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MONDO

Pratiche, corpi e desideri: sguardi occidentali sulla maternità delle Altre

Nel contesto africano, i progetti umanitari “progressisti” diventano in realtà essi stessi produttori di nuove forme di oppressione in cui una parte di mondo continua a essere il modello a cui l’altra parte dovrebbe continuamente aspirare

In molti contesti dell’Africa subsahariana sono numerose le concezioni locali della persona che pongono grande enfasi sulla riproduzione, sulla discendenza e sulla continuità esistenziale. In Benin, ad esempio, i desideri di filiazione sono così socialmente rilevanti da apparire come una narrazione stereotipata secondo cui sembra che avere figli (meglio ancora se tanti) sia la cosa più importante sia per gli uomini, che per le donne.

Inoltre, sono spesso queste ultime, ostentando in modo fiero le proprie gravidanze, a farsi portavoce dell’idea secondo cui “essere una buona madre” costituisce uno dei criteri attraverso cui “essere una buona donna”.

Probabilmente è vero che persiste l’associazione maschile di fertilità e virilità, ma la fertilità sembra essere ancora più importante per le donne perché viene direttamente associata a una buona condotta, alla morale e al benvolere delle divinità: avere molti bambini equivale a essere una buona moglie e una buona educatrice e di conseguenza ad avere un riconoscimento sociale, nella propria famiglia e all’interno della collettività.

L’importanza attribuita alla fertilità femminile a livello sociale si ritrova anche a livello simbolico. In alcune analisi svolte da Nadia Lovell (2002) sulla simbologia vodu tra gli outachi del Togo meridionale emerge che la donna, proprio per il suo ruolo riproduttivo, è considerata ontologicamente «più completa rispetto all’uomo, più prossima agli elementi naturali e al mondo dell’invisibile […] poiché al suo interno possono abitare, oltre alle antiche divinità e agli antenati re-incarnati, anche futuri uomini e future donne» (cfr. N. Lovell, 2002, Cord of Blood, pp. 72-76).

A tale concezione della persona che pone l’accento sulla continuità esistenziale – nascere, nel pensiero Fon, come in altre elaborazioni dell’Africa nera, significa passare da un mondo all’altro – si aggiunge probabilmente un’altra idea, quella del “bambino ricchezza”, secondo cui ogni crescita della forza-lavoro familiare è ben accetta e, anzi, costituisce la promessa di un accrescimento della produzione e di una progressiva complessità dell’organizzazione sociale e familiare.

Ma se è chiaro che i desideri di maternità delle donne beninesi sono iscritti e determinati dalla struttura sociale in cui vivono, sarebbe fuorviante considerarle solo come soggetti completamente assoggettati, donne impotenti sottomesse ai vincoli della religione e del patriarcato, dedite solo alla famiglia e ai figli, rinchiuse nello spazio domestico, costrette sessualmente e di conseguenza designarle come vittime da salvare, nonché da emancipare.
Negli ultimi decenni si è assistito a un incremento di programmi umanitari che si occupano di “migliorare” la condizione femminile in Africa.

Attraverso campagne di sensibilizzazione vengono incentivate e promosse pratiche di contraccezione moderna finalizzate a limitare il numero medio di figli per donna, con l’obiettivo dichiarato di “liberare le donne africane” da “una cultura tradizionale” retrograda e patriarcale che le “obbliga” a sostenere numerose gravidanze e le relega in una condizione di marginalità e vulnerabilità.


Troppo spesso però, quando all’interno di questi progetti umanitari si parla di tutelare i diritti delle donne, lo si fa come se queste facessero tutte parte tutte di un gruppo omogeneo, definito dall’appartenenza allo stesso genere, e si potessero considerare emancipate solo se rispondenti a determinati canoni, ovviamente quelli occidentali.


È in questo senso che i progetti umanitari e le Ong, nel loro tentativo di promuovere, talvolta in buona fede, programmi di sviluppo progressisti, compassionevoli, antidiscriminatori, “femministi”, diventano in realtà essi stessi produttori di nuove forme di oppressione in cui una parte di mondo continua a essere il modello a cui l’altra parte dovrebbe continuamente aspirare.


Adottare l’Occidente come punto di vista epistemologicamente privilegiato significa – in continuità con la tradizione orientalistica – fare delle “donne oppresse del Terzo Mondo” lo specchio attraverso il quale trovare conferma, per contrasto, dell’apparente emancipazione delle donne occidentali (cfr. C. T. Mohanty, Under western eyes, 1984). E se la già rischiosa categoria della “donna oppressa” è generata con un fuoco esclusivo sulla differenza di genere, la categoria della “donna oppressa del terzo mondo” ha un supplemento che giustifica e favorisce un atteggiamento di stampo paternalistico.


Anche in ambito femminista è stata a lungo utilizzata la categoria astratta della donna africana per denunciare la “condizione” delle Altre attraverso una rilettura moralizzata e vittimizzata.

Maria Rosa Cutrufelli (1976), ad esempio, nel celebre Donna perché piangi? Imperialismo e condizione femminile nell’Africa nera scriveva: «tutte le donne africane vivono in un contesto politico economico dipendente» (ivi, p. 245), contribuendo a diffondere e consolidare quell’imperativo morale tipicamente eurocentrico secondo cui le africane devono essere salvate perché ostaggio degli uomini e di una cultura tradizionale patriarcale.


Quello che manca però in questi discorsi è chiedersi che cosa pensino le soggettività direttamente coinvolte nei progetti, quale sia la loro interpretazione degli schemi sociali di maternità, cosa significhi per loro essere madri, quali strategie mettano in campo per affrontare la propria quotidianità, quale sia la loro idea di emancipazione. In poche parole, ciò che manca è il riconoscimento delle donne africane come soggetti attivi, capaci d’azione, politici.


E così, invece di considerare le donne come protagoniste reali di processi di cambiamento, «il vocabolario della compassione sta creando delle donne che, forgiate come vittime autentiche della loro stessa comunità, intesa come cultura, sono solo gli oggetti verso cui si indirizzano le politiche che poi si giocano, ancora una volta, sui loro corpi e sulle loro vite» (M. Fusaschi, 2011, Quando il corpo è delle Altre, p. 57).


Fondamentale è invece tenere sempre in considerazione come le donne agiscono in prima persona, come interpretano, incorporano e reagiscono agli schemi sociali di maternità e quali sono le pratiche che utilizzano per sfruttare i sistemi in cui sono inserite come strumento di trasformazione delle proprie vite e di riappropriazione dei propri corpi. Spesso, infatti, i soggetti cui si rivolgono i progetti umanitari non si configurano esclusivamente come vittime passive e impotenti che restano in attesa di essere salvate, ma reagiscono alle forme di potere mettendo in atto pratiche di agency, anche se a volte in modi nascosti e poco evidenti.

Si rivela allora necessario abbandonare, almeno temporaneamente, il proprio bagaglio di preconcetti culturali e morali per riuscire a decifrare i rapporti di potere e le azioni di contrasto, anche quando queste assumono forme non note allo sguardo occidentale e non facilmente incasellabili entro le definizioni classiche di potere e resistenza (cfr. S. Mahmood, 2001, Feminist Theory, Embodiment, and the Docile Agent).

L’obiettivo non è sempre facilmente perseguibile poiché «interseca continuamente il pericolo dell’etnocentrismo (delle donne femministe occidentali) con il rischio del relativismo culturale (di cui l’antropologia è qualvolta complice nel reificare le differenze e non condannarle in certe circostanze storiche)» (B. Pinelli, Migranti e Rifugiate, 2019, p.80).

Ma una risposta a tali rischi potrebbe essere forse, come scrive Lila Abu Lughod, «anziché cercare di “salvare” le Altre (con la superiorità che implica e le violenze che comporterebbe) pensare di lavorare con loro in situazioni che riconosciamo come sempre soggette a trasformazione storica e tenere sempre in considerazione le nostre responsabilità dinanzi alle forme di ingiustizia globale, che sono potenti produttrici dei mondi in cui esse si trovano» (L. Abu Lughod, 2002, Do muslim women really need saving? p.789).


In altre parole, quando ci troviamo ad analizzare condizioni che in chiave occidentale interpretiamo come forme di dominio o subordinazione, è imprescindibile anzitutto storicizzare e comprendere le dinamiche che hanno prodotto o producono tali circostanze, riconoscendole come frutto (anche) di processi politici di scala globale, e, in secondo luogo, smettere di considerare le soggettività coinvolte solo come vittime da salvare, togliendo così loro ogni possibilità di azione e controllo sui propri corpi, e cercare invece di riconoscerle come esseri politici con desideri, intenzioni, aspirazioni e volontà che non necessariamente sempre coincidono con quelle che noi (occidentali) ci prefiguriamo essere le migliori per loro.

Tutte le foto di Pietro Repisti