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A proposito di Welcome home di Spike Jonze

Un commercial “d’autore” della Apple con Anderson .Paak, FKA twigs e Spike Jonze, mostra una danza lisergica tra l’universo del reale e quello dell’immaginario. E sembra giocare con i sentimenti del nostro tempo: le paure della fine o di un Antropocene senza avvenire

Facciamo un gioco.

Guardate questo commercial della Apple firmato Spike Jonze con una domanda in testa che potrebbe essere formulata più o meno in questo modo: qual’è il nostro tempo? Già il brano di Anderson .Paak, composto ad hoc, ci racconta qualcosa in merito. «I’ma ride it ’till it’s over», dice infatti il ritornello.

 

 

Il prologo recita così: compressa nella metropolitana, affaticata e stanca, una giovane donna – è FKA twigs, la ballerina e cantante di origine giamaicana –  torna a casa. È sera, fuori piove, ombrello aperto e passo svelto verso casa. Colori scuri, rumori forti, umori tristi. Ascensore fino all’appartamento. «Sorry», «Excuse me» gli unici cenni, senza risposta. La chiave gira nella toppa e poi cade rumorosa nella ciotola all’ingresso. Una routine familiare.

È un appartamento qualsiasi. Carta da parati, puntine alle pareti, oggetti del quotidiano sparpagliati qua e là. Non c’è uno schermo, nulla di squadrato e sottile, la tecnologia è assente, come anche l’arredo minimalista degli appartamenti da pubblicità.

Attacca il flow di Anderson .Paak, voce roca della scena black americana. È Siri a sceglierlo, l’Homepod di Apple, una cassa portatile dalla forma totemica di cui questo video è pubblicità. Meravigliosa intelligenza artificiale come fu Her (2013) prima di lei. Una voce femminile anche questa, una tecnologia mitologica e futuristica.

Inizia così lo spot, di cui questo prologo occupa il primo dei quattro minuti successivi. Ora la giovane donna è sul divano e inizia l’ascolto ipnotizzata da un bicchiere d’acqua con ghiaccio che ondeggia a mo’ di pendolo nelle sue mani. Stiamo per andare oltre la distopia, per superare la fantascienza.

Nel cinquantenario di 2001: Odissea nello Spazio quella “white room”, sintesi mentale in cui aveva luogo l’evoluzione dell’essere umano, diventa uno spazio scenografico disegnato dalla ballerina stessa che abbraccia tutto lo spettro cromatico.

In questo video c’è tutta la matrice mélo che ha reso il cinema americano uno degli spettacoli più affascinanti e della fantascienza uno dei generi più coinvolgenti, da Kubrick a Spielberg, fino a Nolan e Jonze, e che da sempre racconta, come cantava Elvis, «home is where the heart is». La casa è infatti il luogo privilegiato in cui avviene il prodigioso gioco tra l’universo del reale e quello dell’immaginario, come dimostra anche la stanza multidimensionale di Interstellar (2014), altro esplicito riferimento.

In questa pubblicità per Apple, dunque, Jonze gioca con l’immaginazione come tecnica di associazione in cui l’immaginario simula il reale mentre la realtà prende i colori dell’immaginario. E questo può avvenire perché si muove agilmente all’interno della logica propria del digitale, che innanzitutto prevede un intervento touch, poiché le immagini oggi più che mai stimolano il gesto oltre a derivare da esso.

Se l’immagine analogica “mostrava” l’esistenza di un referente, inquadrava una porzione di visibile, l’immagine di sintesi “dimostra” il suo progetto: inizia a competere con le manifestazioni fisico-materiali del mondo e non più semplicemente a riferirvisi.

Questo video, sfruttando la strategia narrativa propria del cinema, spiega quell’intreccio contemporaneo tra arte e scienza che oggi chiamiamo data visualization e information design.

Ma come? In fondo è un breve spot pubblicitario…

Vi ricordate quello della Macintosh andato in onda una tantum durante il Super Bowl nel 1984? A rivederlo oggi sembra impressionante l’impatto che ebbe quel commercial affidato a Ridley Scott. Lì la protagonista, sorella ideale di Pris Stratton di Blade Runner, corre nei suoi shorts rossi lungo il corridoio della sala in cui è proiettato il discorso del Grande Fratello. Indossa una maglietta bianca su cui è stilizzato quello che sarebbe diventato il personal computer e ha chiaro ciò che deve fare per salvare il mondo dalla fine: scagliare un martello che infranga con veemenza il grande schermo e con esso l’enorme viso del dittatore. Al gesto seguiva il motto «on January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you will see why 1984 won’t be like “1984”».

 

 

Ora, molto si è detto su questo commercial, da ultimo Ruggero Eugeni lo utilizza per introdurre il suo libro sulla Condizione postmediale, proponendo l’idea che oggi sia necessario ripensare il funzionamento del panorama mediale contemporaneo a partire, come mostra la pubblicità, da una rottura con la corte dei media otto-novecenteschi. Quello spot compiva metaforicamente questa rottura distruggendo il grande schermo in favore del personal computer, mettendo in scena la violenza dello strappo attraverso un complesso narrativo che proprio il cinema, la fantascienza ancora una volta, aveva reso universalmente comprensibile.

Come profeta dell’Apocalisse, Macintosh proponeva un modo di intendere la parola “fine”. Fine delle dittature novecentesche, dei “vecchi” media, fine di esperienze angosciose e di schiavitù collettiva. L’era dello «Stay Hungry. Stay Foolish» stava iniziando.

La svolta profetizzata era allora di natura culturale, come è anche il commercial di Jonze.

Sono passati circa trentacinque anni e la Silicon Valley sembra voler scherzare nuovamente con i sentimenti del nostro tempo. Nessuna profezia però questa volta, piuttosto un gioco ardito con le paure del nostro tempo, le paure della fine o di un Antropocene senza avvenire.

Siamo configurazioni momentanee, non esseri speciali, sembra dirci il prologo. Abbandonate la modalità essenzialista e apritevi al flusso della materia e della vita, suggerisce la danza lisergica.

È per questo che la stanza si allarga, risponde agli stimoli, reagisce sprigionando colori e giocando con le luci come fossero tonalità emotive. In questo luogo dell’utopia si aprono dei varchi, una stanza nella stanza e poi in fondo– naturalmente – uno specchio. Ma attenzione, è un ambiente anche quello, non una parete riflettente. È proprio lo sguardo riflesso che viene interrotto distruggendo l’incontro narcisistico. La ballerina entra nello spazio dello specchio cavalcando l’onda mediale ‘til it’s over. Si lascia andare a una danza di coppia che la riporta sotto un’illuminazione teatrale e sulle tavole del palcoscenico che calca, infatti, con pirouettee arabesque. Bisogna ricordare i luoghi per inventarne di nuovi, allenare la memoria per sentire il sogno oltre la sua durata.

Solo ora questo viaggio allucinogeno ai confini della realtà può terminare: welcome home.

Apple ancora una volta non propone semplicemente un oggetto tecnico ma un’idea che suona più o meno così: «that’s just the beginning».

 

Would you stay if your heart had the power?

Would you run and find another life to imitate?

It’s important that we make the best of short time

You could never be my one and only, anyway

Say, can’t a young man dream?

Can’t we all live the life on a widescreen?

I’ma ride it ’til it’s over

I’ma ride it ’til it’s over

I’ma ride it ’til it’s over

I’ma ride it ’til it’s over