita e del consumo la stessa retorica ossessionata (e costituente) del “decoro”. Un tamburo battente che ha il sapore di una guerra sociale più ampia, che mira a ricondurre un pezzo di società nelle maglie del controllo e dell’ideologia dei sacrifici nel tempo della crisi permanente, per separare il piacere dai processi di autonomia e liberazione. Per privatizzare i desideri e socializzare lo sfruttamento. Nel tempo storico della religione del rigore e della povertà imposta, bisogna educare i giovani a un’etica della funzionalità di sistema e di un consumo compatibile con il mercato. Ce lo chiede l’Europa. E la mafia.